Si terrà dal 7 al 19 dicembre a Montreal, in Canada, la quindicesima conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica. Guidata dalla Cina, arriva con due anni di ritardo a causa della pandemia. Si tratta di un appuntamento molto importante perché dovrà definire gli obiettivi da perseguire per arrestare la perdita di biodiversità da qui al 2030. Gli ultimi impegni assunti dai governi, nel corso della COP10 di Nagoya, nel 2010 in Giappone, per dimezzare la perdita di habitat naturali ed espandere le riserve naturali al 17% della superficie mondiale entro il 2020, sono stati completamente disattesi.
Secondo gli esperti, la Terra sta vivendo la sesta estinzione di massa, che minaccia le fondamenta della civiltà umana. Il modo in cui coltiviamo, inquiniamo, guidiamo, riscaldiamo le nostre case e consumiamo è sempre più insostenibile per il nostro pianeta. Scienziati e attivisti stanno spingendo affinché i paesi adottino un “Accordo di Parigi per la natura”, facendo riferimento ai negoziati sul clima del 2015 che hanno concordato un percorso per contenere l’aumento delle temperature globali entro 1,5°C dall’era pre-industriale. L’auspicio è che gli Stati si impegnino a garantire che, alla fine di questo decennio, il mondo abbia più “natura” - animali, piante ed ecosistemi sani - di quanta ce ne sia ora. Un buon accordo significherebbe darsi obiettivi facili da misurare e monitorare, e l’impegno dei singoli paesi a riferire regolarmente sui loro progressi nella protezione della natura. Per questo, i partecipanti discuteranno anche su come fare un monitoraggio serio. Uno degli obiettivi prevede che tutte le imprese e le istituzioni finanziarie valutino e rendano noto il loro impatto e la loro dipendenza dalla natura entro il 2030 per poi almeno dimezzare i loro impatti negativi. Più di 330 istituzioni economiche e finanziarie, con un fatturato complessivo di circa 1.500 miliardi di dollari, hanno sollecitato i leader mondiali ad andare in questa direzione.
Secondo le bozze circolate finora, l’obiettivo di questa COP è stato denominato “30 by 30”, ovvero proteggere il 30% della terra e del mare entro la fine del decennio. Ma secondo uno studio di David Obura, ricercatore al Coastal Oceans Research and Development in the Indian Ocean (CORDIO), un'organizzazione no-profit di Mombasa, in Kenya, si tratta di un obiettivo “irrealistico”. L’ambizione della COP 15 “dovrebbe essere quella di 'piegare la curva' della perdita di biodiversità il più velocemente possibile, senza fissare scadenze rigide”. Proteggere il 30% della terra e del mare potrebbe richiedere 80 anni, non 8, spiega il ricercatore a New Scientist.
Tuttavia, gli obiettivi della Conferenza non si esauriscono al “30 by 30”: gli esperti hanno avvertito che l'espansione delle aree protette da sola non è sufficiente a fermare il declino della natura. Ci sono proposte per limitare la diffusione delle specie invasive e ridurre e riutilizzare 500 miliardi di dollari all'anno di sussidi dannosi per l'ambiente, meno dei circa 1.800 miliardi di dollari destinati ad attività che degradano la natura. Si prevede inoltre di aumentare i finanziamenti del settore pubblico e privato ad almeno 200 miliardi di dollari all'anno.
Si tratta di cifre ancora insufficienti. Secondo un rapporto del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite, pubblicato la scorsa settimana, le “soluzioni basate sulla natura” che affrontano il cambiamento climatico, il ripristino del territorio e la protezione della biodiversità, dovrebbero più che raddoppiare fino a raggiungere 384 miliardi di dollari all'anno entro il 2025. Attualmente sono destinati ad azioni di questo tipo 154 miliardi di dollari di finanziamenti privati. I gruppi ambientalisti spingono, inoltre, affinché le nazioni ricche diano almeno 60 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a raggiungere i loro obiettivi.
In vista della COP di Montreal, 650 scienziati hanno inviato una lettera ai leader mondiali chiedendo agli Stati di non bruciare più alberi per la bioenergia, “erroneamente considerata 'neutrale in termini di carbonio”. “Garantire la sicurezza energetica è una sfida importante per la società, ma la risposta non è bruciare le nostre preziose foreste. Chiamare la bioenergia 'energia verde' è fuorviante e rischia di accelerare la crisi globale della biodiversità”, ha commentato il professor Alexandre Antonelli, autore principale della lettera e direttore scientifico di Kew Gardens.
Tra le questioni che saranno affrontate, infine, c’è il ruolo delle popolazioni indigene e delle conoscenze tradizionali nella conservazione della natura. Numerose ricerche mostrano che, sebbene le popolazioni indigene rappresentino solo il 5% della popolazione terrestre, sono custodi di circa l'85% della biodiversità del pianeta. La bozza attuale punta a consentire “un'azione urgente e trasformativa” per affrontare la perdita di biodiversità attraverso la partecipazione di “tutta la società”, comprese le comunità indigene e locali.
Secondo un comunicato stampa della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) delle Nazioni Unite, le parti sono "incoraggiate a... rafforzare la capacità delle popolazioni indigene e delle comunità locali di esercitare i loro diritti e le loro responsabilità nella gestione sostenibile della fauna selvatica", nonché a collaborare con queste comunità per identificare le aree chiave per la biodiversità. Tuttavia, i gruppi indigeni restano scettici sul successo di questa COP.