Tra concorso straordinario e richiami alla meritocrazia: in Italia non esiste un percorso di formazione per gli aspiranti docenti
9 min letturadi Elio Antonucci*
Negli ultimi mesi la scuola sembra essere tornata al centro del dibattito pubblico. Sono molte le questioni che l’hanno interessata, in parte conseguenti alle misure di lockdown attuate dal governo italiano in seguito all’esplosione della pandemia di coronavirus. Oltre agli esami di maturità appena svoltisi e al tema delle modalità con cui le scuole dovranno affrontare la riapertura, oggetto delle discussioni sono soprattutto i due concorsi docenti previsti per i prossimi mesi.
Il concorso straordinario, ufficializzato il 6 giugno con l’approvazione del Decreto Scuola, dovrebbe svolgersi in settembre e portare all’assunzione di 32mila docenti con almeno tre annualità di servizio. Non si conosce ancora la data di svolgimento del concorso ordinario invece, il cui bando è stato pubblicato il 24 aprile. Le istanze di partecipazione sono aperte proprio in questi giorni e si concluderanno il 31 luglio.
In attesa dell’ufficializzazione delle date del concorso, ad animare il dibattito pubblico sono soprattutto le modalità di svolgimento delle prove. In seguito all’emanazione del decreto legge, l'ex ministro dell’Istruzione e attuale capogruppo di Forza Italia, Maria Stella Gelmini ha sottolineato in un’intervista che il “merito” dovrebbe essere criterio fondamentale per l’assunzione dei nuovi docenti, aggiungendo che la scuola «non può essere un ammortizzatore sociale per la creazione di ‘posti fissi’ a prescindere dal merito».
Vale la pena concentrarsi su queste dichiarazioni perché sono sintomatiche di un modo tipico di trattare il tema dei docenti scolastici.
Innanzitutto, c’è la narrazione intorno agli insegnanti con il posto fisso, che è un grande classico del dibattito pubblico italiano. In un mondo del lavoro che si muove sempre più velocemente verso la maggiore flessibilità lavorativa con conseguente precarizzazione delle condizioni di lavoro, gli impiegati statali sembrano rappresentare un'anomalia in quanto unica categoria di lavoratori con garanzia di contratto stabile. In questo quadro i docenti sono una categoria particolarmente esposta: che fare affinché siano i meritevoli e non gli scansafatiche a guadagnarsi il privilegio del posto fisso?
In verità, il quadro è più complesso di quanto questa narrazione suggerisca. Lungi dall’essere il paradiso dei posti fissi, la scuola ha visto crescere in maniera continua il numero della propria classe di docenti precari. La carenza di organico di ruolo ha spinto le scuole ad avvalersi di un numero sempre maggiore di supplenze annuali. A fronte di 85.150 cattedre vacanti, il numero dei docenti precari impiegati nelle supplenze ammonta a 200 mila, stando ai dati elaborati da CISL scuola. È da ricordare, inoltre, l'abuso dei contratti a termini senza una previsione certa per l'assunzione in ruolo: molte supplenze sono fino al 30 giugno e poi riprendono in autunno. Questa pratica è stata già riconosciuta come ingiusta dalla Corte Europea.
In aggiunta, le dichiarazioni di Maria Stella Gelmini, associando impropriamente il concorso al concetto di “ammortizzatore sociale” ed evocando i presunti pretendenti al posto fisso, minimizzano di fatto la finalità principale del concorso: la regolarizzazione di migliaia di docenti esperti che già lavorano da anni nelle scuole in condizioni precarie. Tra i requisiti fondamentali c'è infatti la richiesta di aver svolto tre annualità (ogni annualità è pari a 180 giorni di insegnamento durante l'anno scolastico) di servizio in una scuola statale (di cui una nella classe di concorso o per la tipologia di insegnamento per la quale si concorre), oltre a essere in possesso della laurea o dell’abilitazione specifica per la classe di concorso.
Oltre al concetto di merito, che è piuttosto problematico come criterio da applicare per selezionare i futuri docenti (il concetto è da anni sotto attacco da ricercatori di varia provenienza per via della sua opacità che lo rende difficilmente valutabile e perché giustifica l’attuazione di misure socialmente inique, come spiega questo articolo sul New Yorker), le parole dell'ex ministro toccano però un altro tema importante: la questione delle prove di concorso con cui si procederà alla selezione dei candidati.
Innanzitutto, si sta molto discutendo della prova selettiva prevista per il concorso straordinario. Al momento sembra essere stato raggiunto un accordo tra sindacati e Ministero per lo svolgimento di un test al computer con sei quesiti, di cui cinque a risposta chiusa e una a risposta aperta da svolgere in inglese. A maggio, il giornalista e scrittore Christian Raimo aveva evidenziato i limiti della prova selettiva a risposta chiusa prevista dal MIUR e aveva chiesto di individuare una forma più adatta per selezionare i docenti adatti all’insegnamento, in quanto “il concorso è praticamente l’unico momento in cui esista una possibilità di verificare le capacità didattiche degli insegnanti”.
