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Città e piste ciclabili: non ci manca lo spazio, ma l’immaginazione

2 Marzo 2023 13 min lettura

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Città e piste ciclabili: non ci manca lo spazio, ma l’immaginazione

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

C’è una frase che viene pronunciata in tutte le parti del globo per troncare a prescindere qualsiasi argomentazione relativa al miglioramento della mobilità ciclistica in città: “Eh ma [*inserire città a piacimento*] non è Amsterdam”.

C’è infatti questa diffusa credenza che nella capitale olandese le persone siano nate con una maggiore propensione all’uso della bicicletta. La naturale convinzione che la città sia stata fondata in quella maniera: costruita attorno alla mobilità su due ruote, da sempre. Una sorta di DNA urbano: se quel gene non ce l’hai, è inutile perdere tempo.

Ebbene, proviamo una volta per tutte a sfatare questo mito. E lo facciamo raccontando la storia di come Amsterdam sia diventata la capitale mondiale della mobilità ciclistica (perché non ci si nasce, ma ci si diventa) e di come altre città, spesso molti anni più tardi, abbiano seguito il suo esempio. Come? Compiendo una risoluta e profonda trasformazione urbana guidata dalla volontà di togliere spazio alle auto per restituirlo alle persone. Mettendo in atto una serie di rapidi cambiamenti e prese di posizione che hanno trasformato il paesaggio urbano e le menti di chi lo abita: la rivoluzione ciclabile.

Neanche Amsterdam era Amsterdam

Facciamo un passo indietro. Nei primi decenni del Novecento ad Amsterdam qualcosa di simile alle piste ciclabili c'era già, ma era completamente diverso da come lo conosciamo oggi: percorsi stretti, non connessi, pericolosi o assenti agli incroci. La verità è che in quegli anni non erano davvero necessarie: come ovunque in Europa, in strada il numero di persone in bicicletta era molto maggiore delle auto in circolazione, dunque questo tipo di infrastruttura non era necessario.

È dopo la Seconda guerra mondiale che le cose sono cambiate radicalmente. Il boom economico ha travolto Amsterdam come tante altre realtà del mondo occidentale: l’avvento dell’auto privata e la sua rapida e costante crescita ha portato le città a modificare il loro assetto urbano, per fare spazio a ciò che era considerato il nuovo indiscusso e desiderabile modello di mobilità basato sull’auto privata. Nel breve documentario “How the dutch got their cycle path”, pubblicato dal canale di divulgazione BicycleDutch, è possibile avere un’idea di quello che stava accadendo a diversi centri storici europei: interi edifici abbattuti per fare spazio a strade e superstrade costruite sul modello nord-americano, che in quel momento incarnava l’idea di progresso e di futuro a cui le città europee volevano adeguarsi, modificando profondamente le proprie strade e centri storici, tradizionalmente non concepiti per il traffico pesante.

Era in atto la rivoluzione motorizzata, in Olanda come nel resto d’Europa: demolizioni di edifici per ampliare le strade, conversione di piazze e marciapiedi in parcheggi, dismissione di binari dei tram, divieto di transito per le biciclette in alcune strade, separazione di quartieri e territori da strade a scorrimento veloce, rimozione di infrastrutture dedicate ad altri tipi di mobilità. In quest’ultimo campo è ormai celebre uno spot della FIAT Balilla degli anni ‘30: "Non ci sono più pedoni: togliamo i marciapiedi!". 

Come raccontano Oldeziel & de la Bruhèze nel loro studio “Contested Spaces”, in quel momento storico nei Paesi Bassi come in tanti altri stati europei si sono quindi susseguite diverse fasi. In primis, l’estromissione della mobilità ciclistica dalle strade e dalla progettazione urbana per fare spazio alle automobili. Una volta normalizzato questo fenomeno, con l’avvento della motorizzazione di massa semplicemente andare in bicicletta è diventato per molte persone qualcosa di anacronistico associato ad un passato di miseria, oltre che pericoloso. È solo dopo alcuni anni che con la nascita e lo sviluppo delle associazioni ciclistiche si è assistito alla diffusione di una rinnovata immagine dell’andare in bicicletta, promosso come qualcosa di slegato dallo status sociale.

È proprio a partire da questi movimenti che si basa la forte leva che ha fatto diventare Amsterdam la città che conosciamo oggi. Negli anni ’70 infatti in termini di traffico veicolare Amsterdam non era molto diversa da Milano, da Parigi o da Londra. Ma la nascita e il consolidamento di una forma di resistenza dal basso contro l’automobilizzazione della città, unita ad un’altra serie di contingenze, ha fatto sì che i decisori politici prendessero una posizione radicale verso una profonda ri-trasformazione della città. Quali furono queste contingenze?

Figura 0.1 Amsterdam "prima che fosse Amsterdam": 1970. Fonte: prof. Marco te Brömmelstroet ("The cycling professor")

In primis fu la spinta data dalla crisi energetica del ’74 e ’76 e la recessione economica degli anni ‘80. La forte dipendenza dell'Olanda dall'energia estera ha portato il governo a formulare strategie per rendersi più autonoma senza intaccare eccessivamente la qualità della vita. Quale miglior modo se non liberandosi dalla dipendenza dall’auto privata per gli spostamenti in città? È nel 1975 che vengono costruite le prime piste ciclabili finanziate dallo Stato all’Aia e Tilburg, accompagnate da una serie di iniziative quali le “domeniche senz’auto”, come accadeva anche in Italia, per ricordare alla cittadinanza la piacevolezza della città senza auto.

