Clima, prove di dialogo fra Cina e USA, i principali responsabili del riscaldamento globale
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“Dopo anni di tenaci sforzi, il cielo nel nostro paese è più blu, la terra è più verde, l'acqua è più limpida, i colori delle numerose montagne e dei numerosi fiumi del nostro paese sono più vividi”. Che si parli di ambiente o di economia, le narrazioni della Cina intorno ai suoi sforzi ambientali non mancano di poesia. Mercoledì 18 luglio l'inviato per il clima di Washington, John Kerry, si preparava a lasciare Pechino dopo tre giorni di incontri senza risultati concreti. In quelle ore, in un’altra stanza della capitale, il presidente cinese Xi Jinping pronunciava il suo discorso di chiusura alla Conferenza nazionale sulla protezione ecologica e ambientale. Come molti si aspettavano, 72 ore non sono state sufficienti a ricucire un dialogo sul clima che entrambe le potenze amano citare senza però concretizzarne gli intenti.
Tuttavia, la riapertura del dialogo tra i due paesi potrebbe essere di per sé una buona notizia, come sottolineato anche da Kerry: “Abbiamo avuto conversazioni molto franche, siamo venuti qui per aprire un nuovo terreno". È chiaro che avremo bisogno di un po' più di lavoro”. Il dialogo tra i due più grandi produttori di emissioni al mondo è infatti imprescindibile nella lotta al cambiamento climatico anche se la Cina – seguendo anche le dichiarazioni di Xi – continua a perseguire la strada dell’esclusività dell’esperienza cinese sui temi dell’emergenza climatica e ambientale.
“Gli impegni della Cina sono incrollabili, ma il percorso verso gli obiettivi, nonché il modo, il ritmo e l'intensità degli sforzi per raggiungerli dovrebbero e devono essere determinati dal paese stesso, piuttosto che influenzati da altri", ha ribadito Xi durante la conferenza. Una posizione eccezionalista che concede alla Cina la possibilità di rispondere alla crisi secondo i propri mezzi e necessità, prima tra tutte quella dello sviluppo economico. Come vedremo in seguito, proprio la creazione di queste coordinate ideologiche permette a Pechino di cercare di influenzare la diplomazia climatica globale, sfruttando lo spazio lasciato dagli USA quando avevano deciso di sfilarsi dall’Accordo per il clima di Parigi durante l'amministrazione Trump.
Un passato dietro le quinte
La diplomazia climatica cinese ha rappresentato un aspetto marginale della politica estera della Cina per diversi anni. Verso la fine degli anni Settanta l’apertura del paese ai commerci internazionali aveva spinto gli sforzi del Partito comunista cinese verso la sfera economica, processo culminato con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel 2001. In quei trent’anni, nel frattempo, le aziende cinesi erano state invitate a prendere parte alla crescita del paese, a qualunque costo. Il conto di questa crescita illimitata ispirata dall’industrializzazione del nord globale è arrivato trent’anni dopo con il suo carico di tragedie umane e ambientali.
Gli effetti dell’inquinamento atmosferico, del suolo e dell’aria sono tali da essere visibili a occhio nudo: tra il 2014 e il 2015 lo smog a Pechino ha toccato livelli tali da essere soprannominato “airpocalypse” e diventato oggetto di forti critiche da parte della popolazione. Oltre alla capitale, a chi viveva nelle zone industriali e vicino alle centrali a carbone iniziavano a essere diagnosticate malattie respiratorie e forme di cancro correlate alle attività inquinanti del posto.
La leadership cinese non sembrava fare meglio sul piano della cooperazione internazionale per l’ambiente. Prima di firmare l’Accordo di Parigi nel 2015, la Cina era rimasta nelle retrovie della diplomazia climatica sfruttando il suo status di paese in via di sviluppo. È quanto accaduto con la firma del Protocollo di Montreal per la protezione dell’ozono atmosferico nel 1987, o con il Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici del 1997. In entrambi i casi, la Cina aveva beneficiato delle attenuanti dedicate ai paesi con un basso PIL pro capite (PPA). All’inizio degli anni Duemila, infatti, il PPA della Repubblica popolare era nove volte inferiore a quello statunitense, mentre le sue emissioni climalteranti pro capite si attestavano a 2,88 tonnellate contro le 21,30 tonnellate degli Usa. Oggi, però, la Cina emette oltre 14 milioni di tonnellate di anidride carbonica, superando le emissioni di tutti i paesi OCSE.
