Paolo Mieli e il riscaldamento globale: l’anti-scienza di un sostenitore della scienza
14 min letturaTre giorni fa, il 4 novembre, è entrato ufficialmente in vigore l'accordo sul clima firmato al termine della 21esima sessione della Conferenza delle parti (COP21) che si è tenuta lo scorso anno a Parigi. Lo scopo dell'accordo è limitare l'aumento della temperatura media globale a meno di 2 gradi centigradi rispetto all'era pre-industriale, ma con un ulteriore impegno a non superarare 1 grado e mezzo.
Delle questioni ancora aperte nel campo delle politiche sul riscaldamento globale si discuterà durante la Conferenza sul clima (COP22) che si è aperta ieri, 7 novembre, a Marrakech. Valigia Blu ha dedicato un approfondimento alla storia delle conferenze sul clima, alla scienza del riscaldamento globale e agli impatti sociali, non solo ambientali, dei cambiamenti climatici.
Proprio in occasione dell'apertura della conferenza di Marrakech, Paolo Mieli, ex direttore del Corriere della Sera, ha dedicato al tema del riscaldamento globale un editoriale, pubblicato ieri, dal titolo I dati, i dubbi e gli eccessi sul cambiamento climatico. Il pezzo si apre così:
Un nuovo uragano di irragionevolezza rischia di abbattersi sul mondo in coincidenza con l’apertura — oggi a Marrakech — della Conferenza sui cambiamenti climatici.
L'«uragano di irragionevolezza» sarebbe quello scatenato dai «sostenitori della tesi che questo sia un campo delle certezze assolute». Tra questi Mieli annovera alcune star del cinema che «spiccano per spirito militante», tra cui Arnold Schwarzenegger e Leonardo DiCaprio - protagonista di Before The Flood, un documentario sul global warming trasmesso in anteprima il 30 ottobre sul canale di National Geographic.
Da una parte, scrive il giornalista, è «ragionevole che, sia pure a titolo precauzionale, vengano prese misure anche drastiche» per combattere il riscaldamento globale. Ma, d'altra parte, scrive, è irrazionale dar retta ai sostenitori delle «certezze assolute».
In questo editoriale non si negano esplicitamente i dati scientifici sul riscaldamento globale, ma si punta il dito contro il «linciaggio di chi muove legittime obiezioni all’assunto che riconduce interamente all’uomo il surriscaldamento del pianeta».
Mieli invita quindi a considerare alcuni dati che riguardano la ripartizione tra i vari paesi delle emissioni di gas serra:
Sarebbe molto più sensato, sostiene lo studioso, ripartire le emissioni in funzione del Paese di consumo finale piuttosto che di quello di produzione. Constateremmo in questo modo che le emissioni europee schizzano in su del 40% (quelle nordamericane del 13%) mentre quelle cinesi scendono del 25 per cento.
E prosegue:
I Paesi ricchi continuano a rappresentare la stragrande maggioranza del fronte degli inquinatori e non possono chiedere alla Cina (...) di farsi carico di una responsabilità superiore a quella che le spetta.
Mieli sta citando i risultati di uno studio (Carbon and inequality: from Kyoto to Paris) che l'economista Thomas Piketty ha pubblicato l'anno scorso insieme a Lucas Chancel, della École d'économie de Paris. In questa ricerca Piketty e Chancel descrivono l'evoluzione, a livello globale, della distribuzione delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra nei diversi continenti e regioni del pianeta, in particolare dal 1998 al 2013. Spiegano come sia cambiata questa distribuzione in relazione ai livelli di disuguaglianza economica. Non solo tra gli abitanti dei diversi paesi ma anche all'interno della popolazione di ogni paese.
