Il male che mi hanno fatto le parole di Concita De Gregorio
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L'altro giorno a Campomarino, in Puglia, è arrivata una famiglia composta da padre, madre e bimbo di cinque o sei anni. Lo guardo perché non capisco se è un maschio o una femmina, ha i capelli biondi e lunghi e i lineamenti delicati. Sua madre mi fulmina e io ci metto un po' a capire che lo fa perché suo figlio è un bambino con autismo. Mentre il marito gioca con il bambino, lei rimane di vedetta a controllare se qualcuno guarda troppo il figlio o se i suoi versi possano infastidire i vicini. Nessuno ci fa caso, è solo un bambino che gioca.
Due giorni prima agli Alimini assisto a una scena preziosa. Un ragazzino urla al suo amico che gli ha tirato una pallonata in faccia “mongoloide di merda". Non faccio in tempo a chiedermi se sia tornata di moda la parola “mongoloide” che vedo la madre del ragazzino alzarsi dalla sdraio, prenderlo per un braccio e urlargli: “Ti rendi conto di quello che hai detto? Sai cosa vuol dire? Adesso vieni con me e te lo spiego". Ho pensato che i tempi stessero cambiando in meglio se una madre sgrida un figlio per un insulto abilista o se un bambino con autismo non viene fissato.
È stato l'editoriale su La Repubblica intitolato “Il valore di un selfie“ di Concita De Gregorio a smentire il mio ottimismo. Un editoriale che nasce da un fatto successo a Viggiù lo scorso 31 luglio quando sei ragazzi tedeschi, tra cui l'influencer Janis Danner, distruggono la statua ottocentesca “Domina" di Enrico Butti presente nella Villa Alceo, da loro affittata, mentre tentano di fare un video.
Dico la verità, io nemmeno ho capito subito a cosa si riferisse De Gregorio. Non avevo letto la notizia né seguo influencer, ma soprattutto sono rimasta con gli occhi fissi sulle prime frasi: “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero state alle differenziali, seguite da un insegnante di sostegno che diceva loro, vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca", e poi continua, “deficienti che hanno letteralmente un deficit cognitivo, non è mica colpa loro, ce l'hanno”, questo per descrivere gli influencer tedeschi.
Ho fatto la prima elementare nel 1982 e per un pelo ho scampato le classi differenziali che sono state abolite nel 1977 con la legge 517. Nelle classi differenziali venivano messi i bambini con disabilità, con problemi di linguaggio o semplicemente immigrati e poveri, spesso le loro classi erano in un sottoscala e da lì guardavano i bambini “normali” e liberi. La legge 517 ha permesso alla scuola e alla società di imparare a convivere con le molteplici differenze e diversità, o almeno avrebbe dovuto. Cosa c'entra questo con gli influencer e la distruzione della statua?
Un anno fa sono andata a vedere la presentazione del libro “Ognuno ride a modo suo" di Valentina Perniciaro che racconta la storia di suo figlio Sirio. Quando Sirio è arrivato, tra il delirio del pubblico perché è ormai una piccola rockstar, con una gesto veloce della mano la madre gli ha pulito la bava che scendeva dalla sua bocca. La paralisi facciale di Sirio gli porta ad avere la scialorrea, che può dipendere da diverse patologie, tra le quali sclerosi laterale amiotrofica (SLA), sclerosi multipla, tubercolosi, tumori della bocca, demenza, ictus, malattia di Parkinson. Nel caso di Sirio la mancata deglutizione e la bocca sempre aperta lo porta a sbavare di continuo. Il gesto di Valentina nel pulirlo mi ha riportato indietro nel tempo, a quando mia madre puliva la mia bava decine di volte al giorno o stendeva sul mio cuscino una doppia federa che la mattina trovava intrisa di saliva. Sbavavo sempre e gli altri bambini o ragazzini mi guardavano schifati e mi allontanavano da loro. Per anni sono stata chiamata mongoloide, handicappata di merda, sono stata bullizzata in ogni luogo e da ogni persona, soprattutto da quelle che avevano e hanno ancora oggi parole di accoglienza verso tutti, parole appunto. Ai fatti era tutto un gran sbuffare, un imitare la mia voce, la camminata, quanto rompe questa che non mi fa fare battute sulla disabilità e si offende se la chiamo spastica.
Ecco cosa credo che abbia tirato su De Gregorio con il suo editoriale composto da offese gratuite a bambini e adulti che hanno davvero un deficit cognitivo e combattono tutta la vita per avere un ruolo in una società che continua indifferente a scartarli: traumi e rabbia. Ha calpestato la loro, anzi, la nostra dignità come se fossimo niente. Ha offeso i nostri genitori e chi si prende cura di noi, ha innalzato barriere culturali che sembra non vogliano essere abbattute.
Io da persona con disabilità mi sono sentita ferita e offesa. Mi ha fatto tornare in mente un episodio di quarant'anni fa, quando una bambina con boccoli biondi mi ha fermato per strada mentre stavo tornando a casa e mi ha chiesto “sei mongola?” e alla mia risposta negativa mi ha tirato uno schiaffo in faccia, mi ha sputato addosso e mi ha urlato “fai schifo”. Quando i due adulti che avevano assistito alla scena si sono alzati non hanno difeso me, ma hanno preso lei per mano dicendole “su, andiamo a prendere il gelato" mentre io speravo almeno in una loro consolazione. Questo per dire che molto spesso le persone senza voce si affidano a quelle più autorevoli per essere protette e da queste vengono spesso “tradite”.
L'articolo di Simona Lancioni, responsabile di Informare un'H, definisce l'editoriale “un capolavoro di abilismo". Ma qui, per me, si va oltre. Le parole di De Gregorio sono cariche di violenza e disprezzo, sono razziste e denotano il retroterra culturale duro a morire sul pensiero comune di disabilità. L'abilismo arriva con le scuse del giorno dopo. Scuse sommesse, in cui i “cerebrolesi sono persone meravigliose afflitte da un danno" e con un ma. La colpa è del contesto non compreso (contesto che qui non c'è semplicemente: si è mai vista una persona con disabilità arrampicarsi su una statua?) e del politicamente corretto che paralizzano il pensiero e l'azione soprattutto delle persone di sinistra. Scuse che fanno ancora più male dell'editoriale in sé perché non c'è mai una presa di responsabilità piena, ma sempre una giustificazione, voi non avete capito cosa intendevo, con voi non si può più dire niente. Scuse che spesso non sono nemmeno arrivate come nel caso di Massimo Cacciari o che, se sono arrivate, come nel caso di Marco Travaglio, sono state come sempre peggio dell’offesa in sé. Scuse che comunque non arriveranno mai alle persone con disabilità perché sono considerate da sempre meno di niente e non degne di richieste di perdono.
Da secoli e oggi più che mai c'è una fiera prevaricazione del più forte su chi è considerato il più debole, del potere su chi non ha voce. Gli intellettuali come De Gregorio dovrebbero avere il compito di migliorare il mondo, aiutarlo ad aprirsi alle diversità, ma non solo sono i primi a chiudersi nella loro bolla, molto spesso contribuiscono a peggiorarlo.
“A volte sarebbe meglio affogare”, ho detto alla mia compagna l'altro giorno, galleggiando nel mare pugliese.
“A volte sì”, mi ha risposto lei “ma siamo in due e a nostro modo continueremo a nuotare”.
Siamo in due, in quattro, in dieci, in mille. Faremo la differenza, ci riusciremo.
Immagine in anteprima: Deborah Righettoni con i suoi genitori