Riflettendo su questi dibattiti sorge il dubbio che si voglia chiedere fin troppo al concorso e che la questione centrale non sia tanto la modalità di svolgimento delle prove di concorso, quanto l’effettiva formazione dei candidati.
Per quanto si possano incrementare i sistemi di valutazione, un concorso pubblico può difficilmente riuscire a essere garanzia della formazione di migliaia di candidati su un campo di competenze che spaziano dalle conoscenze della materia d’insegnamento alle abilità pedagogiche, dalle capacità empatiche fino alla conoscenza dei processi di integrazione e intercultura che riguardano ormai l’intero contesto scolastico odierno.
Più ci si addentra nella questione più si comprende che è appunto la formazione dei docenti che dovrebbe essere al centro del discorso. Messa da parte la questione sul concorso straordinario che riguarda, come detto, docenti precari che già lavorano da anni nelle scuole, chi sono i candidati che affronteranno il concorso pubblico ordinario? Hanno ricevuto una formazione adeguata che permetterà loro di affrontare l’eventuale immissione di ruolo con sufficiente preparazione?
Una volta impostata la questione su questo problema, ecco che l’attuale situazione italiana si delinea finalmente nella sua chiarezza: l’Italia attualmente non prevede nessun tipo di formazione per gli aspiranti docenti.
Per capire i motivi di questa situazione occorre ricostruire i cambiamenti che hanno caratterizzato la scuola negli ultimi anni. Chi come il sottoscritto si è laureato negli ultimi 5 anni, ricorda la grande riforma che avrebbe dovuto trasformare il meccanismo del Tirocinio formativo attivo (TFA) in Formazione Tirocinio e Inserimento (FIT). Valigia Blu ne parlò in un articolo di qualche anno fa.
Leggi anche >> Scuola, dal tirocinio alla cattedra: l’odissea degli aspiranti insegnanti
Il TFA era un periodo di formazione degli insegnanti di almeno dieci mesi, istituito annualmente dalle università pubbliche a partire dall’anno accademico 2011-2012 e a spese degli aspiranti docenti (in media 2500 euro), che permetteva il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento. In questo periodo i futuri abilitati erano tenuti a frequentare alcuni corsi teorici per lo più di didattica e a svolgere un periodo di tirocinio pratico nelle scuole in presenza di un tutor per favorire l’inserimento nelle classi. Per accedervi era necessario aver conseguito la laurea e possedere tutti i crediti previsti nella propria classe di concorso. Una volta ottenuta l’abilitazione si doveva attendere il concorso docenti, che in questo senso aveva il compito di assumere dei docenti già formati e già selezionati.
In seguito al Decreto legislativo 59/2017, che è parte dell’insieme di riforme che va sotto il nome di Buona Scuola, il TFA veniva sostituito con il FIT che era un simile percorso di formazione teorica e pratica degli insegnanti che portava al conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento. A differenza del TFA, il FIT avrebbe dovuto avere una durata maggiore (si parlò di due-tre anni) e avrebbe dovuto prevedere un compenso per il futuro docente.
Questo nuovo percorso formativo non è mai stato attivato. Quando nel 2018 si bandì in fretta il concorso ordinario non fu materialmente possibile far partire i primi percorsi FIT e si decise di permettere la partecipazione al concorso a tutti coloro in possesso di una laurea, con corrispettivi crediti previsti nella propria classe di concorso, e di aggiungere la certificazione di 24 crediti in materie psicologiche, antropologiche e pedagogiche, che di fatto sostituivano la formazione che sarebbe spettata al FIT. Questa decisione provocò una corsa alla ricerca dei crediti mancati da parte di migliaia di laureati, ottenuta a proprie spese (500 euro per il pacchetto di 24 crediti), e all’organizzazione repentina di corsi da parte delle università pubbliche (che all’epoca non tutte furono in grado di assicurare). Gli esami per certificare il conseguimento dei 24 crediti si svolgevano tramite dei quiz.
Con la legge di bilancio 2019 del governo Conte I, i FIT sembrano essere stati accantonati e ancora oggi l’istituzione di un percorso di formazione dei docenti non pare essere al centro dell’agenda di governo. Sono dunque già tre anni che per gli aspiranti docenti l’abilitazione all’insegnamento che permette loro di partecipare al concorso consiste semplicemente nello svolgere degli esami universitari corrispondenti ai crediti della propria classe di concorso e nel conseguimento dei 24 crediti aggiuntivi in materie psicologiche, pedagogiche e antropologiche, quasi sempre mediante test a risposta chiusa. Non è previsto alcun periodo di formazione o di pratica nelle scuole.
