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Cosa pensano gli ucraini della “pace imperiale” di Trump

27 Marzo 2025 10 min lettura

Cosa pensano gli ucraini della “pace imperiale” di Trump

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A un mese dall’avvio del canale negoziale tra Washington e Mosca, i colloqui che hanno l’obiettivo di mettere fine all’invasione russa dell’Ucraina hanno avuto un nuovo passaggio a Riyad, capitale saudita, tra il 23 e il 25 marzo. 

Un vertice riservato, mediato dai sauditi, con delegazioni separate per Russia e Ucraina, ma con lo stesso regista sullo sfondo: gli Stati Uniti e, a distanza, il suo presidente Donald Trump. L’obiettivo ufficiale, propagandato da Trump sin dalla campagna elettorale tramite la retorica del porre fine alla guerra ‘in 24 ore’, è quello di disinnescare il conflitto, almeno parzialmente, partendo da un cessate il fuoco temporaneo.

Ma le premesse di quest’ultimo sono già fragili. Le trattative hanno preso avvio a metà febbraio, quando le delegazioni di Russia e Stati Uniti si sono incontrate per la prima volta nella capitale saudita, seguite poi, il 28 febbraio, dal disastroso incontro alla Casa Bianca tra Volodymyr Zelensky e Trump. Infine, la settimana scorsa, è stata la volta della telefonata tra Trump e Putin, durata novanta minuti, che ha ridimensionato le alte aspettative proposte dalla comunicazione trumpiana. 

Secondo quanto riportato dai media americani, i tavoli negoziali degli Stati Uniti si sono articolati su più giorni: prima l’incontro tra la delegazione ucraina guidata da Rustem Umerov e Pavlo Palisa; poi con la controparte russa con Grigory Karasin e Sergei Beseda, ex alto dirigente del FSB; martedì un ulteriore confronto Ucraina-USA. A breve termine, sul tavolo c’erano due dossier principali: la sicurezza della navigazione nel Mar Nero e la sospensione reciproca degli attacchi alle infrastrutture energetiche per un mese.

Il presidente russo Vladimir Putin ha formalmente approvato l’idea americana, sostenendo la proposta di Trump per un congelamento reciproco dei bombardamenti sulle reti energetiche per trenta giorni. Una decisione amplificata dai megafoni dai media di Stato russi, TASS e RIA Novosti, che hanno sottolineato come l’autocrate russo stia sostenendo le proposte di Trump e abbia ordinato alle forze armate russe di astenersi dal colpire le infrastrutture ucraine. 

Dopo i colloqui a Riyad, Russia e Ucraina hanno concordato anche un cessate il fuoco limitato nel Mar Nero, ma Mosca ne condiziona l’attuazione all’alleggerimento delle sanzioni. Zelensky contesta le concessioni americane, temendo una spartizione del paese alle spalle. Perciò è tornato a criticare l’amministrazione Trump accusandola di complicità col Cremlino, dopo un alleggerimento della retorica in seguito all’agguato allo Studio Ovale.

Il significato della pace per gli ucraini

Tenendo a mente i limiti dei sondaggi d’opinione, soprattutto durante una guerra di invasione, il quadro potrebbe sembrare contraddittorio. Il 77% degli ucraini valuta positivamente la proposta di un cessate il fuoco di 30 giorni, ma il 79% considera del tutto inaccettabili le condizioni dettate da Putin. Due cifre che, se lette fuori contesto, potrebbero prestarsi a interpretazioni comode per chi vuole vendere all’opinione pubblica internazionale una narrazione di disponibilità al compromesso - che nelle richieste del Cremlino equivalgono a una capitolazione senza appello da parte di Kyiv.

I dati raccolti dal Kyiv International Institute of Sociology (KIIS) tra il 12 e il 25 marzo raccontano una posizione molto più complessa e radicata. La popolazione ucraina è disposta a considerare una tregua, ma solo se questa non implica concessioni o illusioni su un cambiamento di postura dell’aggressore russo.

