Non solo un popolo di badanti: la comunità ucraina in Italia
8 min letturaIrina ha 35 anni ed è originaria di Kropyvnytsky, una cittadina dell’Ucraina centrale. Quindici anni fa, finito il percorso di studi, è arrivata in Italia, a Perugia, per raggiungere sua madre, che era già nel nostro paese dal 2000. «Mia mamma è venuta per bisogno, per lavorare, come hanno fatto tante altre donne ucraine. Da vent’anni assiste anziani e disabili, fa la badante, come dite voi - afferma -. Ha lavorato in tante famiglie, poi, quando ha potuto, ha fatto arrivare noi: prima mio fratello poi me».
Un percorso del tutto simile a quello della famiglia del suo compagno, Oleksy. «Anche mia madre ha lasciato la nostra città, Starokostjantyniv, vent’anni fa, prima per lavorare come assistente familiare, poi come operatrice socio-sanitaria. Dopo qualche anno, quando si è stabilizzata, siamo arrivati noi con un ricongiungimento familiare. Ma oggi il nostro pensiero è più che mai in Ucraina». Irina e Olesky in questi giorni faticano anche a prendere sonno, i cellulari squillano in continuazione, l’orrore della guerra arriva su WhatsApp in un flusso costante di immagini, video, messaggi vocali. «È impossibile da spiegare. Alcuni miei amici sono al fronte, altri sono sotto le bombe, ci raccontano di come provano a mettersi in salvo - spiegano. - E questa sensazione di non poter fare niente è devastante. L’unica cosa che continuiamo a fare è alzare la voce, denunciare, chiedere alla comunità internazionale di fermare questa follia». Li incontro a piazza Santi Apostoli, sabato 26 febbraio, durante la manifestazione organizzata dalla Rete Pace e disarmo contro l’aggressione militare russa, insieme ad altri connazionali venuti da diverse città italiane per gridare la loro rabbia.
Con 236mila presenze la comunità ucraina in Italia è la più grande d'Europa. Nel nostro paese è al quarto posto tra le nazionalità degli oltre 5 milioni di stranieri regolarmente soggiornanti, dopo Albania, Marocco e Cina. Una presenza stabile dall’inizio degli anni 2000, tanto che ormai nel 77% dei casi i cittadini ucraini hanno un permesso di soggiorno di lungo periodo, mentre i nuovi ingressi sono soprattutto di natura familiare, si tratta cioè di ricongiungimenti. Tra le caratteristiche principali c’è quella di essere una comunità con una componente femminile nettamente prevalente: le donne sono circa l’80% (183mila) degli ucraini in Italia. La maggior parte ha fatto un percorso simile a quello delle mamme di Irina e Olesky.
Partite da sole per cercare lavoro, spesso in seguito alla chiamata di una connazionale già in Italia, si sono stabilizzate anche grazie alle grandi sanatorie del 2002 e del 2009, che hanno coinvolto in particolare i lavoratori domestici. Solo dopo aver regolarizzato la loro posizione e aver ottenuto un titolo di soggiorno hanno portato qui i loro figli. «La comunità ucraina vanta una lunga storia nel nostro paese e un forte radicamento», spiega a Valigia Blu Luca Di Sciullo, presidente del Centro studi e ricerche Idos. «Quattro su cinque sono donne, che hanno innestato una vera e propria catena migratoria: le pioniere hanno trovato lavoro nel settore domestico e negli anni si sono specializzate nei servizi di cura alla persona. Così, tramite il passaparola, sono diventate molto richieste nel settore. La domanda è sempre rimasta alta, considerato anche il bisogno di assistenza di una popolazione anziana come la nostra».
Olga è arrivata in Italia nel 2005 da Sumy (Cymn), una città situata a nord est dell’Ucraina, e da allora ha fatto assistenza agli anziani in diverse famiglie di Roma. Nel suo paese lavorava nell’edilizia come geometra, ma una volta rimasta vedova e con due figli piccoli da crescere, ha deciso di seguire il consiglio di un’amica e venire a lavorare qui, dove lo stipendio da badante è superiore a quello che aveva in patria continuando a fare il suo lavoro. «Non ho avuto scelta, volevo che i miei figli avessero un’istruzione adeguata e che potessero andare all’università - spiega -. Oggi però l’enorme sacrificio di staccarmi da loro per assicurargli un futuro si sta trasformando in un incubo. Sapere che i miei ragazzi sono lì, in quell’inferno, e io a migliaia di chilometri di distanza, mi tormenta».