I due autori hanno rilevato che le classi medie e benestanti dei paesi emergenti hanno aumentato il loro contributo alle emissioni di anidride carbonica negli ultimi 15 anni. Perciò, come scrive in sintesi Piketty, ci sono ormai "significativi inquinatori" in tutti i continenti, quindi si allarga il numero di paesi chiamati a partecipare al finanziamento degli interventi contro i cambiamenti climatici.
Tuttavia, nota sempre Piketty, il contributo alle emissioni globali di chi risiede nei paesi ricchi continua a essere molto maggiore di quello di chi vive in paesi come la Cina. E nel calcolo del contributo alle emissioni di ogni paese non si deve tenere conto soltanto di dove i gas serra vengono rilasciati, ma anche di dove avvengono i consumi responsabili di queste emissioni.
Per esempio, il rilascio di anidride carbonica causato dalla fabbricazione in Cina di smartphone venduti in Europa dovrebbe essere attribuito agli europei, non ai cinesi. Come evidenzia Piketty, citato da Mieli: 70 milioni di persone (l'1% della popolazione del pianeta) sono responsabili da soli del 15% delle emissioni, quanto la metà della popolazione mondiale. Secondo le stime di Piketty e Chancel, il 57% di queste persone vive in Nord America, il 16% in Europa e solo poco più del 5% in Cina.
Ma questi problemi, che Mieli solleva citando l'economista francese, per quanto rilevanti e ancora discussi, riguardano questioni di carattere politico ed economico, che devono venire affrontate nell'ambito degli accordi internazionali come quello adottato a Parigi. Non riguardano la teoria scientifica delle cause dell'attuale riscaldamento globale e delle sue conseguenze. Sono problemi che si pongono un secondo dopo aver preso atto del consenso scientifico sulle cause del riscaldamento globale, altrimenti non avrebbe neanche senso discutere di quanto ogni paese sia responsabile di questo fenomeno.
Paolo Mieli ne prende quindi atto? No. Si chiede, piuttosto, perché «la discussione debba essere imbarbarita da una certa dose di fanatismo».
Per dimostrare il "fanatismo" che caratterizzerebbe il dibattito sul riscaldamento globale, Mieli cita alcuni casi di persone attaccate per aver avanzato osservazioni o idee "critiche". Il primo è Piers Corbyn, fratello di Jeremy Corbyn, il leader del Partito laburista britannico. Nell'editoriale viene presentato così:
...fisico e meteorologo, il quale, sulla base di evidenze scientifiche (anch’esse meritevoli d’essere prese in esame), sostiene che il riscaldamento globale non sia dovuto ai guasti provocati dal genere umano o dalla industrializzazione sregolata e trovi piuttosto spiegazione nel sole.
Corbyn non sostiene che il riscaldamento globale sia provocato dal sole, ma crede piuttosto che l'anidride carbonica non abbia mai avuto alcun effetto sul clima. E che il clima, così come i fenomeni meterologici, siano influenzati soprattutto dall'attività solare. Inoltre afferma che il pianeta si sta raffreddando, non riscaldando. Quanto alle evidenze, non ne ha portate nemmeno una in pubblicazioni su riviste scientifiche.
Corbyn è noto soprattutto per aver creato un sito, WeatherAction, dove vende previsioni meteorologiche che si spingono fino a un anno, basate proprio sull'analisi dell'attività solare. In passato è arrivato a invocare l'attività del sole addirittura per la previsione dei terremoti. Nel 2009 Corbyn è intervenuto alla International Conference on Climate Change, un evento promosso dall'Heartland Institute, un think tank americano di orientamento conservatore e liberista.
L'Heartland Institute in questi anni è stata una delle organizzazioni più attive nel negazionismo della scienza del riscaldamento globale e delle sue cause. Nel 2012 lanciò una campagna di manifesti in cui associava l' "allarmismo" per il riscaldamento globale all'immagine di alcuni personaggi: Ted Kaczynski, l'Unabomber americano, Charles Manson, condannato alla pena di morte, poi trasformata in ergastolo, per essere stato il mandante di diversi omicidi, e Fidel Castro. L'istituto, in una nota, non escludeva la possibilità di inserire in questi manifesti altri "allarmisti", come Osama bin Laden.
