La salute mentale dei giovani e i danni del sensazionalismo mediatico
8 min letturaSi viene periodicamente risucchiati in un vortice di informazioni a percentuali che accresce le preoccupazioni già esistenti fino a offuscare il riconoscimento delle ampie incongruenze interne a una notizia e a pregiudicare la comprensione di un fenomeno in un determinato contesto spazio-temporale. Può sembrare paradossale ma sta accadendo anche per un tema delicato e complesso come la salute mentale: il ciclo del panico morale sta facendo il suo corso.
Tracciato in diverse versioni da Amy Orben nel 2020 e da Christopher Ferguson nel 2010 per illustrare la costruzione di una comunicazione sensazionalistica attorno all’impatto psicologico delle nuove tecnologie e dei videogiochi, il ciclo del panico morale rallenta le ricerche scientifiche integre e trasparenti e ritarda i cambiamenti culturali e strutturali nella società. Ciascuna generazione tende poi a guardare con ilarità ai cicli che hanno caratterizzato le generazioni precedenti (ad esempio, il panico alla diffusione di bicicletta, radio e fumetti, per citarne solo alcuni), spesso incosciente di starne costruendo altri.
Abbiamo adattato la struttura del ciclo del panico morale in modo da estendere le sue applicazioni ad altri fenomeni psico-sociali che riguardano la contemporaneità.
Il punto di partenza è rappresentato dalle preoccupazioni della società verso un determinato tema. Tali preoccupazioni dipendono sia dal proprio sistema di credenze (politiche, religiose, culturali, ecc.) sia dall’esposizione a quel tema che può avvenire con l’esperienza diretta o attraverso la mediazione dei sistemi di informazione. In un determinato luogo e momento storico i media dominanti focalizzano l’attenzione su quel tema. I professionisti della comunicazione interpellano determinati accademici e intellettuali – più o meno competenti od onniscienti – per avere pareri autorevoli e allo stesso tempo gli enti interessati al tema prendono posizione. Ne consegue una proliferazione di analisi del tema che vanno incontro alle aspettative della società pur non avendo una provata validità scientifica. Le esagerazioni nelle interpretazioni e la semplificazione dei fattori implicati che caratterizzano le notizie, assieme all’accrescersi delle preoccupazioni al loro diffondersi, costituiscono l’armatura e il calcestruzzo per la costruzione del panico morale attorno al tema in questione. La visibilità garantita dalla raggiunta popolarità del tema porta all’intervento pubblico di personalità politiche o di interi partiti che, turbati, diffondono quelle analisi e si impegnano con la comunità, rassicurandola sulle decisioni e sugli interventi che attueranno. La ricerca in quella direzione sarà più agevolmente valorizzata e finanziata da denaro pubblico. Il tema, ormai estrapolato dal contesto e dalla complessità dei suoi fattori, viene ridefinito in una versione verosimile che asseconda le preoccupazioni ormai diffuse e amplificate. Ogni posizione critica e tutti i dati affidabili che contrastano la versione dominante sono tenuti fuori dallo scenario informativo. Tale versione potrà quindi occupare i diversi spazi di comunicazione con il contributo dei diversi attori fino a che sarà utile. A questo punto, non necessariamente con un ricambio di attori, si procede all’ancoraggio verso un nuovo tema, senza che nessun cambiamento sia stato attuato nella comprensione e gestione del fenomeno attuale. Questo ciclo potrà essere riproposto al momento opportuno, mentre si riparte con un nuovo panico.
Nella copertura delle notizie sulla salute mentale, in questi giorni abbiamo assistito alla ripetizione di un ciclo di panico morale che era già stato ben collaudato nel periodo pre-pandemia ma è diventato molto più popolare e partecipato proprio per la precarietà che il periodo accentua e per i suoi scopi. La gara a quotare i disturbi degli adolescenti è uno dei risvolti più sconcertanti in questo tentativo strampalato di farsi carico della sfera psicologica della salute e della malattia mentale.
Il rischio, ormai concreto, è che si verifichino cambiamenti minimi o nulli nel processo di dismissione dei già insufficienti servizi psichiatrici e psicologici del sistema sanitario nazionale iniziato da diversi anni. Riducendo alla pandemia che stiamo vivendo i fattori scatenanti il disagio, perché tali sono le spinte alla semplificazione proprie del ciclo del panico, l’ulteriore rischio è che restino immutati i fattori causali connaturati al sistema di società in cui viviamo che ha progressivamente ristretto gli spazi di espressione e di aggregazione. Ci si limiterà al più ad azioni di emergenza senza pianificare una ristrutturazione a lungo termine.