Li chiamano “orfani bianchi”: sono quei bambini che in Romania, Moldavia, Ucraina e altri paesi dell’Est Europa crescono senza le madri, partite per prendersi cura in altri paesi di famiglie che non solo le loro. L’altra faccia di questo fenomeno è quella che alcuni studiosi chiamano “sindrome Italia” e che colpisce le loro madri nel nostro paese o una volta tornate in patria: un malessere diffuso che si palesa con un insieme di malattie invalidanti, tra burn out, stress, depressione e attacchi di panico. E che si origina dalla nostalgia di casa, la preoccupazione per i propri cari e la continua sospensione di vita tra due mondi distanti.
Dal 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’offensiva russa, per le donne ucraine che vivono in Italia questo continuo stato di ansia rischia di diventare la norma. Fuori dalla Basilica di Santa Sofia nel quartiere Boccea, a nord di Roma, uno dei luoghi di aggregazione della comunità ucraina della Capitale, Olga e le altre connazionali si confortano a vicenda dopo la messa della domenica del perdono, che annuncia la Quaresima per i cristiani ortodossi. C’è chi racconta di un tentativo fallito dei familiari di lasciare il paese, chi delle notti passate nei seminterrati adibiti a bunker, chi confessa di voler tornare a casa per stare vicino ai propri familiari. Alina si gira verso le amiche e con la voce tremante dice soltanto: «Mio figlio mi ha scritto, mi ha detto che va a combattere, è un incubo».
Mentre parliamo c’è un via vai di persone, arrivano davanti alla basilica per dirigersi poi in un edificio adiacente con borse della spesa stracolme. Dentro ci sono alimenti in scatola, bevande a lunga conservazione, pannolini per bambini, coperte, vestiti, medicinali. Il parroco, don Marco Semehen, ha trasformato il retro della basilica in un punto per la raccolta di materiali e beni di prima necessità da inviare in Ucraina attraverso le associazioni. In un volantino distribuito ai fedeli c’è scritto cosa portare. Tra i beni richiesti anche farmaci antidolorifici, garze, bende e anticoagulanti per le ferite da combattimento. «Stiamo ora raccogliendo beni di prima necessità da inviare in patria, i primi pacchi sono partiti subito, attraverso diverse realtà associative. Passano per il confine occidentale dove sono stati allestiti centri di distribuzione e poi vengono smistati. A questo si unisce una raccolta di fondi che stiamo facendo in chiesa: andranno alla Caritas Ucraina per l’aiuto ai tanti sfollati interni - dice -. Tanta gente ci propone il suo aiuto, ci sono famiglie italiane che chiamano dicendo che sono disposte a ospitare i profughi ucraini, il mio cellulare squilla continuamente».
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Tra i tanti messaggi di solidarietà uno arriva sul cellulare di Olga: è di Anna, una signora per cui ha lavorato sette anni fa. “Ciao, come stai? Se non ricordo male sei ucraina. Volevo solo dirti che ti siamo vicini, non riusciremo mai a fare quello che hai fatto tu per la nostra famiglia, ma se hai bisogno, chiamami”. Non è il solo, dice, arrivato in questi giorni: «Tante famiglie italiane ci chiamano, solo le famiglie per cui abbiamo lavorato in questi anni».
