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Come i servizi segreti usano i media

13 Dicembre 2012 6 min lettura

Come i servizi segreti usano i media

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Nell’immaginario collettivo, i servizi segreti sono considerati il «grande orecchio» della società, una congrega di pseudo-avventurieri con cappello, bavero dell’impermeabile alzato, tendenza ad alcolismo/promiscuità sessuale/eversione e il tasto pronto a inviare veline e dossier calunniosi a giornalisti compiacenti, se non direttamente a libro paga.

Nella realtà non sempre è così. Nel suo ultimo saggio, Come i servizi segreti usano i media, lo studioso e ricercatore di storia contemporanea Aldo Giannuli (già consulente di diverse Procure e della Commissione Stragi) scrive:

L’immagine dei servizi è quella di un grande orecchio muto, che tutto ascolta e intercetta e tutto seppellisce in un immenso buco nero. Questo è parzialmente vero e, spesso, una mezza verità fa più danno di un’intera bugia. I servizi non sono solo antenne riceventi di informazioni, ma anche emittenti, e a pari merito. Nel mondo dell’informazione mandare messaggi è importante quanto riceverne: rinunciare a farlo equivale ad autoescludersi dal terreno dello scontro.

Insomma, «i servizi segreti sono destinati a incrociare il cammino degli organi di informazione perché la materia è inevitabilmente la stessa». E per capire le mutazioni a cui può essere soggetto questo cammino, possiamo ricorrere a tre scene.

Nella prima siamo negli anni ’50 e ’60, in piena Guerra Fredda. In qualche modo, la Cia riusciva a procurarsi la Pravda e stamparne un’edizione in inglese per il Presidente statunitense – il tutto prima che l’house organ di regime fosse ancora arrivato nelle edicole russe. Nella seconda ci spostiamo nella prima metà degli anni 2000 a Roma, in via Nazionale 230, ufficio riservato dell'allora Direttore del Sismi Nicolò Pollari. In quella che Repubblica ha definito una «fabbrica della disinformazione e intossicazione» lavorava Pio Pompa, agente che aveva il preciso ordine di «raccattare ogni genere di informazione, anche spazzatura», senza alcuna «distinzione o cernita tra il vero, il verosimile, il falso». Il giornalista Renato Farina (alias Betulla) conosceva bene quell'ufficio.

Nella terza scena, ambientata ai giorni nostri, ci troviamo dentro un palazzo di un’anonima zona industriale della Virginia. Qui un team di analisti – ribattezzati dai loro colleghi della Cia «topi da biblioteca vendicativi» – compulsa milioni di tweet, post di Facebook, siti, chat e qualsiasi tipo di dato reperibile sul web (e in tutte le lingue), li incrocia con giornali nazionali/internazionali e intercettazioni, li assembla e infine spedisce il risultato della ricerca ai piani alti della Casa Bianca.

Il primo caso è il passato remoto dei servizi segreti. Il secondo è una classica tecnica d'intelligence - controllo e «intossicazione ambientale» dei media. L’ultimo è il presente – e il futuro – dell’Osint (Open Source Intelligence), ossia l’intelligence fatta attraverso l’esame delle fonti aperte, che non necessariamente sono gratuite o ottenibili legalmente. È quella che Aldo Giannuli definisce «una rivoluzione copernicana nel mondo dello spionaggio».

Nata come disciplina residuale (il ragionamento era: «se una notizia è di dominio pubblico è come se non esistesse perché, appunto, conosciuta da tutti»), l’Osint acquista rilevanza nei primi anni '50, per poi esplodere a partire dagli anni ’90 con l’avvento di Internet. La disciplina è andata via via affrancandosi «dalla sua origine strettamente militare», fino a estendere il proprio campo di osservazione «alla politica interna, all’economia, alla società, alla cultura».

Un ruolo fondamentale in questa evoluzione lo hanno giocato anche fattori di tipo economico. Le forme più tradizionali dello spionaggio – pedinamenti, rapporti confidenziali, intercettazioni, perquisizioni, ecc. – sono ormai riservate a scopi mirati, a quando si cerca di ottenere «determinate notizie di notevole contenuto informativo e non accessibili diversamente». La «base di insieme dell’analisi – spiega Giannuli – è ricavata da un’attività decisamente meno costosa di Osint». Insomma, «la Cenerentola degli scorsi decenni è [...] diventata la regina dell’intelligence».