Alla conquista della leadership climatica
Il vuoto di potere sull’azione climatica aperto dall’ex presidente Usa Donald Trump ha aperto alla Cina un’occasione unica per sostituirsi a Washington sul piano della diplomazia climatica. Un ruolo che ha permesso a Pechino di rispondere alle pressioni esterne con la carta della mediazione e della promozione di nuove iniziative. È quanto accaduto nel 2020, quando durante l’Assemblea nazionale ONU Xi Jinping ha promesso il raggiungimento delle emissioni nette entro il 2060, passando per un picco delle emissioni che verrà raggiunto entro il 2030. Un annuncio definito sia ambizioso che troppo indulgente, ma comunque in linea con quanto stavano decidendo in materia altri paesi come il blocco dell’Unione Europea, il Giappone, l’Australia e gli Stati Uniti che, con l’amministrazione Biden, hanno fissato un tetto alle emissioni nette entro il 2050 e approvato un enorme piano di investimenti che guiderà la transizione ecologica statunitense.
La Cina è stata poi la grande protagonista della COP26 di Glasgow, della COP15 sulla biodiversità (ospitandone la prima parte a Kunming) e della COP27 di Sharm-El-Sheik. Durante gli interventi, ai quali ha preso parte il rappresentante per il clima di Pechino, Xie Zhenhua, la Cina ha assunto una posizione di rilievo, dando voce alla propria visione della transizione energetica e dello sviluppo sostenibile. Non solo: come sta avvenendo in altri contesti, Pechino cerca di porsi a portavoce del sud globale, adducendo l’emergenza climatica alle nazioni sviluppate, che dovrebbero pagarne i costi. In occasione dei principali forum multilaterali per il clima la narrazione non cambia. "Crediamo che gli slogan vuoti non siano ambizioni e le vere ambizioni possano essere dimostrate solo con le azioni concrete", ha affermato il direttore del Dipartimento per i cambiamenti climatici del ministero dell'Ecologia e dell'ambiente Li Gao durante il briefing mensile con la stampa, Parlando della COP27, il funzionario ripeteva l’assunto per cui i mancati sforzi del mondo occidentale non solo avrebbero “seriamente influenzato e ostacolato lo sviluppo dell'azione per il clima nei paesi in via di sviluppo”, ma avrebbero anche “danneggiato gravemente la fiducia reciproca tra nazioni sviluppate e in via di sviluppo". In occasione del G20 di Roma lo stesso presidente Xi Jinping aveva preso il clima come termine di paragone tra la Cina e il mondo occidentale: "I paesi sviluppati dovrebbero dare l'esempio sulla questione della riduzione delle emissioni, accogliere pienamente le particolari difficoltà e preoccupazioni dei paesi in via di sviluppo, attuare gli impegni di finanziamento del clima e fornire supporto tecnologico e know-how ai paesi in via di sviluppo".
Ma osservare l’azione di Pechino solo sul piano delle grandi piattaforme per il clima non basta. Come accade anche sul piano commerciale e finanziario, la Cina attribuisce un grande valore agli accordi bilaterali o alle piattaforme da lei dirette. Una strategia che, per certi versi, permette di avere un controllo maggiore della situazione rimuovendo la supervisione di una terza parte - come può essere invece la comunità internazionale nel caso di ONU e OMC. Tra gli esempi più rilevanti, gli accordi stipulati nel quadro del Forum per la cooperazione Cina-Africa (FOCAC) e con l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). In entrambi i casi la Cina promette di collaborare con queste realtà in termini di condivisione di informazioni e competenze legate allo sviluppo energetico e infrastrutturale, nonché alla formazione nel campo della gestione dei rischi e delle emergenze ambientali. Tutte dichiarazioni di intenti che, talvolta, hanno risvolti concreti per le aziende cinesi: come afferma Pechino, nel 2022 in Africa sono già stati conclusi 100 progetti per la produzione di energia “verde”. Continuano a lavorare anche gli enormi cantieri nel Sud-Est asiatico che, come per il caso africano, finiscono spesso sotto lo scrutinio dei gruppi ambientalisti per l’impatto ambientale di tali iniziative. Soprattutto quando si tratta delle dighe, a oggi la principale risposta cinese alle esigenze energetiche dei paesi in via di sviluppo insieme alle centrali a carbone.
