La morte di Cloe Bianco è una storia di ordinaria transfobia
6 min letturaLa storia di Cloe Bianco è una storia di ordinaria transfobia. Dove per ordinaria non si intende quella quotidianità che rientra nella sfera del normale. Si allude a un costume diffuso che non ha niente di accettabile, semmai. E ci dice molto del pensiero trans-escludente che solo nell'ultimo anno ha tenuto banco nell'opinione pubblica e nell'agenda politica.
Ma andiamo per ordine. Stiamo parlando di una persona che insegnava fisica in una scuola. Una docente allontanata dal suo posto di lavoro perché transgender, e che alla fine di una lunga spirale di discriminazione si è tolta la vita. Tante sono le criticità di questa triste vicenda, che vanno oltre il caso di cronaca in sé. Non poter insegnare perché persona transgender è una discriminazione che viola basilari diritti costituzionali. Eppure ciò che è successo alla professoressa Bianco va in tale direzione. Il demansionamento prima, poi l'allontanamento definitivo dall'insegnamento.
Così ricorda Rolling Stone: «La mattina seguente» rispetto al coming out di persona trans, «la professoressa venne sospesa per tre giorni dall’insegnamento, a causa del comportamento ritenuto non “responsabile né corretto”». E quindi, si apprende ancora, «fu relegata alla segreteria, perdendo la possibilità di insegnare».
Nel frattempo i media raccontavano la sua storia. La vicepreside della scuola in cui lavorava ebbe a dire nel 2015: «Sono stata un'ora con l'insegnante. Abbiamo parlato anche del tipo di abbigliamento da usare. Inizialmente non ha recepito, anzi mi ha contestato questa cosa, sostenendo che non dovrebbero esserci limitazioni nel modo di vestire. Ho ricordato il codice che abbiamo e che riguarda tutti. Direi che a scuola si è poi sempre presentata in maniera sobria». Nome e cognome sui giornali, quei riferimenti a un look non consono. Ci sarebbe da chiedere quali sono stati i parametri che hanno portato a considerare eccessivo l'outfit dell'insegnante, se il problema fosse l’indossare una minigonna o se il problema fosse chi la indossava. Non potremo mai saperlo.
A proposito di stampa. Certi giornali generalisti hanno riportato la sua storia, ma appellandola al maschile. Sul suo profilo Facebook l’attivista e consigliera comunale Porpora Marcasciano riporta un caso: si parla di “un prof diventato Cloe” che insegnava “vestito da donna”. E sul Corriere del Veneto, in un articolo (parzialmente corretto dopo 4 giorni), viene ricordato il nome di battesimo dell’insegnante, appellandola al maschile. Eppure non dovrebbe essere difficile. La persona transgender va appellata con pronomi e aggettivi che descrivono il genere in cui si riconosce. Sì chiamava al femminile, era una donna. È così difficile usare il genere grammaticale previsto? Usando esiti quali “la docente”, “la professoressa”. Regole che si imparano già alle elementari, ma che certi giornalisti faticano ad applicare. E non è una questione di lana caprina.
Chiamare una donna trans al maschile – come è stato fatto certa su certi articoli, non rispettando la sua identità di genere – è un insulto. Se questo insulto va in direzione di una persona che non può più prendere parola, perché è morta e per come è morta, si cade a un livello di inaccettabilità tale che trova poche attenuanti, se non nessuna. E l'inadeguatezza di chi non sa usare il genere grammaticale è, semmai, un'aggravante.
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Poi c’è il capitolo della responsabilità politica. Da più parti è stata richiamata alle sue responsabilità l’assessora Elena Donazzan, che si definisce sulla sua pagina Facebook: «Italianissima, assessore Istruzione, Formazione, Lavoro, Reindustrializzazione del Veneto. Cuore a D» dove quella “d” corrisponde con destra. E milita in un partito di destra radicale, l’assessora (usiamolo, per una buona volta, il femminile professionale, soprattutto se ti definisci italianissima, anche se sembra che si ignorino le regole grammaticali di base dell’italiano). Quando Cloe si presentò alle sue classi con la sua nuova identità femminile, dopo aver avviato la transizione, un genitore scrisse a Donazzan, esternando il suo sconcerto. Con parole ben poco nobili.
Proprio l’esponente della destra veneta condivise su Facebook la lettera del genitore. Nella quale si può leggere: «Nessuno era al corrente del fatto, i genitori non erano stati avvertiti, i docenti non ne sapevano nulla (forse il preside da quanto mi hanno riferito era al corrente ed ha autorizzato questa carnevalata)». E ancora: «Ma davvero la scuola si è ridotta così? E a distanza di un giorno nessuno della dirigenza scolastica è intervenuto con i genitori, nulla. Forse questo è un fatto "normale" per tanti ma non per noi che viviamo quei valori che ci sono stati donati e che all'educazione dei nostri figli ci teniamo lottando quotidianamente bersagliati ogni giorno da chi quei VALORI vuole distruggere, teorie gender e quant'altro».