Il secondo caso citato nell'editoriale è quello di Philippe Verdier, meteorologo della televisione di stato francese, licenziato, scrive Mieli, perché colpevole di aver «dato alle stampe Climat Investigation, un libro in cui si relativizzavano le conseguenze del global warming».
Mieli, infine, richiama (senza però spiegarla) la vicenda che ha visto protagonista Luisa Cifarelli, presidente della Società Italiana di Fisica. A novembre dell'anno scorso si era tenuto a Roma un simposio sul clima, al termine del quale le principali società scientifiche italiane avevano preparato un documento, in occasione della conferenza sul clima di Parigi che si sarebbe aperta pochi giorno dopo. La Società Italiana di Fisica aveva deciso di non firmare questo documento. Luisa Cifarelli aveva motivato questa scelta così:
Il documento in questione contiene nelle sue premesse delle affermazioni date come certezze incontrovertibili a proposito dell’origine antropica dell’attuale cambiamento climatico. Ma le verità scientifiche non possono basarsi sul consenso generalizzato, mescolando scienza e politica, come sta avvenendo in questo caso. Poiché la richiesta della SIF, di introdurre qualche parola di tipo probabilistico (come “likely”, che ha un significato ben preciso e tutt’altro che disdicevole), è stata categoricamente rifiutata, la SIF non ha ritenuto di sottoscrivere il documento.
Nel commentare questa vicenda Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, ricordava che la parola richiesta da Luisa Cifarelli (likely, "probabile") è già presente nel rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), nella formula extremely likely (estremamente probabile). «È estremamente probabile che l'influenza umana sia stata la causa dominante del riscaldamento osservato dalla metà del XX secolo», scrive l'IPCC. Dove "estremamente probabile" esprime una probabilità del 95-100%.
Nessuno quindi ha aggredito né lapidato Luisa Cifarelli, come denuncia Mieli. Semplicemente, molti hanno criticato la Società Italiana di Fisica per aver difeso una scelta così grave senza portare una sola evidenza scientifica che la giustificasse. Una decisione che si è trasformata in un caso pubblico che, come nota Cattaneo, ha offerto una «splendida sponda ai negazionisti».
Quindi: critica del fanatismo e denunce di linciaggi e lapidazioni. Quelli di Mieli sembrano gli stessi artifici retorici di chi tenta di minare la credibilità di una teoria scientifica, e del consenso che la supporta, spostando il piano della discussione dalle teorie e dalle evidenze alle considerazioni ad hominem. Cioè, a quel tipo di argomentazioni che prendono di mira, spesso esasperandoli, atteggiamenti e comportamenti che impedirebbero ai sostenitori delle "tesi alternative" di esporre liberamente la propria posizione.
Quando infatti le evidenze dalla loro parte sono deboli o assenti, i sostenitori delle "tesi alternative" sono soliti accusare i propri avversari di essere dei "detentori della verità" che propongono "certezze assolute", fautori di un "pensiero unico". È una strategia argomentativa tipica e ricorrente in questo tipo di discussioni. Ed è la stessa adottata da chi nega la validità della teoria dell'evoluzione o l'efficacia e la sicurezza dei vaccini e, perfino, dai sostenitori del "metodo Stamina".
Quando perciò Mieli rivolge ai propri interlocutori la domanda retorica «se ne può discutere?», lo fa per lasciar intendere che si tratti di un dibattito sulla libertà di espressione, invece che su teorie scientifiche, evidenze empiriche e dati sperimentali.
