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Perché diciamo no a una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “fake news”

19 Novembre 2019 13 min lettura

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Perché diciamo no a una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “fake news”

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Capire meglio come si produce e diffonde disinformazione. Formare ogni cittadino all’uso consapevole della rete e delle nuove tecnologie. Educare la popolazione al digitale fin dalle scuole: sia gli studenti che i docenti. Soprattutto, difendere la democrazia dalle insidie di chi manipola la realtà, specie a scopi politici.

Fini nobili, obiettivi fondamentali in una società sana. Chi potrebbe mai essere contrario?

Nessuno, certo. E allora chi mai potrebbe opporsi all’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta per perseguirli?

L’ha chiesta, per lungo tempo, il PD. La chiedono i renziani di Italia Viva, come primo gesto dopo la loro separazione dai democratici. Notizia dei giorni scorsi, e piuttosto sorprendente, la chiede anche il Movimento 5 Stelle, con una proposta di legge presentata, senza l’usuale fanfara viral-mediatica, a prima firma Paolo Lattanzio.

Almeno su questo, la maggioranza sembra — sembra, vedremo — compatta.

C’è solo un problema: parlano tutti di “fake news”.

Ed è qui che bisogna fermarsi un attimo e alzare una mano. Perché quando c’è di mezzo la legge, le parole diventano sostanza. E perfino tra le maglie del linguaggio vago e delle buone intenzioni di chi propone una Commissione d’inchiesta contro la disinformazione si può insinuare il dubbio che l’operazione non sia affatto innocua come sembri.

Leggi anche >> Un anno di f**e news: il lavoro di Valigia Blu sul caos informativo

Una lettura anche solo sintetica dei testi proposti per realizzarla, e della storia recente delle posizioni politiche espresse dalle diverse parti in campo, non fa che giustificare lo scetticismo.

A maggior ragione quando in discussione è la possibilità che sia lo Stato a decidere le regole del vero e del falso, non esiste eccesso di prudenza.

Tempo dunque di stendere le obiezioni, e dare per una volta modo ai cittadini di valutare in modo più articolato le reali intenzioni del legislatore, prima che pericolosi proclami di politici a caccia di un quarto d'ora di celebrità (come quelli uditi di recente, per esempio, in tema di odio e anonimato) lo spingano ad agire frettolosamente e contro i pareri della comunità scientifica, sulla base di annunci e reazioni emotive, e senza nemmeno curarsi delle conseguenze delle proprie avventate proposte sui diritti di tutti.

Di cosa parliamo quando parliamo di "fake news" (spoiler: niente)

Il pomeriggio del 6 novembre, a Montecitorio, il 5 Stelle Lattanzio, insieme ad alcuni colleghi, presenta la proposta di legge del Movimento per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “fake news”. Il titolo è più articolato (molto più articolato: “Commissione parlamentare di inchiesta sulla diffusione massiva di informazioni false attraverso il sistema dell’informazione e della comunicazione, sulla garanzia del diritto all’informazione e sull’utilizzo critico dei mezzi e delle tecnologie della comunicazione”), ma il concetto è quello.

E lo è a partire dal preambolo, criticabile in sostanzialmente ogni assunto. “È indubbio”, vi si legge come premessa maggiore, “che negli ultimi anni si è assistito (…) a un “cortocircuito della disinformazione” attraverso un aumento del numero delle fake news, ovvero della pubblicazione e della diffusione di notizie che risultano essere imprecise o chiaramente false”.

Beh, no. Per quanto il sistema dell'informazione sia disastrato, non è affatto “indubbio” che “negli ultimi anni” si sia “assistito” a un “aumento del numero delle fake news”. Di quali anni parliamo? Quali sono i punti di riferimento temporali? Quali periodi storici si stanno comparando? Senza specificarlo, difficile attribuire un reale senso a questa affermazione — cruciale — su cui poggia la ragione d’essere stessa della Commissione.

E anche a specificarlo, sia detta tutta, non è affatto scontato che sia anche solo possibile dare un senso a quell'affermazione, quantificarla davvero al di là del mero sensazionalismo.