La versione di Pechino
“La politica non può essere separata dal clima”. Con questa frase il capo della diplomazia del Partito comunista cinese e allora ministro degli Esteri, Wang Yi, aveva messo fine alla cooperazione climatica tra Cina e Stati Uniti nell’agosto del 2022. A motivare la scelta era stato l’arrivo a Taiwan della speaker della Camera USA, Nancy Pelosi, la figura politica di più alto livello a raggiungere l’arcipelago negli ultimi anni. Per la leadership cinese la questione ambientale, proprio per il suo carattere di eccezionalità, è anche questo: un continuo negoziato dove la collaborazione della Cina deve essere ricambiata da una serie di intenti che vanno oltre la firma di una nuova strategia per lo sviluppo sostenibile globale.
Il settore dove emerge di più questa complessità è, inevitabilmente, quello dell’energia. La Cina ha fatto passi da gigante sul piano delle rinnovabili, investendo massicciamente in nuovi progetti per l’energia “pulita”: solo nel 2022, per esempio, Pechino aveva allocato oltre 546 miliardi di dollari in nuove infrastrutture e impianti dedicati alla produzione di batterie e veicoli elettrici, superando di quattro volte gli Stati Uniti. L’obiettivo è, prevede la Commissione nazionale per lo Sviluppo e le riforme, di arrivare a coprire così il 33% del mix energetico grazie alle fonti non fossili entro il 2025. Complice una domanda energetica esponenziale - oggi quasi il doppio di quella statunitense - la Cina continua a essere il primo grande consumatore di carbone (che si attesta ancora intorno al 60% del mix energetico), nonché il principale investitore nell’energia nucleare. Con 51 reattori operativi e altri 20 in costruzione (di cui sei approvati nel 2022), per una copertura del 5% del mix energetico, la Repubblica popolare sostiene il nucleare come una delle opzioni a sua disposizione per il raggiungimento della neutralità carbonica.
Quando si tratta di rinnovabili, in particolare, la Cina ha presto ottenuto una posizione dominante nell’industria “verde”, immettendo sui mercati una quantità di pannelli solari e pale eoliche tali da rivoluzionare il prezzo della transizione energetica. Con le vendite delle aziende cinesi si stima che il prezzo del fotovoltaico sia calato del 75% in soli dieci anni. Sostenute da un’ambiziosa serie di aiuti governativi, le sue aziende hanno presto colto l’opportunità della mobilità elettrica, incassando profitti esponenziali in casa e all’estero. Ecco quindi che le recenti manovre statunitensi nei confronti delle aziende cinesi hanno creato non pochi attriti tra le due sponde del Pacifico.
Tra aumento dei dazi nei confronti dei pannelli solari, ban contro i produttori di microchip cinesi e sanzioni legate alle violazioni dei diritti umani in Xinjiang, Pechino si è presto trovata a dover ricalibrare il proprio ruolo di grande potenza verde. E lo ha fatto sferrando un colpo da manuale: a inizio luglio il ministero del Commercio cinese ha imposto delle restrizioni sulle esportazioni di gallio e germanio, limitando così l’accesso alle aziende straniere ad alcuni componenti chiave per la produzione di semiconduttori. Anche l’Unione Europea cerca di tamponare la gigantesca industria cinese con nuovi criteri per gli investimenti e le importazioni, mentre Pechino avanza con nuovi progetti nel campo delle batterie e dell’automotive.
Consapevole di avere dalla sua un’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto ad altri partner commerciali, una supply chain consolidata tra miniere nazionali e concessioni estere (come accade in Africa), la Repubblica popolare può definirsi pienamente una potenza climatica. Non solo sul piano diplomatico ma - soprattutto - commerciale. Sono bastati quaranta anni alla Cina per raggiungere il livello di sviluppo delle economie avanzate, e solo dieci per aprirsi un posto d’onore alla tavola dei negoziati climatici. Due mondi, si potrebbe aggiungere, in contraddizione l’uno con l’altro. Ma per il primo inquinatore al mondo e contemporaneamente maggiore produttore di energia da fonti rinnovabili tutto è -per ora - possibile.
Immagine in anteprima: frame video CGTN America via YouTube