Un'altra strategia, proposta molto spesso, consiste nel richiamarsi alle opinioni di singoli scienziati (quando non ad autoaccreditati "esperti") che sostengono ipotesi diverse rispetto al consenso scientifico, allo scopo di dimostrare che la scienza è "divisa" e che non tutti gli scienziati sono d'accordo. O, di nuovo, per instillare il sospetto che la comunità scientifica isoli o censuri i "dissidenti" o impedisca lo svolgimento di un aperto e onesto confronto.
Non mancano infatti casi di scienziati, anche celebri, che hanno abbracciato ipotesi "alternative" e contrarie. Per esempio, il biochimico americano Kary Mullis, premio Nobel per la Chimica nel 1993, ha sostenuto la tesi che il virus HIV non sia la causa dell'AIDS. La posizione personale di Mullis non dimostra nulla (se non, banalmente, che anche uno scienziato premio Nobel può sbagliarsi). Così come non dimostrano nulla le vicende, citate da Paolo Mieli, di Corbyn, di Verdier e di Cifarelli.
La storia della scienza è sicuramente fatta anche di vicende personali, che si intrecciano con lo sviluppo delle teorie e delle scoperte. Ma il fatto che il sostenitore di una tesi "alternativa" sia licenziato da una televisione pubblica non dice nulla sulla validità delle sue opinioni. Molto spesso, inoltre, le tesi "alternative" (anche sul riscaldamento globale) sono proposte da scienziati o esperti estranei alla comunità scientifica che si occupa di un certo campo di studi. Non basta, quindi, essere fisici per esprimersi sul global warming, perché non tutti i fisici sono specialisti di scienza del clima o si occupano direttamente di riscaldamento globale e cambiamenti climatici.
Mieli, quindi, anche se non nega i dati che dimostrano la responsabilità umana del riscaldamento globale, utilizza proprio gli stessi metodi di chi lo ha fatto e di chi continua a farlo. Eppure, quando parla di «quelli che non hanno dubbi sull’origine antropica del riscaldamento», sembra riferirsi soltanto a persone come Leonardo Di Caprio e l'ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, non alla comunità scientifica.
Da quello che scrive Mieli, infatti, sembra che i sostenitori dell’origine antropica del global warming siano una minoranza, un po' estremista, di attivisti ambientalisti. E non la maggioranza degli scienziati, cioè quelli che questa teoria l'hanno dimostrata e la sostengono oggi con dati ed evidenze. È la comunità scientifica in campo climatologico ad aver dimostrato quali siano le cause dell'attuale riscaldamento globale. Non le star di Hollywood o i politici diventati attivisti.
Al giudizio della comunità scientifica Mieli non dedica un solo cenno in tutto l'editoriale. Tanto che, leggendolo, sorge il dubbio che il giornalista ignori dati come questi:
Questi grafici a torta rappresentano la percentuale di scienziati che concordano con la teoria che il riscaldamento globale sia causato dall'uomo, così come calcolata in diversi studi (citati nei grafici) dal 2004 a oggi. Questi studi hanno misurato il livello di consenso all'interno della comunità scientifica, sia analizzando la letteratura che attraverso sondaggi tra gli esperti.
Quest'anno gli autori di sette studi sul consenso scientifico sul riscaldamento globale hanno pubblicato una nuova ricerca, che sintetizza i risultati delle analisi precedenti (Consensus on consensus: a synthesis of consensus estimates on human-caused global warming). A seconda del metodo di misurazione del consenso, gli autori hanno calcolato che la percentuale si colloca tra il 90 e il 100%, con un valore che si attesta attorno al 97%.
Gli autori hanno anche rilevato che la percentuale di consenso aumenta insieme al grado di competenza nel campo della scienza del clima.
I climatologi, perciò, concordano praticamente tutti sulle evidenze che riguardano le cause del riscaldamento globale.
Il consenso scientifico non è semplicemente l'opinione della maggioranza in un dato momento, ma è l'espressione del giudizio della comunità scientifica, su un certo tema, così come emerge nel tempo dagli studi e dalla letteratura scientifica. È il risultato di un progresso collettivo della conoscenza.