L’esame di tali rischi esula, tuttavia, da una modalità di costruzione delle notizie che mira ad alimentare o a strumentalizzare le preoccupazioni della società. Non è un caso che l’innesco del ciclo del panico sulla salute mentale avvenga puntualmente in concomitanza con le ipotesi governative di nuove restrizioni per controllare la trasmissione del virus SARS-CoV-2. Le preoccupazioni per gli adolescenti sono maggiormente quotate in prossimità del rientro a scuola o della possibile attivazione della didattica a distanza e poi dimenticate a tempo. In questi due anni abbiamo visto dimostrata non solo l’irrilevanza di dati certi per l’avvio del ciclo del panico ma la vera e propria costruzione di un genere di ricerca “mastodontica” e ingannevole a beneficio del ciclo.
Il risultato è stato e continua a essere quello di considerare la riapertura delle scuole – scongiurando “lo spettro” o “il demonio” della DaD - come la risoluzione di tutti i mali. Tuttavia, dal 2020 non è stato attuato alcun intervento sistematico di prevenzione interno alle scuole, che erano e rimangono un luogo di esacerbazione del rischio di disturbi mentali e condotte suicidarie per studenti e studentesse più vulnerabili.
Quella che noi vediamo ripetuta in questi giorni è una vera e propria ridefinizione del tema, successiva alla sua semplificazione, che sta producendo una narrazione irresponsabile sui suicidi nei più giovani non priva di conseguenze.
Gli errori nella copertura mediatica in tema di suicidio ne determinano l’incremento, inducendo emulazione (quando ne vengono forniti tutti i dettagli) e normalizzazione (quando viene presentato come una via accettabile di risoluzione dei problemi).
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Cosa ci aspetteremmo da una comunicazione responsabile sui suicidi nei più giovani? Innanzi tutto, l’ammissione che in Italia non sono disponibili per le diverse fasce di età dati nazionali sui disturbi mentali e non sono accessibili i registri di morti violente.
“Non li conosce nessuno questi dati, semplicemente perché nessuno in Italia ha un contratto con la polizia e i carabinieri per accedere ai registri di morte violenta. Se, ufficialmente, non sei in contatto con questi enti e il nostro sistema giudiziario non lo consente, allora evidentemente nessuno può dirci con esattezza e soprattutto in tempo reale che cosa sta accadendo. Quello che uno può fare è raccogliere i titoli di giornali e delle agenzie di stampa e dire cosa sta succedendo in base a questa copertura del tutto selettiva. Il rischio è che si faccia cattiva informazione potenzialmente dannosa. Il suicidio viene presentato come una catastrofe nella catastrofe, una reazione comune, accettata e comprensibile, vista la sofferenza generalizzata” mi aveva raccontato un anno fa il professor Diego De Leo, psichiatra e psicoterapeuta, già presidente dell'Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio (IASP) e co-fondatore dell'Accademia Internazionale per la Ricerca del Suicidio (IASR). Lo avevo sentito proprio in occasione del manifestarsi di un ciclo del panico agli inizi di febbraio 2021: completate le fasi senza il prodursi di cambiamenti reali, l'attenzione era stata poi spostata altrove.
In secondo luogo, nella copertura mediatica dovrebbero essere riportati i dati internazionali attualmente disponibili sulla stabilità e in certi casi sulla riduzione del numero di giovani morti per suicidio nel 2020 e nel 2021, rispetto agli anni precedenti. In Inghilterra, secondo i dati del National Child Mortality Database (NCMD) per la fascia di età inferiore ai 18 anni, sono stati rilevati un totale di 193 decessi per suicidio (il 3% dei decessi) nei periodi dal 1° aprile 2019 al 31 dicembre 2020 e dal 1° aprile 2020 al 31 dicembre 2021. I risultati di confronto non hanno dimostrato un incremento dei decessi per suicidio nel 2020 rispetto al 2019.
Per lo psichiatra Louis Appleby, uno degli autori dello studio, la coesione sociale sperimentata durante la pandemia potrebbe avere contrastato l’incremento dei suicidi. Tuttavia, occorre continuare a osservare e a fare prevenzione supportando le persone più preoccupate e isolate, mantenendo attivi i servizi di salute mentale per le situazioni di crisi e diffondendo messaggi pubblici che infondano speranza.
Suicide did not rise in early pandemic & reason may be social cohesion. What does that mean for #suicideprevention in current crisis?
•maintain support for people fearful or isolated
•keep MH services going esp for anyone in crisis
•public messaging: we will get through this.— louis appleby (@ProfLAppleby) December 16, 2021
L’andamento è confermato per i primi 9 mesi del 2021: secondo i dati dell’ufficio nazionale di statistica inglese, rispetto al periodo pre-pandemia, non si è registrato un incremento dei decessi per suicidio nei più giovani.