Tassello fondamentale per il welfare familiare italiano, in questi anni le donne ucraine, seconde solo alle rumene per l’impiego nel settore, hanno permesso di sopperire alle tante mancanze del sistema di assistenza per le famiglie con minori o con persone non autosufficienti. Giocando un ruolo essenziale, non sempre riconosciuto tra turni massacranti e paghe poco adeguate. Dietro lo stereotipo assai diffuso di un popolo essenzialmente di “badanti”, termine nato con un’accezione negativa e inferiorizzante, si nascondono infatti gli squilibri del mercato del lavoro, di cui le donne straniere sono le prime vittime. Inquadrate in mansioni di basso livello anche se svolgono funzioni paramediche o sono iper qualificate. Stando ai dati raccolti dal Ministero del Lavoro, i cittadini ucraini occupati nel nostro paese hanno infatti un’istruzione elevata, molto al di sopra della media dei cittadini non comunitari. Il 46,6% possiede almeno un titolo di studio di secondo grado, il 20,8% ha frequentato anche l’università, in un panorama dove la maggior parte dei lavoratori provenienti dai paesi non UE ( 59%) arriva solo alla licenza media. In particolare, all’interno della comunità, sono proprio le donne ad avere livelli di scolarizzazione superiori: possiede una laurea il 22,3% delle occupate, a fronte del 14,8% degli uomini, un valore decisamente superiore a quello registrato su tutta la popolazione femminile non comunitaria (16,3%).
«Anche se diplomate, laureate o altamente specializzate nella maggior parte dei casi trovano un impiego come assistenti familiari - aggiunge Di Sciullo -. Oltre a essere sottomansionate, spesso vengono impiegate per meno ore di quelle che sarebbero disponibili a lavorare, con contratti part time e ‘contrattini’. Nei casi di impiego ridotto, poi, succede che si aggiungano ore di lavoro in nero. E così, mettendo insieme più occupazioni, queste donne finiscono a lavorare giorno e notte. Infine c’è l’area del grigio: in molti contratti vengono indicate meno ore di quelle effettivamente svolte. E questo crea problemi dal punto di vista previdenziale, considerando che si tratta di lavoratrici con un’età superiore alla media, in molti casi prossime alla pensione».
Secondo una stima di Idos e AssindatColf, l’associazione nazionale dei datori di lavoro domestico, gli over 50 rappresentano ormai oltre la metà dei lavoratori impiegati nel comparto, mentre è drasticamente calata la presenza di colf, badanti e baby sitter under 30. Una situazione peggiorata anche dai due anni di pandemia, che hanno impedito un ricambio della forza lavoro. «L’Italia è un paese che invecchia e che ha continuo bisogno di impiegare persone nel settore della cura. Ma da 12 anni restano chiusi i canali regolari di ingresso per giovani lavoratori dall’estero, anche in comparti di attività dalla domanda crescente, come appunto quello domestico - aggiunge il presidente di Idos -. Nel frattempo continuiamo a impiegare poco e male la forza lavoro straniera già presente, peraltro crollata di 160.000 unità nell’anno della pandemia. Quel che sta avvenendo nel comparto domestico è paradigmatico di una situazione generale che dovrebbe interpellare i decisori politici».
A peggiorare la situazione c’è il sommerso, con un’irregolarità molto diffusa nel settore: l’Osservatorio nazionale Domina stima circa un milione di colf e badanti che lavorano in nero. “In questi giorni drammatici, abbiamo visto le tante comunità ucraine che risiedono nelle nostre città riempire le piazze e chiedere di fermare la guerra, con una forte risposta di solidarietà e vicinanza da parte del nostro paese”, ricorda la Campagna Ero Straniero. Nella nota si evidenzia che circa 20.000 hanno aderito alla regolarizzazione del 2020 col desiderio di uscire quanto prima dalle maglie del lavoro nero e poter godere di tutte le garanzie e i diritti che spettano a lavoratrici e lavoratori nel nostro paese”.
Secondo un monitoraggio della campagna, a quasi due anni dal varo della misura, l’esame delle domande procede con forte rilento: “Come abbiamo più volte sottolineato, tale ritardo nella realtà significa precarietà perché la mancanza del permesso di soggiorno impedisce di fatto di poter accedere a tutte le tutele previste per le persone straniere residenti nel nostro paese”. Tutele e possibilità che in un momento di crisi come quella attuale stanno diventando indispensabili per la comunità ucraina. Ero Straniero chiede, in particolare, di permettere i ricongiungimenti familiari andando oltre “i limiti procedurali attualmente posti dalla normativa italiana e con semplificazione delle relative prassi amministrative, soprattutto per quanto riguarda la richiesta di documenti e attestazioni difficilmente recuperabili in situazioni di emergenza".
Immagine in anteprima: piazza Santi Apostoli, a Roma, manifestazione organizzata il 26 febbraio 2022 dalla Rete Pace e Disarmo – Foto di Eleonora Camilli