“Da una parte la vittoria [alle elezioni presidenziali del 2024, NdA] di Trump è stata accolta in Ucraina con una certa speranza, dall’altra i suoi primi passi hanno causato delusione nella società ucraina. L’umore comune, a mio avviso, è più o meno questo – la parte patriottica attiva della società, la minoranza influente, visibile nei media e sui social, è categoricamente contraria a qualsiasi concessione e favorevole a una guerra fino a una pace giusta; la gente comune, la ‘maggioranza silenziosa’, è sempre più determinata a porre fine alla guerra” racconta a Valigia Blu Konstantin Skorin, ricercatore indipendente ed esperto di storia politica del Donbas (le sue analisi sono state pubblicate da Moscow Times, Foreign Affairs e Carnegie Politika). 

“Ma la fine a tutti i costi, attraverso la capitolazione a Putin, non è di certo l’opinione dominante di questa ‘maggioranza silenziosa’. Le persone sono disposte a fare concessioni per fermare la morte di ucraini, anche su determinati territori come Crimea e Donbas, ma non a una capitolazione totale alla Russia, proprio perché nessuno crede alle promesse di pace di Putin,” aggiunge Skorkin.

Lo dimostra il fatto che, tra coloro che vedono positivamente la proposta di tregua, la maggioranza (47%) lo fa perché considera utile dimostrare che è la Russia a non volere la pace, o che continuerà comunque a violare gli accordi. Un ulteriore 12% interpreta la tregua come un possibile strumento per sbloccare gli aiuti militari, e solo il 18% la considera “un primo passo verso la fine della guerra a condizioni accettabili per Kyiv”.

In altre parole, l’apprezzamento per la tregua ha più a che fare con il desiderio di smascherare Mosca o guadagnare tempo, che con una reale fiducia nel processo negoziale. Che la situazione sul campo stia volgendo a favore di Cremlino è ormai un dato di fatto segnalato dall’intelligence americana, e anche alleati ferrei di Kyiv come il presidente ceco Petr Pavel avvertono della necessità di considerare concessioni territoriali.

Allo stesso tempo, l’appoggio alla tregua crolla drasticamente se non sono previste garanzie di sicurezza. Secondo lo stesso sondaggio, il 62% degli intervistati ha affermato che non sosterrebbe un cessate il fuoco in assenza di garanzie concrete. Se, ad esempio, venisse offerta la presenza di peacekeeper occidentali, il 60% sarebbe disposto ad accettare un’interruzione temporanea dei combattimenti. Se la garanzia consistesse nell’avvicinamento della NATO o in un rafforzamento delle difese ucraine, il supporto resterebbe sopra il 55%, ma mai totale. Il consenso si consolida solo quando la sicurezza ucraina resta sotto controllo diretto o multilaterale e mai subordinato alla volontà russa.

“Credo che nessuno prenda davvero sul serio il cosiddetto ‘piano di pace’ di Trump, nemmeno Trump stesso. Non è in realtà un piano di pace; si tratta di “dividere certe risorse”, come ha detto lo stesso Trump. Chi segue le notizie lo capisce. Quanto alla volontà di Putin di rispettare un accordo, è ovvio che non lo farà, come non lo ha mai fatto in passato. Pochissimi in Ucraina, se non nessuno, credono davvero nella buona volontà di Trump o Putin,” dice a Valigia Blu Hanna Perekhoda, storica e ricercatrice dell'Università di Losanna. “Detto ciò, ci sono sempre persone pronte a barattare la sicurezza a lungo termine della propria comunità per un’apparente sicurezza personale a breve termine. Questo non significa che si fidino di Trump o Putin; piuttosto riflette la scelta fondamentale tra rischiare la vita agendo o restare fermi. Molti scelgono la seconda opzione, guidati dalla paura umana e dalla mancanza di identificazione con la propria comunità”.

D’altra parte, le condizioni avanzate da Mosca per la tregua – cessazione delle mobilitazioni, blocco degli aiuti occidentali, interruzione delle operazioni di intelligence statunitensi – sono considerate inaccettabili dalla maggioranza degli ucraini. Anche qui, si tratta di un rigetto trasversale, che unisce il centro e l’ovest del Paese all’est, e che riflette la convinzione condivisa che ogni concessione acceleri la possibilità di una nuova aggressione, non di una tregua.


I dati del KIIS, rilevati nei giorni immediatamente successivi alla sospensione temporanea degli aiuti americani a inizio marzo, mostrano un radicamento dell’idea di resistenza come principio nazionale, trasversale a classi, territori e orientamenti politici. Anche nelle regioni orientali, quelle storicamente più vulnerabili all’influenza russa, il dato resta al 78%.