Risulta chiaro come il problema fondamentale sia di fatto l'assenza di un vero percorso formativo che abiliti all’insegnamento, questione che finisce per rendere il dibattito intorno alle modalità del concorso un problema secondario. In questo contesto il discorso sul “merito”, assecondato da Maria Stella Gelmini e da altri, finisce per essere un vero e proprio specchietto per le allodole perché pone l’accento sulla preparazione dei singoli candidati, ma omette di menzionare le responsabilità dello Stato italiano rispetto all’assenza di un percorso per la loro formazione.
Nel contesto attuale non è difficile individuare il merito di singoli candidati: ci sono tantissimi aspiranti docenti qualificati che hanno svolto dottorati e tirocini all’estero, molti dei quali, come abbiamo ricordato precedentemente, già insegnano nelle scuole con contratti precari. Quello che manca invece è l’investimento sulla formazione di base della classe docenti futura e su un percorso di abilitazione regolare che limiti la creazione di nuovi precari.
In assenza di un percorso formativo per gli aspiranti docenti, non ha molto senso pretendere concorsi più duri e più rigorosi perché non è in questo modo che si migliorerà la qualità dei candidati. I concorsi hanno una propria funzione specifica che non può sostituire quella di un percorso formativo, unico strumento in grado di fornire degli standard generali di conoscenze e competenze per tutti gli aspiranti docenti.
Forse in questo modo si potrebbero anche regolamentare meglio le assunzioni e permettere l’organizzazione di concorsi che consentano di sostituire le cattedre vacanti, evitando la formazione di eserciti di precari che si accumulano di anno in anno.
Per quanto possa risultare fallace giudicare la situazione italiana comparandola a quella di altri Stati che hanno senza dubbio condizioni sociali, politiche e storiche diverse, la situazione italiana appare più unica che rara al confronto. La Spagna, per esempio, prevede la frequentazione di un master (equivalenti a 1500 ore di lavoro) che fornisce competenze didattiche, sia teoriche che pratiche nella propria materia di insegnamento (ndr, Master en Formacion de Profesorado). In Germania non solo sono previsti corsi in pedagogia fin dalla triennale (Lehramt), con l’obbligo di un periodo di tirocinio pratico in una scuola, ma il percorso di inserimento nelle scuole si completa, una volta conseguita la laurea, con un ulteriore periodo di tirocinio retribuito di qualche mese (Referendariat). Forse la realtà più composita e per certi versi vicina alla situazione attuale italiana è quella francese in cui la formazione dei docenti segue il superamento del concorso (in verità ci sono due tipi di abiltiazioni il CAPES per diventare professore certificato e l’Agrégation, che ha condizioni di contratto più favorevoli). In questo sistema il primo anno di lavoro del neo-assunto è adibito esplicitatamente allo svolgimento di attività didattiche accompagnate, che consentono l’inserimento nelle scuole. C’è da dire che a partire dal 2013 è stato istituito anche un vero e proprio Master per l’ insegnamento, l’educazione, e la formazione (MEEF), che prevede dei crediti in pedagogia e dei periodi di tirocinio retribuiti, ma che non è vincolante per la partecipazione al concorso.
In questo senso occorrerebbe forse prendere una decisone sulla situazione italiana se si voglia ripristinare la formazione dei docenti precedente al concorso pubblico e arrestatasi con il FIT, per garantire una migliore selezione al momento del concorso ordinario, o spostarla al periodo seguente all’immissione di ruolo, come avviene in Francia. Solo in questo modo si potrebbe giungere finalmente a stabilire la vera funzione dei concorsi pubblici se come concorsi atti a stabilire l’avvenuta formazione dei docenti o come concorsi per accedervi.
Nel contesto di un mondo in rapida trasformazione sia dal punto di vista sociale che economico sono sempre più numerose e delicate le responsabilità che si affidano alla classe docente. Agli insegnanti si chiede di tenere insieme una comunità scolastica sempre più multietnica (ndr, dati relativi all’anno 2017-2018), di affrontare la questione sempre più centrale dell’inclusività, in classi eterogenee in cui gli studenti con disturbi dell'apprendimento (DSA) rappresentano il 5,6% nelle scuole secondarie (ndr, dati 2019 ), di essere in grado di affrontare la digitalizzazione delle piattaforme didattiche, questione che è tornata al centro dell’agenda politica in seguito all’emergenza coronavirus e all’adozione di didattica a distanza. In questo quadro la questione della selezione dovrebbe essere messa al riparo da facili strumentalizzazioni ed essere declinata piuttosto in funzione di un discorso chiaro sulla formazione dei docenti che garantisca il conseguimento di tutte queste competenze di base.
Con una classe dei docenti che finora si è presa sulle spalle le mancanze di sistema che caratterizzano la situazione italiana, c’è da sperare che il dibattito sulla formazione si spogli delle vecchie battaglie ideologiche, affinché si assicuri ai futuri aspiranti docenti una formazione didattica specifica che favorisca la loro assunzione regolare senza trasformarli in nuovi lavoratori precari.
*Dottorando in Filosofia all'Università di Colonia
Immagine in anteprima Steve Riot via Pixabay