La scuola e la professoressa Cloe Bianco
|
di Chiara Sità*
Nella scuola italiana ci sono molte persone che sperimentano la violenza di essere marginalizzate in ragione della propria identità di genere e del loro orientamento sessuale. Queste persone a volte sono docenti, come la professoressa Bianco, ma anche personale ausiliario e, molto più frequentemente, studenti.
La vicenda della professoressa Cloe Bianco, docente transgender fatta oggetto di provvedimenti disciplinari per le modalità del suo coming out e per il suo abbigliamento, ha rivelato l’incapacità profonda della scuola di assolvere il suo mandato costituzionale di essere un luogo di formazione di cittadine e cittadini. Questo mandato prevede che la comunità scolastica sia una voce chiara e forte nel difendere basilari diritti umani (il diritto di esistere con la propria identità, il diritto di esercitare la propria professione, il diritto delle e degli studenti di imparare) e che sappia attivamente proteggere chi è vittima di pregiudizi e discriminazioni, anche attraverso la sensibilizzazione e la diffusione di conoscenze scientificamente fondate. Questo compito educativo va esercitato nei confronti di studenti, famiglie, personale e comunità territoriale e richiede il supporto esplicito delle istituzioni di qualunque colore politico perché riguarda l’attuazione dei diritti umani su cui si fonda una società democratica. Ciò non è avvenuto, purtroppo, nel caso della professoressa Bianco: anzi, gli interlocutori della politica locale sono intervenuti attivamente per ostacolare ogni tentativo di tutelare la persona e il lavoro di una docente in ragione del suo essere transgender.
Leggi anche >> La morte di Cloe Bianco è una storia di ordinaria transfobia
In una situazione come questa, occorre partire da ciò che sappiamo sull’esperienza scolastica delle persone LGBT+ in Italia e dalle molte occasioni mancate nelle politiche e nelle pratiche educative, a partire da tre punti fondamentali.
1. Le persone LGBT+ a scuola non stanno bene
Le persone LGBT+ nella comunità scolastica italiana sono in larga parte ancora soggette a discriminazioni che compromettono seriamente la loro possibilità di vivere pienamente; spesso scelgono l’invisibilità; sono oggetto di offese e sanzioni sociali per la loro non conformità alle norme di genere maggioritarie (sia da parte dei pari, sia da parte dello stesso personale insegnante); subiscono aggressioni verbali e fisiche che tendenzialmente non denunciano perché nella loro esperienza le segnalazioni non hanno portato ad alcuna risposta (qui i dati di un’indagine internazionale al riguardo).
2. La scuola è silente di fronte alle discriminazioni e alle violenze omotransfobiche
Le violenze e discriminazioni di matrice omotransfobica non possono essere lette semplicemente come comportamenti deprecabili di singoli individui, ma nella scuola italiana sono componenti strutturali, insite nel funzionamento stesso delle politiche educative e degli assetti scolastici del nostro paese. Anche con le migliori intenzioni, a scuola non si sa letteralmente cosa fare quando sono in gioco questioni che riguardano l’identità di genere: le campagne dei movimenti conservatori contro il fantomatico “gender” hanno paralizzato iniziative educative e di prevenzione della violenza in tutta Italia. Inoltre, a differenza di quanto accade in altri paesi europei, sono pressoché assenti politiche e pratiche di governance scolastica in materia di equità, inclusione, sicurezza rivolte alle minoranze sessuali e protocolli per l’accoglienza di soggetti che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita.
3. Le persone transgender non costituiscono un rischio per nessuno
La vicenda del coming out della professoressa Bianco con i suoi studenti è stata all’epoca descritta dalla stampa in toni drammatici, parlando di studentesse “in stato di choc” e della compromissione del ruolo educativo della docente data dal suo essere transgender. Insegnare, ha ricordato Christian Raimo su L’Essenziale, è condividere con altre/i una ricerca della verità. L’insegnamento non può che radicarsi nella persona dell’insegnante, ma questo non basta – altrimenti ci limiteremmo a un’idea romantica, adulto-centrica, di insegnante carismatico. È invece quello che spesso accade quando i singoli sono lasciati soli, con le proprie forze e limiti, a maneggiare la molteplicità del mondo che si mostra in un’aula di scuola. L’insegnamento disegna uno spazio di relazione in cui tutti i soggetti sono attivamente coinvolti (se così non fosse, imparare diventerebbe impossibile), dentro specifiche condizioni che dovrebbero garantire che la scuola non sia solo un luogo di trasmissione di frammenti di sapere ma un luogo in cui attraverso il sapere si abita il mondo.
Che lo vogliamo o no, nell’insegnare si insegna sempre due volte: i contenuti e metodi di una disciplina, e il funzionamento del mondo sociale di cui la classe è un microcosmo. Per questo avere un docente, un educatore, un compagno/a di banco transgender, o portatore di una diversità, non può in nessun modo compromettere l’apprendimento, la costruzione dell’identità, la qualità dell’esperienza scolastica. Può, come purtroppo è accaduto, svelare violenze, pregiudizi e meccanismi di oppressione che pervadono la società e che si riversano nelle interazioni quotidiane a scuola, così come può aprire spazi per trasformarli. L’abbandono dell’insegnamento non è stato solo una perdita per la professoressa Bianco, ma ha privato tutta la comunità scolastica di qualcosa di prezioso: la possibilità di trasformare le proprie conoscenze, mettere in crisi i propri pregiudizi, avvicinarsi alla realtà delle vite umane e imparare come la società in cui viviamo può trasformarsi a partire da ciò che si fa, insieme, in ogni scuola.
*Chiara Sità è docente di pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane dell'Università di Verona. Il suo principale campo di ricerca è la relazione tra genitori e professionisti nei servizi socio-educativi e nella scuola.
Immagine in anteprima via robadidonne.it