La vita di un essere umano descritta come carnevalata e incasellata nei canoni dell’anormalità. Donazzan condivise il tutto con un commento lapidario: «Traete da soli le vostre conclusioni». Numerosi sono i commenti di chi chiede ragione di quelle parole – che nel momento in cui le condividi, senza prenderne le distanze, diventano le tue – ma non sembra che sia arrivato, al momento, una dichiarazione in merito. Nessun passo indietro, nessun ripensamento. Nel momento in cui si scrive, infatti, l’ultima condivisione è quella di un sondaggio che vede il partito a cui appartiene l’assessora al primo posto. «La migliore risposta al costante tentativo della sinistra e del mainstream di dipingerci come mostri, la dà -– come sempre – il popolo italiano. GRAZIE!». In un paese più civile del nostro, sarebbero arrivate non tanto le scuse, quanto le dimissioni. E, forse, la fine di una carriera politica. Ma il nostro è un paese che sembra voler premiare Fratelli d’Italia, e dove la volontà di capitalizzare il consenso a qualunque costo non conosce dignità.
E a questo proposito, non si possono non ricordare gli attacchi recenti di Giorgia Meloni alla convention di Vox, partito spagnolo di estrema destra, contro la comunità Lgbt+. Parole che concorrono a creare un clima non certo benevolo nei confronti di una categoria sociale già fin troppo stigmatizza, come quella delle persone transgender. Il deputato Alessandro Zan ricorda, in un post su Facebook: «La teoria del complotto di una lobby gay che mirerebbe a sovvertire l’ordine naturale assomiglia drammaticamente ai più terribili discorsi d’odio del fascismo contro presunte “lobby ebraiche”, e ci riporta ai momenti più bui del ‘900. Alimentare paure per il consenso è criminale». E se qualche anima candida può pensare che si stia esagerando, è bene ricordare cosa significano i riferimenti alla “finanza internazionale” che puntualmente fanno comparsa nei discorsi dell’estrema destra.
Reminder: ogni volta che una persona di estrema destra - che sia politico o giornalista - usa termini come "grande finanza internazionale" o "finanza apolide" non sta parlando davvero di hedge fund, ma sta usando delle parole in codice per sottointendere "ebrei". pic.twitter.com/S6T5xdDGb7
— Leonardo Bianchi (@captblicero) June 15, 2022
Tutti questi elementi dimostrano perché la questione dell'identità di genere è fondamentale per il benessere non solo delle persone transgender, ma del corpo sociale tutto. Vogliamo forse vivere in una società che induce le persone a darsi fuoco piuttosto che vivere ai margini? Opporsi al riconoscimento di tale identità – che, ricordiamolo, è un ingrediente dell’identità sessuale che appartiene a ogni essere umano, trans- o cisgender che sia – è un atto di disumanità e bisogna denunciarlo a chiare lettere. Proprio per quello che ci insegna la morte dell’insegnante veneta.
E c’è di più. Tutte queste cose ci chiamano a chiedere risposte e un'urgente presa di responsabilità da parte di quegli attori politici che si sono scagliati contro il Ddl Zan nei mesi precedenti: le destre – tutte – così come certi partitini centristi che si sono messi di traverso per il riconoscimento della legge. E ancora: i settori interni di quei partiti che si sono detti favorevoli al Ddl, a cominciare da certe frange “cattoliche” in seno ai partiti, anche quelli che proponevano il provvedimento, ma che hanno lasciato fin troppa libertà di coscienza su una questione umanitaria profonda. Non ultimi, il cosiddetto "femminismo" trans-escludente e specifici settori ecclesiastici, per non parlare delle realtà clerico-conservatrici.
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Tutte queste realtà devono chiedere scusa, prendere atto del clima che contribuiscono a creare, delle ingiustizie quotidiane che giustificano dai loro pulpiti, e dove le Cloe si incagliano fino a sprofondare. Le parole hanno un peso, sentirsi raccontare come un errore della natura, o un’illusione, o persino un pericolo può uccidere e ha ucciso. Non è qualcosa che può passare ancora come un'opinione come un'altra. L’odio e il disprezzo verso un’intera comunità – ed è lì che si arriva, se si continua con una certa narrazione, lo si voglia o meno – non possono avere cittadinanza nell'agone politico. Men che mai in quello di un paese che vuole dirsi ancora democratico e civile. È ora di dire basta a questa violenza. Lo dobbiamo al futuro di questo paese.