Questa tenuta sociale e militare non nasce dal nulla. Una toccante lettera di una femminista e attivista anti-autoritaria che oggi lavora come medico militare nelle Forze Armate ucraine, racconta il sentimento di determinazione resta vivo nonostante la fatica accumulata: "Sì, potremmo perdere questa guerra. Ma tutti i combattenti per la libertà hanno vinto? Molti hanno lottato avendo molte meno possibilità dell’Ucraina. Abbiamo ancora buone possibilità se i Paesi europei ci sostengono. La fine della guerra, il futuro dell’Ucraina, dipendono direttamente da te e da me, dalla solidarietà con gli oppressi, dal senso di collettività e dalla volontà di libertà."

E poi c’è un altro elemento, di natura esistenziale e culturale, che emerge in filigrana tra le righe degli stessi sondaggi e nei racconti raccolti: la consapevolezza che la guerra è diventata la lente attraverso cui gli ucraini rileggono sé stessi, il proprio posto nel mondo e la qualità delle alleanze su cui poter contare. Non è solo una questione di sopravvivenza o sovranità, ma anche di dignità collettiva. Riprendendo le parole dell’attivista-medico, non tutti i combattenti per la libertà vincono, ma tutti fanno la differenza.

In questa cornice, la proposta americana – percepita da molti come un tentativo di pacificazione imposta, funzionale più alla stabilità globale che alla giustizia – rischia di risultare controproducente. Lungi dal promuovere un compromesso, rischia di alimentare il sospetto, già forte, che il futuro dell’Ucraina venga negoziato altrove, e che alla retorica dei “valori comuni” si stia ormai sostituendo il linguaggio cinico degli scambi geopolitici.

L’inizio di una tregua parziale: una passo verso la pace o fumo negli occhi?

Il compromesso, al momento, si articola dunque in due punti: una tregua navale nel Mar Nero, ancora sospesa per via delle condizioni imposte da Mosca, e una moratoria di 30 giorni sugli attacchi alle infrastrutture energetiche, già operativa ma di fatto violata.

Poche ore dopo l’accordo, infatti, la Russia ha lanciato un attacco con droni contro un ospedale e una sottostazione elettrica, a Slovyans’k. “C’è già un’allerta aerea, quindi questo cessate il fuoco non sta funzionando”, ha commentato Zelensky. 

Già nel fine settimana precedente l’esercito russo aveva scagliato contro le città ucraine più di 100 droni al giorno per tre giorni di fila, causando diversi morti civili, anche nella capitale Kyiv. Nel giorno centrale delle trattative saudite, i russi hanno bombardato il centro di Sumy, grosso centro dell’Ucraina orientale relativamente lontano dai combattimenti, ferendo 88 persone, tra cui 17 bambini. 

A rendere la situazione ancora più ambigua è l’asimmetria tra le dichiarazioni delle parti. La Casa Bianca ha parlato di una “pausa nei combattimenti nel Mar Nero” e di “impegno a eliminare l’uso della forza”, mentre il Cremlino ha ribadito che il cessate il fuoco navale scatterà solo con l’alleggerimento delle sanzioni occidentali, in particolare quelle che colpiscono le esportazioni agricole russe, come l’accesso al sistema Swift o le assicurazioni marittime. 

Un dettaglio tutt’altro che marginale, e che la versione americana ha completamente omesso. Di fatto, gli americani promettono agli ucraini di aiutarli nello scambio di prigionieri, compreso il ritorno delle decine di migliaia di minori rapiti dalle forze russe, mentre a Mosca promettono alleggerimento delle sanzioni economiche - queste ultime, secondo Politico, accettate condizionalmente, in precedenza, anche da Kyiv.

Trump, che inizialmente puntava a un cessate il fuoco integrale per creare lo spazio politico per un grande accordo di pace, ha dovuto ammettere pubblicamente il dietrofront russo. “Forse stanno prendendo tempo”, ha dichiarato a Newsmax, aggiungendo – con la sua consueta ambiguità – che anche lui, in passato, ha usato tattiche simili per “restare nel gioco”.