La domanda è fondamentale: di cosa stiamo parlando? Affermare che siamo in presenza di un indubbio “aumento” delle “fake news”, significa avere precedentemente stabilito — e, visti i toni, si suppone con certezza — 1) cosa significhi il termine “fake news”, 2) cosa significhi “misurarlo”, e 3) come misurarlo in modo affidabile. Purtroppo per Lattanzio, e per noi tutti, nessuna di queste operazioni è stata compiuta.

Non solo nel policy-making, ma in molti casi nemmeno nel mondo accademico, che infatti prescrive da tempo — dall’inizio del dibattito nel 2016, a dirla tutta — di evitare l’espressione in toto, perché ostaggio di autocrati a ogni latitudine. Una notizia non piace, o infastidisce? Basta chiamarla “fake news”, e diventa legittimo criminalizzarla, reprimendo insieme la libera stampa e la libertà di espressione di tutti.

È inevitabile, del resto, accada con norme repressive come quella contro le fake news a Singapore e in Russia (dove è sinonimo di "insultare lo Stato online"), così come con il "centro anti-fake news" tailandese.

Un fenomeno che si accompagna alla più generale diffusione e normalizzazione del modello cinese di moderazione dei contenuti web (quello che non piace al governo, sparisce dal web), ma insieme un pericolo che si profila sinistro all’orizzonte sempre più anche in Germania e Francia. Per non parlare degli Stati Uniti, ostaggio della distorsione autoritaria del termine operata, scientificamente, da Donald Trump.

Cosa è una “fake news”? È l’oggetto principe dell’indagine della proposta Commissione, ma la definizione fornita (“notizie che risultano essere imprecise o chiaramente false”) è talmente vaga da applicarsi a sostanzialmente tutto. E cosa vogliamo indagare, dunque: post su Facebook? Pezzi imprecisi o errati sui telegiornali? Retroscena inventati sui giornali? Bugie dette a un talk show o a una trasmissione radiofonica? Mezze verità twittate da bot? Tutte queste cose insieme?

Lattanzio sembrerebbe propendere per una risposta affermativa. Intervistato da Radio Radicale, il deputato Cinque Stelle afferma: «Il problema, e in questa proposta di legge lo sottolineiamo, non sono soltanto le fake news del web; il vero problema è indagare la costruzione di un sistema vittima della disinformazione». Si tratta insomma di «indagare il macrotema della disinformazione, all'interno della quale ci sono anche le fake news».

Non un dito pregiudizialmente puntato contro la Rete, dunque, ma la presa d’atto che l’intero sistema dell’informazione è malato, e va semmai compreso quel male.

Il testo lo dice anche più chiaramente:

“Spesso tale fenomeno riguarda in maniera quasi esclusiva il mondo digitale, mentre in realtà esso caratterizza l’insieme dei media, compresi quelli analogici e tradizionali”

Giusto. Anzi, giustissimo.

Peccato che sia il testo che il contesto finiscano per suggerire che, in realtà, oggetto privilegiato delle attenzioni della Commissione saranno proprio i contesti digitali, e in particolare le piattaforme che, in un modo o nell’altro, il legislatore — europeo e non solo — cerca sempre più spesso di rendere responsabili dei contenuti degli utenti.

Cosa dice la proposta M5S

Quando si scende nel dettaglio, infatti, si scopre che le attività della Commissione dovranno avere un particolare riguardo per i “rischi relativi all’utilizzo delle nuove tecnologie e al continuo sviluppo dell’intelligenza artificiale”, prestare assoluta attenzione a cessione e trattamento dei dati alle piattaforme digitali (“non solo i propri dati anagrafici, ma anche la propria voce o le proprie caratteristiche somatiche”), e soprattutto alla “profilazione” a scopi di propaganda e tramite “campagne di marketing digitale aggressivo finalizzate a manipolare le convinzioni e gli atteggiamenti dei cittadini” — in stile Cambridge Analytica, per intenderci.

