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Le proteste alla Columbia University, l’antisionismo e il piano di Netanyahu di invadere Rafah

3 Maggio 2024 12 min lettura

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Le proteste alla Columbia University, l’antisionismo e il piano di Netanyahu di invadere Rafah

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12 min lettura

di Micah L. Sifry

La sera del primo maggio, per due ore, mia moglie e io abbiamo ascoltato in diretta WKCR-FM, la radio studentesca della Columbia University, mentre copriva la repressione della polizia. Contemporaneamente guardavamo la CNN, che poteva contare su uno dei pochissimi inviati all'interno dei cancelli dell'università mentre si svolgevano gli eventi.

Ci sono stati momenti della diretta che mi hanno spezzato il cuore. Ad esempio, quando la polizia ha costretto tutti, compresa la stampa, ad allontanarsi dalla Hamilton Hall, dove si erano barricati gli attivisti più radicali, e uno studente (Shimon, credo si chiamasse), lì come reporter, ha detto che in quel modo i media non avrebbero potuto assistere e documentare l'azione della polizia. La seconda volta è arrivata circa mezz'ora dopo, quando una giovane giornalista ha letto la lettera appena pubblicata del presidente della Columbia Minouche Shafik che invitava la polizia di New York a entrare nel campus per arrestare gli studenti della Hamilton Hall e sgomberare gli accampamenti di tende. La redazione giornalistica di WKCR-FM aveva letto in precedenza una dichiarazione dei docenti della Columbia che criticavano la decisione di Shafik, sottolineando come "i vertici dell'Università" avessero respinto i loro sforzi per mediare e disinnescare la situazione, e sostenendo come fossero stati ignorati gli statuti dell'università stessa, che richiedono la consultazione dei docenti per l'intervento della polizia armata nel campus. La voce della giovane giornalista si è interrotta appena arrivata alla parte della lettera sulla permanenza della polizia, prevista fino al 17 maggio, ovvero dopo la laurea. "Mi dispiace", ha detto. L'idea di avere la polizia in tutto il suo amato campus l'aveva sconvolta.

Di tanto in tanto si sentivano i manifestanti cantare, intonando di sostenersi a vicenda. È stato straziante, anche se alcuni di questi ragazzi hanno una comprensione limitata o imperfetta del conflitto israelo-palestinese. Sophie Ellman-Golan, direttrice delle comunicazioni di Jews for Racial and Economic Justice (JFREJ), un'importante forza della sinistra progressista di New York, ha colto bene le implicazioni del momento con questo tweet di ieri sera: “Questo avviene sotto lo sguardo di un sindaco, di un governatore e di un presidente democratici. E si aspettano di convincere gli elettori che dobbiamo rieleggerli per evitare una deriva autoritaria?”

Ellman-Golan ha ragione a chiedersi come i Democratici possano giustificare la repressione della polizia. Non solo perché è un attacco a parte della loro base, ma anche perché invia un messaggio terribile agli autocrati di tutto il mondo. E per di più, è una dinamica che distrae da notizie più importanti. L'altra sera ho infranto la mia promessa di non postare più su Twitter per commentare mestamente: "Tutto ciò accade mentre Netanyahu apparentemente annulla l'accordo per il cessate il fuoco e Trump chiarisce i suoi piani da incubo per un secondo mandato". Il grafico qui sotto, tratto da Google Trends, mostra cosa intendo. Invece di concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica su come l'estrema destra del governo israeliano preferirebbe invadere Rafah, dove si rifugiano più di un milione di gazesi, piuttosto che riportare a casa gli ostaggi, e invece di concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica sui piani dichiarati di Trump per un secondo mandato all'insegna di un fascismo all'americana, l'attenzione è stata attirata dalle nostre università polarizzate. Secondo Google uno dei termini più ricercati negli Stati Uniti nei giorni scorsi è stato UCLA (University of California, Los Angeles), dove la polizia ha anche preso provvedimenti contro gli studenti che protestavano per la loro presunta minaccia all'ordine pubblico, anche se in questo caso sembra che i contro-protestanti pro-Israele siano stati molto più violenti, come ha scritto Teresa Watanabe, giornalista del Los Angeles Times che si occupa di istruzione: "Violenza impressionante dopo che la folla pro-Israele ha attaccato l'accampamento pro-palestinese".