«Se ne può discutere», quindi? Sì, ma Mieli prima di porre questa domanda avrebbe dovuto confrontarsi con questi numeri, non con le opinioni di DiCaprio e Al Gore. E con la posizione delle maggiori società scientifiche internazionali, dall'American Association for Advancement of Science alla britannica Royal Society.
Ma, si potrebbe pensare, Mieli si limita a segnalare qualche reazione eccessiva nei confronti di chi si permette di avanzare legittimi dubbi e critiche. Purtroppo, non è così:
Il clima poi ha una sua storia molto particolare. Tra il 21 e il 50 d.C. si ebbero temperature superiori a quelle di oggi, tanto che fu possibile importare in Inghilterra la coltivazione della vite. Intorno all’anno mille il riscaldamento continentale consentì ai vichinghi di colonizzare la Groenlandia (che fu così chiamata proprio perché era diventata «gruene», verde) e l’America del Nord. Dopo l’anno mille (...) si sono alternate epoche di riscaldamento e di glaciazione senza che l’uomo avesse alcun potere di influenzare questi cambiamenti. Nel ventesimo secolo la temperatura è salita tra il 1910 e il 1940, è scesa poi fino alla metà degli anni Settanta (a causa della Seconda guerra mondiale?), ha ripreso a crescere a partire dal 1975 ma si è fermata una seconda volta alle soglie del nuovo millennio (per effetto delle politiche ecologiste?). Tutti temi da studiare, da approfondire. Se ne può discutere?
Mieli passa dalle osservazioni sul linciaggio verso chi muove obiezioni, al merito scientifico della discussione. Sposando una delle classiche tesi di chi nega il consenso scientifico sul riscaldamento globale: il clima della Terra è sempre cambiato.
Di nuovo, se ne può discutere? Sì, se lo si fa alla luce delle evidenze. È vero, temperature e clima sono mutati diverse volte nella storia della Terra. Ma il cambiamento che ha portato all'attuale temperatura è diverso da altri che la Terra ha sperimentato in epoche passate. Quando si parla dell'attuale riscaldamento si parla di una tendenza all'aumento della temperatura media globale, che deve essere distinto sia da cambiamenti su scala regionale che da fluttuazioni nel breve periodo.
Mieli accenna al caso della Groenlandia (citato molto spesso). La calotta di ghiaccio che oggi ricopre l'80% della Groenlandia ha un'età stimata di almeno 400mila anni. Perciò, doveva essere presente già durante le prime esplorazioni vichinghe. È vero, però, che questo è quello che viene definito "Periodo Caldo Medievale". Ci sono evidenze che al tempo della prima colonizzazione dell'isola in alcune aree del Nord Atlantico e dell'Europa ci fossero temperature più calde delle attuali. Questo può aver favorito gli spostamenti verso Nord, ma per le popolazioni che approdarono sull'isola fu possibile insediarsi solo in aree limitate del territorio.
È possibile, perciò, che il re vichingo Erik il Rosso abbia chiamato quella regione "terra verde" perché alcune aree costiere erano effettivamente ricoperte da vegetazione, ma anche per richiamare coloni verso l'isola. In ogni caso, quello che definiamo Periodo Caldo Medievale fu un fenomeno sostanzialmente regionale, non globale.
Non ci sono state "glaciazioni" dopo l'anno 1000. Mieli si riferisce al periodo noto come Piccola Era Glaciale, che inizia, convenzionalmente, a metà del XVI secolo (ma forse già nel XIV secolo) e termina a meta del XIX.
Ogni variazione, anche nel breve o medio periodo, può avere diverse e particolari cause. Si ritiene che il fattore principale che ha causato il trentennio di "raffreddamento", alla fine della seconda guerra mondiale, sia stato il rapido aumento dell'attività industriale seguito alla fine del conflitto, che ha determinato un aumento degli aerosol atmosferici. Questo effetto è stato causato in particolare dai solfati. Quando sono entrate in vigore le prime regolamentazioni delle emissioni, la concentrazione dei solfati nell'atmosfera ha iniziato a diminuire.