Ancora, tra i compiti principali figura lo studio della “diffusione massiva di informazioni false attraverso il sistema dell’informazione e della comunicazione”, e il suo legame con l’hate speech. E quando si giunge all’invito a incrementare l’attività di fact-checking, si chiede di farlo “con particolare riguardo alla verifica dei fatti sulle piattaforme digitali”.

Ma di nuovo, non si comprende cosa consenta di assumere che l’attenzione debba rivolgersi principalmente alla disinformazione che circola in rete sulle piattaforme digitali piuttosto che a quella che va quotidianamente in onda in televisione o in pagina sui giornali — per non parlare della disinformazione digitale mainstream.

Da un lato, insomma, il succo della proposta si traduce in un ripetuto e solenne invito a fare di più in termini di alfabetizzazione digitale e civica in genere, che non può che essere benvenuto. Per esempio, la norma parla di una “estensione di percorsi volti alla promozione del pensiero critico nel corretto utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.

Ma dall’altro, a questo aspetto formativo se ne accompagna uno potenzialmente repressivo che né la proposta del M5S, né tantomeno l'atteggiamento politico degli alleati di governo, consente di escludere.

Si legge infatti nel testo che tra gli obiettivi della Commissione c’è anche “analizzare la capacità delle misure previste dall’apparato normativo vigente di rispondere al fenomeno”. Significa che anche il Movimento 5 Stelle — come già il PD, ieri, e i renziani oggi — non esclude il ricorso a una legge contro le fake news?

Radio Radicale l’ha chiesto, in termini simili, a Lattanzio. «L’obiettivo», chiede il giornalista dell'emittente radiofonica, «è quello poi di elaborare una proposta di legge in materia, oppure di scrivere delle linee guida, oppure un codice, per evitare che ci siano dei malintesi sulla cattiva informazione?».

Lattanzio risponde prima lodando (piuttosto a sorpresa) la legge sulla Buona Scuola, poi parlando esclusivamente di percorsi educativi, di confronto e formazione. Allora il cronista incalza: «La Francia è l'unico paese credo del mondo (come abbiamo visto non lo è, ndr) che ha fatto una legge sulle fake news. Volevo sapere come valuta questo tipo di esperienza, se la considera anche un esperienza pericolosa».

Risposta di Lattanzio:

No, io la considero un' esperienza positiva se abbinata ad altri tipi di interventi, ai quali stiamo lavorando anche noi, devo dire, per la legge di bilancio, sui media civici. Io credo sia indispensabile lavorare e sulla parte di contrasto e di argine alle fake news, e al tempo stesso sugli incentivi fortissimi affinché cittadini comunità giovani scuole si dotino delle competenze e della strumentazione necessaria per produrre in prima persona informazione, perché il futuro credo sia l’informazione di prossimità, e il futuro e la sfida è lì, è unire il contrasto con la produzione e l’incentivo a fare comunicazione in prima persona, a prendere da persone la parola e a comunicare mettendo un io individuale e comunitario davanti a tutto.

Se nel finale il deputato si concede una scivolata nell’ideologia Cinque Stelle (delle origini, poi tradita) della “disintermediazione” come necessariamente virtuosa, l’attacco della risposta è estremamente significativo: una legge sulle fake news è “un’esperienza positiva”, e comunque un “argine” è “indispensabile”.

Poco prima lo aveva detto anche più chiaramente, nella stessa intervista. Perché è vero, il “macrotema” è la disinformazione, e al M5S piace la prevenzione, ma l’indagine serve anche «per andare giustamente a punire, a individuare e a punire, i creatori di fake news che vanno ad alterare i mercati piuttosto che eventualmente elezioni o governi».

Una legge per “individuare” e “punire” chi produce “fake news”, dunque, non è da escludere?

Al contrario, sembra essere perfettamente in linea con le idee di Lattanzio. Ma, soprattutto, con quelle degli alleati di governo.

Attenti a chi vuole la verità di Stato

Ed è qui che entra in gioco il contesto di cui dicevo più sopra. Perché l’idea di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno “fake news”, qualunque cosa esso sia, ha una storia ben precisa, che affonda le radici proprio nell’altra metà dell’emisfero governativo, quello che un tempo era abitato dal solo PD e oggi anche da Italia Viva.