Diciamoci le cose come stanno. Viviamo in tempi molto instabili. Può sembrare che un "movimento di massa" sia in marcia contro il sostegno degli Stati Uniti all'"occupazione, all'apartheid e al genocidio dei palestinesi" (come ha detto Jews for Racial and Economic Justice in una dichiarazione di condanna della "violenza di Stato" a New York ieri mattina), ma sospetto che ciò che sta accadendo come risultato di questa ondata di proteste (non ancora di massa, in nessun senso serio di questa parola) sia la fuga di una generazione di americani liberali verso la destra, mentre si allontanano dagli estremisti che si trovano nel cuore di queste proteste pro-Palestina. Non è un caso che molti sensibili partecipanti/osservatori del conflitto israelo-palestinese, tra cui il rabbino Sharon Brous dell'IKAR di Los Angeles, l'espatriato gazese Ahmed Fouad Alkhatib, il designer palestinese-americano Mo Husseini, il giornalista progressista Zaid Jalini e l'accademico progressista iraniano Arash Azizi, si siano affrettati a rilasciare dichiarazioni o a scrivere articoli molto accorti nell'ultima settimana, esortando gli attivisti pro-Palestina a fare ordine in casa propria e a rifiutare la retorica massimalista e filo-sterminio.

Non c'è dubbio che i cosiddetti adulti nella stanza, come il presidente e i fiduciari della Columbia University, abbiano commesso gravi errori nel gestire nei loro campus le proteste di solidarietà per la Palestina. Gli accampamenti studenteschi in tutta l'America non sono decollati fino a quando la presidente Shafik non ha chiamato la polizia di New York per far sgomberare le tende piantate dagli studenti, due settimane fa. E non c'è niente come la vista di studenti strattonati che affermano il loro diritto alla libertà di parola, seguiti da poliziotti corpulenti che li picchiano insieme a chi li sostiene, per spingere gli elettori americani verso la destra. Generazioni di politici americani di destra, da Nixon a Reagan fino ad arrivare a Trump, hanno beneficiato di questo tipo di contraccolpi.

Se le donne di periferia sono più preoccupate che i loro figli o i figli delle loro amiche subiscano qualche agitazione nei campus o, se sono ebree, qualche critica sgradevole a Israele, o che subiscano persino qualche brutto episodio di antisemitismo da parte di estremisti fuorviati nei campus, invece di preoccuparsi che le loro figlie non possano accedere all'assistenza sanitaria riproduttiva a causa dei fondamentalisti di destra che comandano la Corte Suprema e il Congresso, le elezioni del 2024 potrebbero essere un fallimento per i Democratici. Se è vero che la violenza della polizia può ritorcersi contro e generare una simpatia diffusa per un movimento - una lezione che Martin Luther King utilizzò in modo brillante durante le marce della Children's Crusade contro la Birmingham di Bull Connor - senza leader riconosciuti che possano parlare a nome di un movimento e della sua strategia di cambiamento, l'autoritarismo populista finisce per trarre maggiore vantaggio dalle esplosioni di violenza.

E cosa si può dire di una claque del campus che ha avuto come leader un idiota di nome Kymani James, il quale a gennaio dichiarava agli amministratori dell'università che "i sionisti non meritano di vivere", mentre lo scorso aprile, in un video diventato virale, ha guidato una folla di decine di persone al Gaza Solidarity Encampment della Columbia costringendo alcuni studenti ebrei ad andarsene perché "abbiamo dei sionisti che sono entrati nel campo". Bisogna guardare il filmato e ascoltare l'intonazione della parola "sionisti" da parte di James per capire la valenza del momento: gli ebrei che non rinnegano la loro personale affinità emotiva con la patria ebraica non sono considerati persone degne di rispetto o di inclusione. Come ho scritto una settimana fa a proposito dell'"antimperialismo degli idioti", ciò che la sinistra "pro-Palestina" di oggi chiede non è l'autodeterminazione dei palestinesi e la coesistenza con Israele, ma la cancellazione del diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico. In questo progetto, hanno le stesse possibilità di successo di un movimento per restituire gli Stati Uniti ai suoi popoli nativi.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come siamo arrivati esattamente a questo punto, dove invece di un ampio movimento per la pace che fa pressione sia su Hamas sia su Israele per porre fine alla guerra di Gaza, abbiamo un movimento antisionista che chiede, in modo molto irrealistico, che le istituzioni americane interrompano tutti i legami e il sostegno a Israele, e un movimento pro-Israele che continua a difendere l'aiuto incondizionato alle politiche di guerra di Netanyahu per sempre e a blaterare di "liberare gli ostaggi" senza fare alcuna pressione su Bibi affinché faccia un accordo in tal senso?

Ho una teoria, che ho esposto a pezzi negli ultimi mesi, ma qui cercherò di riassumerla - anche se è vero che è solo una teoria.