Ma come funziona concretamente questa disciplina? Anzitutto, a differenza di tutte le altre branche dell’intelligence, «l’Osint non lavora in condizioni di scarsità di informazioni, ma al contrario di ridondanza». Quello che conta, dunque, non è il materiale su cui si opera, ma la sua interpretazione: «all’Osint tocca il compito di fornire il quadro complessivo di riferimento […] in cui inserire le informazioni da fonti coperte».

Per ricostruire il «quadro complessivo» servirà dunque «costruire una griglia di fonti da seguire più o meno regolarmente e, solo eccezionalmente, considerare anche fonti occasionali. Quindi, prima di tutto, bisogna conoscere bene le fonti tra cui si sceglie. E non è detto che si debbano seguire solo quelle più autorevoli e blasonate». Secondo Giovanni Nacci (esperto in metodi, sistemi e tecnologie per l’Open Source Intelligence) «l’aspetto più rivoluzionario della dottrina Osint» è proprio questo: «non serve conoscere “tutte” le informazioni disponibili su “tutti” gli argomenti, è invece indispensabile conoscere chi conosce. Sapere cioè chi, dove, quando e come può metterci in relazione con l'informazione di cui abbiamo bisogno, oppure con quelle risorse che potenzialmente sono in grado di farlo».

Un simile procedimento si avvicina a quello giornalistico (soprattutto d’analisi). Tuttavia, essendo nata in ambiente militare l’Osint mantiene un’impostazione legata a «rigidi protocolli predeterminati». Ad avviso di Giannuli questa rigidità non è uno svantaggio, anzi: «abitua a dare ordine logico al processo» e permette di incrociare e integrare immediatamente i dati dei vari operatori.

Lo studioso ritiene inoltre che i metodi dell’Osint, grazie alla loro elasticità, abbiano «da insegnare qualcosa anche al lettore di quotidiani o allo spettatore televisivo». Ed infatti nell’ultima parte del libro (a mio parere la più interessante), Giannuli prova a leggere una serie di notizie, dal caso Bisignani alla morte di Bin Laden, con le lenti di un analista dei servizi. Il risultato è una serie di articoli estremamente approfonditi che permettono di apprezzare i veri valori aggiunti dell’Osint: l’interpretazione e la contestualizzazione. Da un lancio di agenzia piuttosto anonimo (come ad esempio quello sulle «terre rare» cinesi) si può arrivare a sviscerare la politica industriale e hi-tech delle grandi potenze mondiali.

E qui arriviamo al punto. Come si rapportano, o rapporteranno, i servizi agli sconvolgimenti in corso nel mondo del giornalismo? «Il giornalismo è già cambiato parecchie volte – argomenta Giannuli a Valigia Blu – In questi cambiamenti passava però lo spazio di una generazione, quindi erano in qualche modo digeriti e assorbiti con una certa gradualità. Ora le ondate di cambiamento sono diventate così ravvicinate da produrre effetti imprevedibili. Non c’è più l’effetto digestione grazie alla quale la novità è assimilata, sedimenta una professionalità diversa, viene osservata e a sua volta i servizi producono una professionalità diversa nel consumo di notizie. Per fare un esempio: il volumetto sull’Osint della Nato che io cito nel libro è stato elaborato circa 6-7 anni fa. Ormai è da buttare via e da rifare».

In tutto ciò, Giannuli crede che «i servizi ci metteranno la “manina”. Però, come al solito, preferiranno guardare alle centrali, le fonti e le agenzie di stampa: i “rubinetti” dell’informazione». Di fronte anche all’impoverimento economico del giornalismo, lo studioso non teme però il ripetersi seriale di nuovi casi «Betulla»: «I servizi sono molto più avari di quello che sembra, e hanno a loro volta dei problemi di contabilità. Non è che i servizi siano più ricchi degli editori. Il problema vero è che le tecnologie rendono sempre meno necessaria la forza lavoro umana anche in questo campo».

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Come dimostra l’ultimo capitolo del libro, l’Osint e il giornalismo si possono compenetrare - e in un certo senso lo stanno già facendo. Sia l’analista che il giornalista si vedono costretti a rimodellare la propria professione. Gli interlocutori finali sono diversi (ma non in tutti i casi): lettori da una parte, autorità politiche e militari dall’altra. La premessa di partenza, però, è la stessa – evitare di soccombere all’«overload» informativo. E anche l’obiettivo è più o meno identico: fornire il senso complessivo delle notizie.

Una funzione, quest’ultima, che i media sembrano aver accantonato da molto tempo, e che paradossalmente potrebbero recuperare sfruttando il metodo di chi ha sempre cercato di manipolarli, influenzarli e corromperli.

(Illustrazione: Pawel Kuczynski)

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