Chiesta a ripetizione da Matteo Renzi, e assegnata alla discussione in Aula dal fedelissimo Michele Anzaldi il 4 luglio 2018 con il nome “Commissione parlamentare di inchiesta su eventuali attività volte a condizionare il consenso e l'orientamento politico dei cittadini per mezzo della rete internet”, è stata infine oggetto di una apposita proposta di legge a prima firma Maria Elena Boschi, depositata non appena insediatosi il secondo governo Conte.

Scrive il Fatto Quotidiano del 10 ottobre 2019 che la proposta definisce le fake news “delitti contro la Repubblica”, e mira a comprendere se ci sia stato un tentativo di “condizionare illecitamente o illegittimamente l’esito delle consultazioni elettorali o referendarie, o comunque di manipolare indebitamente il consenso elettorale”. Tesi dei renziani, da sempre, è che la sconfitta al referendum costituzionale del 2016 sia stata il risultato di “fake news” diffuse in modo strategico e per fini politici precisi da avversari senza scrupoli.

Miracoli della vaghezza: l’oggetto della Commissione sono sempre le “fake news”, ma l’intento reale cambia completamente. Lattanzio, pur non escludendo un intervento specifico contro le “fake news”, pensa a uno studio complessivo dell’ecosistema dell’informazione. Boschi pensa invece unicamente alla comprensione e al contrasto della disinformazione scientifica e strategica in Rete, quella di cui si è letto per Brexit e l’elezione di Trump, a base di reti di profili automatizzati, troll del Cremlino e fake news farm macedoni.

Ma potrebbe essere questione di lana caprina, specie in un governo in cui è bene tralasciare le differenze ideologiche e concentrarsi sulle cose da fare insieme. Ed è dunque significativo che Lattanzio non chiuda la porta a un intervento legislativo in materia di "fake news" — intendiamoci, significa potenzialmente attribuire allo Stato il potere di censurare contenuti perché ritenuti falsi o “imprecisi” — quando nella proposta degli alleati al governo si legge che il Parlamento dovrebbe “dotare al più presto l’ordinamento di una specifica disciplina per contrastare” la disinformazione e di “responsabilizzare i social network” al fine di “tutelare gli utenti da notizie costruite intenzionalmente per trarli in inganno”.

Cosa significhi “responsabilizzare” è presto detto: costringere le piattaforme a trasformarsi in sceriffi del dicibile, finendo per implementare filtri automatici troppo grezzi per le sottigliezze del linguaggio umano — specie di quello politico. Una sorta di controllo statale realizzato (algoritmicamente, e dunque stupidamente) per mezzo di colossi privati.

Non è un caso che nel 2017 il PD, di cui all’epoca Renzi e Boschi facevano parte, discusse infinitamente sull’opportunità di una legge contro le fake news, con pareri altalenanti, smentite e grandi riflessioni interne. Ma anche con una proposta di legge, la Zanda-Filippin che avrebbe importato in Italia la logica, secondo Human Rights Watch "fallace", della tedesca NetzDG.

Il duo lo dichiara esplicitamente nel preambolo: il modello è proprio quello, la norma che impone la rimozione di contenuti ritenuti “illeciti” entro 24 ore, pena una multa salatissima, fino a 50 milioni di euro. Una norma criticata ripetutamente dallo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye, dalla società civile — e già oggetto di diversi dibattiti sulle conseguenze repressive che sta realizzando nella società tedesca.

E che ciononostante sembra essere il riferimento (esplicito) anche di Laura Boldrini quando, nei giorni scorsi, ha annunciato (senza fornire alcun dettaglio, nemmeno su precisa richiesta) che il PD tutto, riunito in Assemblea nazionale, avrebbe accolto una sua proposta per un "web migliore", che "responsabilizzi le piattaforme social".

Staremo a vedere. Per Zanda e Filippin i milioni da pagare sarebbero massimo cinque, ma i dubbi sulla compatibilità di un simile impianto normativo con un ecosistema dell’informazione propriamente libero non fanno che aumentare leggendo il resto del testo.