Il 7 ottobre è stato uno shock enorme, a livello mondiale. Qui negli Stati Uniti, i primi gruppi a rispondere nelle strade sono stati quelli della sinistra antisionista e "antimperialista". Questo è stato esemplificato dalla famigerata manifestazione All out for Palestine a New York l'8 ottobre, promossa con vergogna dai Democratic Socialists of America, insieme ad altri gruppi molto più settari come ANSWER e il People's Forum, dove oratori come Eugene Puryear del Partito per il Socialismo e la Liberazione (nella foto a sinistra nel montaggio in cima a questo articolo) hanno lodato l'attacco di Hamas. National Students for Justice in Palestine ha pubblicato un “kit di strumenti” a corredo in cui ha glorificato gli attacchi del 7 ottobre come "resistenza" legittima.

Nel frattempo, l'establishment politico americano, compres i vertici di entrambi i partiti, si è mosso rapidamente per "stare con Israele" e insistere sul fatto che Hamas fosse il male puro e andasse completamente sradicato - una posizione pericolosa e irrealistica, considerando la completa assenza di qualsiasi riconoscimento dei diritti e dei bisogni dei palestinesi. La Casa Bianca ha dichiarato che gli attacchi erano "non provocati". Questo ha spinto sia If Not Now che Jewish Voice for Peace, i due gruppi ebraici che negli ultimi anni hanno svolto gran parte dell'attivismo dal basso su Israele e Palestina, a rilasciare dichiarazioni affrettate insistendo sul fatto che in realtà "75 anni di occupazione e violenza" da parte di Israele avevano provocato il 7 ottobre. Nota: questa scelta di datare l'inizio del problema al 1948, anno di fondazione di Israele, è un segnale importante. Porta alla negazione del progetto nazionale ebraico (cioè del sionismo) piuttosto che alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso un compromesso storico (cioè due Stati per due popoli). Ma questa è la politica dell'antisionismo. Altre organizzazioni progressiste, comprese quelle a guida ebraica, si sono bloccate o, se hanno fatto qualcosa, hanno rilasciato dichiarazioni che comprensibilmente simpatizzavano più con Israele, la vittima del 7 ottobre, che con i palestinesi.

In particolare, quando i dettagli di ciò che è realmente accaduto quel giorno sono diventati più chiari, la sinistra ebraica ha faticato a ritrovare la propria posizione. Dopotutto, le dichiarazioni reattive iniziali che incolpavano Israele come principale o unica fonte di tutta la violenza non si sono rivelate molto efficaci di fronte alle scelte di Hamas e di altri combattenti di stuprare, saccheggiare e bruciare vive famiglie di civili. Il gruppo If Not Now ha persino pubblicato alcuni tweet in cui faceva notare che alcuni dei suoi collaboratori avevano perso familiari e amici quel giorno. Inoltre, i progressisti ebrei, sia all'interno di questi gruppi che al di fuori di essi, hanno iniziato ad assistere e a condividere reazioni scioccate mentre vedevano molti attivisti non ebrei, compresi colleghi che potevano considerare "alleati", esprimere solidarietà solo con i palestinesi e persino giustificare ciò che Hamas ha fatto.

Ben Lorber, ex direttore nazionale dei campus di Jewish Voice for Peace, è andato su Twitter/X il 9 ottobre per contestare la sinistra pro-Palestina per non essere stata in grado di "esprimere in questo momento un'opposizione di principio al massacro di civili israeliani". Ha detto ad Arno Rosenfeld di Forward che lui, ricercatore dei movimenti suprematisti bianchi e attivista di lunga data per la solidarietà con la Palestina, "non riusciva a digerire" di sentire "La resistenza è giustificata quando le persone subiscono l'occupazione".

Per qualche giorno è regnata la confusione. In un'intervista rilasciata a fine ottobre al podcast On the nose di Jewish Current, la direttrice politica di If Not Now, Eva Borgwardt, e la direttrice organizzativa di Jewish Voice for Peace, Elena Stein, hanno parlato apertamente dell'intensa pressione a cui erano sottoposti loro e i loro colleghi per capire la loro risposta in quei primi giorni e allo stesso tempo per affrontare il lutto. La Stein ammette che forse non sono stati più riflessivi di quanto avrebbero potuto essere, ma che il ripiegamento su impegni ideologici precedenti è sembrato giusto. Borgwardt ammette che lei e i suoi colleghi, di età media 28 anni, si sono sentiti sopraffatti. Arielle Angel, redattrice di Jewish Currents, ha raccontato a Rosenfeld del Forward che i dibattiti interni sono durati diversi giorni.