Le critiche non si sono fatte attendere, soprattutto da Kyiv. Il presidente ucraino ha accusato Trump e i suoi emissari di parlare “di noi senza di noi”, rispondendo a una precedente dichiarazione di Trump che aveva lasciato intendere come parte dei colloqui con Mosca avesse riguardato la spartizione territoriale dell’Ucraina. Il suo entourage ha fatto sapere che nessuna discussione su Donbas, Zaporizhzhya o Kherson è avvenuta da parte ucraina, e che le richieste russe – controllo totale delle tre regioni – continuano a essere irricevibili.

In parallelo, mentre le trattative proseguivano, la pressione militare sul campo non si è fermata. E anche sul piano simbolico, il Cremlino ha ribadito il suo controllo sull’impianto nucleare di Zaporizhzhia, smentendo ogni possibilità di cederlo, come invece ipotizzato da fonti americane.

Nel complesso, la prima fase della tregua sembra restituire un risultato largamente favorevole alla Russia. Lo stop temporaneo ai bombardamenti strategici, infatti, congela una delle campagne militari più riuscite dell’Ucraina, quella contro gasdotti, raffinerie e snodi energetici in profondità nel territorio russo, e salva l’industria degli idrocarburi di Mosca per almeno un mese. Al contrario, gli attacchi russi alla popolazione civile – dall’oblast’ di Sumy, relativamente vicina ai combattimenti, alle zone più occidentali – proseguono, spesso con tecniche di doppio colpo o bersagliando ospedali.

Trump presenta l’accordo come una vittoria diplomatica, utile ad aprire uno spiraglio per negoziati più ampi. Ma per Kyiv, che non ottiene né garanzie sulla sicurezza né progressi reali sul piano politico, la sensazione è quella di essere stretta tra l’aggressività russa e il cinismo americano. 

Lottare contro Putin e Trump contemporaneamente è molto difficile, e in ciò rimane fondamentale la posizione dell’Unione Europea: che ha però fallito, la scorsa settimana, nel trovare il consenso per l’allocazione di 40 miliardi per la difesa di Kyiv. Soffermarsi sulle conseguenze per l’Europa di un processo di pace ingiusto e imposto dall’alto all’Ucraina, però, dovrebbe essere il primo pensiero dei leader europei, rispetto agli interessi nazionali e agli screzi personali. Questa consapevolezza non sembra essere ancora arrivata.

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Le recenti dichiarazioni dell’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, incaricato anche come sostituto di Keith Kellogg per le relazioni con Ucraina e Russia, non lasciano spazio a dubbi. In un’intervista a Tucker Carlson, Witkoff ha sostanzialmente ripetuto la propaganda del Cremlino sulla legittimità dei referendum: sia quelli in Crimea e Donbas nel 2014, che nei territori occupati nel 2022.

 
“Decine di migliaia di civili nelle regioni occupate sono stati rapiti, torturati, tenuti in prigioni segrete, e migliaia sono scomparsi: nessuno sa nemmeno dove siano sepolti i loro corpi. Un contesto eccellente per una libera espressione democratica. Solo due Stati – Corea del Nord e Siria – hanno riconosciuto questi “referendum”, e questo la dice lunga sulla loro credibilità democratica,” sostiene Perekhoda, originaria di Donec’k. “Se l’amministrazione americana riconoscesse mai questi voti come legittimi, allora non ci sarebbe dubbio: starebbe approvando e promuovendo uno standard globale di ‘democrazia’ in cui uomini armati si presentano a casa tua per farti “votare”. È evidente che le visioni di Trump, Putin, Xi, Erdogan sulla democrazia siano molto simili da questo punto di vista. Chi non vede il pericolo di questo modello farà pagare tutti, prima o poi, un prezzo molto alto”.

“Il team di Trump finge di riconoscere i risultati del voto, la cui opacità e mancanza di democraticità sono state riconosciute da tutte le istituzioni internazionali, perché è comodo per loro fare affari con Putin. È molto triste da vedere,” aggiunge Skorkin. “Per me e i miei amici, costretti a lasciare il Donbas già nel 2014, è semplicemente offensivo vedere come i rappresentanti di un paese democratico occidentale fingano di credere ai risultati di un referendum tenuto letteralmente sotto la minaccia delle armi”.

(Immagine anteprima via Flickr) 

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