Scrive il Foglio:

“L'obiettivo del provvedimento – si legge nel ddl – è quello di limitare fortemente la pubblicazione e la circolazione di contenuti che configurino delitti contro la persona e alcune altre gravi fattispecie di reato che potremmo definire complessivamente come delitti contro la Repubblica. Questi ultimi vanno dall'istigazione a delinquere alla propaganda all'odio razziale, dai reati con finalità di terrorismo ai reati di frode e falsificazione di documenti e comunicazioni informatiche. L'obiettivo è quello di indurre i fornitori di servizi di social network a costruire sistemi, procedure ed organismi di autoregolamentazione e controllo dei contenuti veicolati dalle proprie piattaforme, capaci di contrastare la pubblicazione di contenuti illeciti e di diminuire sensibilmente l'entità e la diffusione dei danni provocati da tali crimini”

Non molto diverso da quanto si propone la Commissione voluta da Boschi: “Servono soluzioni di carattere legislativo e amministrativo”, riassume il Fatto, per la prevenzione e “specifiche forme di repressione penale per la diffusione dei contenuti illeciti attraverso la rete internet ed efficaci sanzioni pecuniarie per i fornitori dei servizi delle reti sociali e telematiche che non si dorano di idonee procedure per il controllo e la rimozione di tali contenuti”.

Ricordate che stiamo parlando di menzogne, imprecisioni, mezze verità — non di terrorismo o pedopornografia.

Eppure se si amplia lo sguardo al resto dell’arco parlamentare, non sembrano molte le voci critiche.

L’Ansa riporta diverse agenzie della forzista Anna Maria Bernini, secondo cui “ci sono tutti gli estremi per una commissione d'inchiesta, ma anche e soprattutto di una legge che tuteli la democrazia e la libertà d'informazione dall'attacco eversivo della propaganda disinformativa”. Quella che circola in rete, naturalmente: le fake news di chi “inietta il veleno nella rete” — tra cui, secondo Bernini ci sono proprio i Cinque Stelle.

E del resto, era stata proprio una ex Cinque Stelle, Adele Gambaro, a introdurre l’idea di una legge punitiva contro le fake news, nel 2017, con gli esiti disastrosi di cui Valigia Blu ha già detto. Basti ricordare qui che secondo Gambaro, transitata nelle fila di ALA, “chiunque pubblica o diffonde” online “notizie false, esagerate o tendenziose che riguardino dati o fatti infondati o falsi” dovrebbe rischiare cinquemila euro di ammenda, a cui aggiungere un anno di reclusione in caso di “fake news” atta a “destare pubblico allarme” o “fuorviare settori dell’opinione pubblica”, e un altro ancora — più doppia ammenda, 10 mila euro — nel caso di una “campagna d’odio” contro un individuo, o che sia tale da “minare il processo democratico, anche a fini politici”.

Si dirà che il passo dalla proposta di una Commissione d’inchiesta sulle fake news come quella di Lattanzio a una legge contro le fake news come quella di Gambaro sia troppo lungo. E certo, si possono trovare artifici retorici più sofisticati di quelli della senatrice ex M5S per provare a codificare la materia.

Ma il succo rischia di non cambiare. Perché la Commissione cosa altro potrà scoprire, se non quello che assume — e cioè che la disinformazione "aumenta"?

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E quando avrà “scoperto” che “aumenta”, qualunque cosa significhi (poco, viste le premesse), dovrà fare conti con un Parlamento per cui sembra improvvisamente diventato normale e profondamente democratico che sia lo Stato a decidere cosa è vero, e dunque dicibile, e cosa falso, e dunque non dicibile. Che poi il tutto si traduca nel dominio della censura automatica, passi.

Le proposte, ahinoi, sono già lì: c’è da sperare vivamente non si tratti solo, per il legislatore, di trovare il modo più apparentemente neutro e accettabile per “scoprire” anche quelle.

Foto in anteprima via Huffpost

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