L'attuale riscaldamento globale, perciò, oltre che per la sua velocità, si distingue dai cambiamenti precedenti per le sue cause, così come evidenziato dal consenso scientifico. Il meccanismo con cui l'anidride carbonica può far aumentare l'effetto serra nell'atmosfera è noto infatti da tempo.
Già nel 1859 John Tyndall scoprì che il vapore acqueo e l’anidride carbonica sono gas capaci di intrappolare il calore. Nel 1896 Svante Arrhenius stimò l’effetto sulla temperatura globale di un aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. L'IPCC afferma che la metà circa delle emissioni umane di CO2 dal 1750 al 2011 è avvenuta negli ultimi 40 anni. Il video mostra l'andamento delle emissioni di CO2 dalla prima Rivoluzione Industriale al 2008.
La rapidità dell'aumento della concentrazione di anidride carbonica nella seconda metà del '900 va di pari passo con quello della temperatura.
L'Earth Observatory della NASA scrive che quando la Terra è uscita dalle ere glaciali, nei milioni di anni passati, la temperatura globale è cresciuta di 4-7 gradi centigradi, ma nell'arco di migliaia di anni. L'aumento della temperatura avvenuto dal secolo scorso si è verificato ad una velocità senza precedenti, dieci volte maggiore del tempo medio di riscaldamento seguito a un'era glaciale. Quanto alla concentrazione atmosferica di anidride carbonica, si sta ormai avviando a essere stabilmente al di sopra delle 400 parti per milione. Come sottolinea la Royal Society, l'attuale riscaldamento non può essere l'effetto dei cicli dell'attività solare.
La maggior parte dell’aumento della temperatura globale dalla seconda metà dell'800 a oggi si è verificata a partire dalla metà degli anni ’70. Nove dei dieci anni più caldi tra quelli registrati sono concentrati dal 2000 a oggi. Il 2016 si avvia ad essere un nuovo anno record. Secondo i dati della NASA, la temperatura di settembre è stata di 0,91 gradi centigradi superiore alla media di riferimento del periodo (tra il 1951 e il 1980). Il settembre più caldo in 136 anni di registrazioni.
Da queste evidenze si deduce perciò che le misure contro il riscaldamento globale non vengono prese certo «a titolo precauzionale», come scrive Mieli, ma perché sono la risposta più razionale (e peraltro tardiva) a ciò che sta accadendo sul nostro pianeta.
Lo scorso maggio Mieli, in un editoriale intitolato Un Paese che detesta la scienza, parlando della vicenda giudiziaria che aveva visto coinvolta la virologa Ilaria Capua, scriveva che il nostro è un paese «che non mostra alcuna sensibilità nei confronti dei metodi e del rigore che si addicono al mondo della scienza». È sorprendente che a scrivere queste parole sia la stessa persona che ieri ha sposato alcuni dei principali argomenti di chi vuole demolire la scienza del riscaldamento globale.
Può sembrare paradossale ma succede di frequente, soprattutto nei dibattiti su temi scientifici oggetto di controversie sociali e politiche. Chi abbraccia visioni addirittura scientiste può finire per negare le evidenze scientifiche quando sembrano contraddire alcune convinzioni ideologiche. Si può essere favorevoli agli OGM e, nello stesso tempo, negare l'esistenza o le cause del riscaldamento globale, perché si collocano questi temi all'interno di un dibattito politico o economico, più che scientifico, e in un confronto con certi avversari ideologici (in questo caso, l'ambientalismo).
È perciò inutile e insensato denunciare il paese che «detesta» la scienza, se poi la scienza la si nega proprio in una delle sue acquisizioni più solide.
[Foto apertura articolo: via NASA]