I dati della Finlandia, il paese europeo in cui la mortalità per suicidio è la più alta tra i giovani (con il 26% dei decessi dai 15 ai 24 anni), registrano una riduzione media nelle diverse fasce di età. Selezionando i gruppi di età inferiore o uguale a 19 anni, si osserva che nel 2020 i decessi per suicidio si sono ridotti nei maschi (i più vulnerabili, con circa i 2/3 dei suicidi) mentre hanno avuto un lieve incremento che prosegue dal 2019 (rispetto al 2018) nel gruppo delle adolescenti.
I dati statunitensi del CDC, Centers for Disease Control and Prevention, riportano una riduzione del 3% dei decessi per suicidio nella popolazione generale, nel 2020 rispetto al 2019. È la prima volta che viene rilevata una diminuzione dopo quasi due decenni di incrementi, ha scritto su NPR Becky Sullivan, aggiungendo che, secondo il rapporto, nel 2020 sono morte per suicidio 46.000 persone, 1.600 in meno rispetto all'anno precedente. Tuttavia, la tendenza sembra essersi invertita nei bianchi ma negli altri gruppi i numeri sono in aumento, soprattutto tra gli uomini.
Nelle donne, ha spiegato Sally Curtin ricercatrice di statistica del CDC, “il decremento percentuale maggiore è stato per le femmine bianche non ispaniche. In realtà c'è stata una riduzione del 10% che ha raggiunto la significatività statistica. Ma anche per le donne il decremento si è osservato a partire dai 35 anni. Per le più giovani di età compresa tra 10 e 34 anni, i tassi erano gli stessi o addirittura aumentavano leggermente. Per i maschi, c'era un quadro misto. I maschi bianchi non ispanici, così come i maschi asiatici non ispanici, hanno fatto registrare una riduzione, ma i gruppi di maschi minoritari hanno riportato incrementi. Per gli uomini di colore non ispanici si è osservato un incremento, così come per gli uomini indiani d'America non ispanici. I gruppi per i quali c'era un decremento tendevano a essere di mezza età o di età avanzata, a partire dall'età di 35 anni”.
Resta ancora molto da sapere su questi dati e su altri che saranno pubblicati con riferimento al 2021, in modo da individuare ulteriori fattori protettivi e da identificare le persone più a rischio verso le quali indirizzare interventi immediati per ridurre l'impatto di una crisi economica che si sta intrecciando con quella pandemica.
Resta la lacuna italiana nella disponibilità e nell’accesso ai dati, perché le percentuali locali estrapolate dal loro contesto, l'aneddotica o i risultati di improvvisate indagini online, proprio perché utili ad alimentare la tensione, rischiano di fare danni.
Quello che, infine, dovrebbe fare una comunicazione responsabile sui suicidi nei più giovani – sulla salute psicologica e sui disturbi mentali - è farne conoscere la complessità e seguire lo stato delle ricerche condivise rispetto ai possibili fattori di vulnerabilità e alle azioni da attuare.
Nell’approfondire lo studio dei fattori di rischio di suicidio nei più giovani, una ricerca recente condotta da Cathryn Rodway, Louis Appleby e colleghi sui decessi per suicidio in età compresa tra i 10 e i 19 anni, ha evidenziato che un quarto dei casi aveva sperimentato un lutto. Questo tipo di studio e la divulgazione dei suoi risultati è fondamentale per le raccomandazioni mirate che ne derivano: il supporto psicologico dopo la perdita di una persona cara dovrebbe essere reso accessibile a tutti i ragazzi e le ragazze ed è necessaria una sensibilizzazione su questo tipo di ascolto nei vari contesti, inclusa la scuola.
Se vi vuole davvero comprendere il fenomeno, non amplificarlo e affrontarlo con gli strumenti della prevenzione è prioritario sfuggire al ciclo del panico in corso. Nelle notizie è importante che non sia mai omessa l'indicazione chiara dei servizi di aiuto. Sono in gioco vite umane e ogni vita vale l’impegno di ciascuno a fornire un’informazione cauta e trasparente e a pretenderla.
Se ti trovi in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se hai amici o conoscenti con pensieri suicidi chiama il Telefono Amico allo 02 2327 2327, tutti i giorni dalle 10 alle 24, o il servizio della Samaritans Onlus, attivo dalle 13 alle 22, al numero verde 06 77208977.
Esiste inoltre AppToYoung, una app per smartphone e tablet, gratuita e facile da scaricare da GooglePlay e AppleStore. La privacy è garantita e tutti i dati sono protetti. Si può chattare per parlare con i ragazzi del Team Youngle, che hanno tutti tra i 18 e 21 anni o parlare direttamente al telefono, linea di ascolto attiva 24 ore su 24. Con AppToYoung, si può aiutare un amico o conoscente che non sa come fare a risolvere un problema: basta scegliere la funzione “Voglio parlare di qualcuno”, e poi si può parlare con il Team, chattando o parlando al telefono.