Ma poi, meno di una settimana dopo il 7 ottobre, la sinistra ebraica ha trovato il suo punto di unità. Come ha detto Angel, "non possiamo lasciarci prendere da piccole beghe in questo momento. Dobbiamo parlare del fatto che c'è un genocidio imminente". Un articolo, pubblicato dalla sua rivista il 13 ottobre - appena sei giorni dopo l'inizio della crisi - riassumeva la nuova certezza: "Un caso da manuale di genocidio", di Raz Segal. Anche se lo stesso Segal avrebbe presto notato che la stragrande maggioranza degli studiosi di diritto considerava la situazione come un genocidio in potenza, non importava. La partita era cominciata. Gruppi ebraici come i già citati If Not Now e Jewish Voice for Peace si sono presto messi a capo di manifestazioni rabbiose il cui obiettivo era fermare un genocidio, non fermare una guerra. Se avessero tenuto cartelli o fatto cori che invitavano Hamas a rilasciare gli ostaggi e a smettere di lanciare razzi su Israele, sarebbe stata una notizia per me.

Se il vostro obiettivo è delegittimare Israele, niente potrebbe essere più potente di questa scelta di opporsi al genocidio invece che alla guerra. Una volta che un paese viene etichettato come "genocida", non è migliore della Germania nazista. Questo è anche un ottimo modo per mobilitare emotivamente e polarizzare gli attivisti contro altre persone. Ma non si scende a compromessi e non si coesiste con i regimi genocidari. Li si distrugge. E si demonizzano i loro alleati, come "Joe il genocida", anche se la scelta di minare il sostegno a Biden aumenta le possibilità che Trump, un uomo che ha espresso reali intenzioni genocide e ammirazione per i dittatori assassini, lo sostituisca.

Molte persone hanno scritto eloquentemente su come gli ebrei non si adattino alla comprensione della sinistra moderna dell'intersezionalità e della gerarchia dei gruppi oppressi, e anche su come gli ebrei siano codificati come "bianchi" e beneficiari della "supremazia bianca". Non ho dubbi che anche questo abbia contribuito a plasmare la risposta di molti progressisti non ebrei che non sanno da che parte stare nella lotta che ne è seguita.

Nel frattempo, il lato "pro-Israele" di questo conflitto, centrato e guidato da gruppi come l'Anti-Defamation League, l'AIPAC e la Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, è stato a lungo dominato da persone di destra molto più preoccupate per le fiammate di antisemitismo provenienti dalla "sinistra radicale" in America che dalla destra cristiana. Non è sorprendente vedere i loro leader allinearsi con il presidente della Camera repubblicano Mike Johnson, anche se la maggior parte degli ebrei americani vota ancora democratico.

Onestamente, però, non so se questa deriva politica continuerà. Se Netanyahu mantiene la promessa di invadere Rafah, che ha fatto perché per lui rimanere al potere conta più di ogni altra cosa, e perché la sua coalizione di estrema destra crollerà se accetterà un accordo sugli ostaggi senza invadere, la risposta degli Stati Uniti potrebbe essere feroce. Biden potrebbe anche sospendere gli aiuti militari - cosa che forse sta minacciando in privato - ma comincio a temere che le cose siano andate troppo avanti sulla strada attuale perché si possa cambiare rotta.

Ma forse no. Ascoltate l'intervista che Sharon Brous ha rilasciato a Christiane Amanpour della CNN. Dopo aver visitato l'accampamento della Columbia e poi essere tornata a casa a Los Angeles per camminare in mezzo alle violenze tra attivisti pro-Israele e attivisti pro-Palestina all'UCLA, Brous ha un messaggio urgente e convincente che mette al centro il lavoro di costruzione della pace di Standing Together e la necessità di costruire un autentico movimento per la pace per colmare l'abisso che i massimalisti di entrambe le parti continuano a espandere e sfruttare.

La fine dei tempi

Ben Lorber Ben Lorber ha notato la bandiera gialla "Moshiach" del movimento ebraico Chabad brandita da uno dei teppisti pro-Israele che hanno attaccato l'accampamento pro-Palestina dell'ACLU.

L'ultimo posto in cui ho visto quella bandiera è stato all'inizio di marzo, accanto a una bandiera del Monte del Tempio. Era sventolata da un colono israeliano in servizio di riserva in Cisgiordania, dove ha illegalmente impedito a un autobus turistico di Americans for Peace Now su cui mi trovavo di procedere perché c'erano arabi (israeliani) a bordo.

Micah L. Sifry è co-fondatore di Civic Hall, di cui è stato presidente dal 2015 al 2020. Cura la newsletter The Collector.

(Immagine anteprima: grab via YouTube)

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