È sempre in quegli anni, inoltre, che prende piede il movimento “Stop de Kindermoord”, letteralmente “Stop all’uccisione dei bambini”. Nel 1971, infatti, persero la vita 3.300 persone a causa delle automobili, 400 delle quali erano minori di 14 anni. A iniziare il movimento fu il padre di un bambino ucciso da un automobilista. Essendo lui un giornalista, iniziò un’incisiva opera di divulgazione diffondendo articoli e dati sulla mortalità infantile causata dai veicoli a motore e organizzando proteste per reclamare il diritto di bambini, pedoni, ciclisti a potersi spostare in sicurezza. Il suo messaggio fu molto potente e le manifestazioni divennero continue, creando una sorta di sensibilizzazione permanente che contribuì a legittimare le politiche di disincentivo alla mobilità motorizzata privata promosse dal governo, che continuarono in una decisa trasformazione della città (e del paese intero) che l’hanno fatta diventare come la conosciamo oggi.

Figura 0.2 Manifestazione Stop de kindermoord 15 dicembre 1972 ad Amsterdam. Fonte Wikipedia Commons

Gruppi organizzati per la promozione della ciclabilità, proteste di massa per reclamare il diritto di spostarsi in sicurezza a piedi e in bici, crisi energetica sono elementi più che mai attuali. Rileggendo la storia di Amsterdam è facile riconoscervi le diverse fasi di ciò che è accaduto, accade e sta accadendo in molte realtà urbane, che a seconda dei casi vediamo ferme in alcune fasi (es. la marginalizzazione della mobilità ciclistica) o avanzare verso sistemi sempre meno basati sull’automobile. È evidente che emerge in questo puzzle un elemento fondamentale, che nei Paesi Bassi fu un’intuizione più lungimirante di altri e che si unì alle spinte provenienti dal basso: la volontà politica di una riforma dell’assetto urbano.

Cosa sta accadendo nelle città?

Negli ultimi anni è sempre più frequente assistere a trasformazioni radicali delle città a favore della mobilità attiva. Non è un caso che le combinazioni siano sempre composte da quegli elementi chiave che abbiamo visto per Amsterdam: periodi di fragilità economica o sociale (emergenza sanitaria; crisi economica o energetica); manifestazioni dal basso e/o sinistri stradali che hanno particolarmente scosso l’opinione pubblica dando origine a proteste diffuse; la determinata volontà politica da parte del governo (più spesso a livello comunale che nazionale, come sindache o sindaci particolarmente incisivi).

A Londra, ad esempio, il crescente numero di persone in bici uccise tra il 2011 e il 2012 ha innescato una rivolta dei ciclisti urbani che ha portato a quel cambiamento stradale che vediamo ancora in atto oggi. Nel 2011, infatti è nato il gruppo Bikes Alive, che ha iniziato a organizzare proteste e sit-in per richiamare l’attenzione sulla violenza stradale.  La morte di sei persone in bicicletta nel solo mese di novembre 2013 ha portato migliaia di persone a protestare di fronte alla sede di Transport for London, richiamando l'attenzione non solo del parlamento inglese ma anche della commissione europea.

Figura 0.3 La protesta di fronte alla sede di Transport for London nel 2013. Fonte ECF

Nel 2019, con il varo del Cycling Action Plan fortemente sostenuto dal sindaco Sadiq Khan, Londra ha iniziato il suo percorso per ambire al titolo di città più ciclabile d’Europa. Il piano, della durata di 5 anni, ha l’obiettivo di triplicare il numero di piste ciclabili e di persone che vivono vicino ad una rete ciclabile con un investimento di 2,3 miliardi di sterline. Nel frattempo, a Londra sono cresciute in numero e per estensione prima le corsie ciclabili in segnaletica orizzontale, poi le piste ciclabili in sede propria e successivamente le cosiddette cycle highways, ovvero piste larghe fino a quattro metri e a due corsie in senso unico di marcia.

Figura 0.4 Cycle highway a Londra. Fonte: Imperial College London

I risultati sono impressionanti: dai dati raccolti da City of London Traffic Composition Surveys relativi al 2020 si evince che la bicicletta è il mezzo più utilizzato durante gli orari di punta. Il numero di persone in bici in quelle fasce orarie è più che raddoppiato dal 2007, consolidando le due ruote come il principale mezzo di trasporto per i pendolari del mattino. A suffragare questi dati anche l’annuncio dell’agenzia Transport for London (TfL), che ha comunicato che il 2021 è stato l’anno con il più alto utilizzo in assoluto di Santander Cycles, le biciclette del bike sharing londinese, con quasi 11 milioni di prelievi totali.

Un altro caso ormai celebre di “rivoluzione ciclabile” è quello di Parigi. La sindaca Hidalgo sta riuscendo nell'ambizioso piano di trasformare l'intera città in un "paradiso della bicicletta" entro il 2026. Con un investimento di 250 milioni di euro (che si aggiungono ai 150 milioni del piano precedente), infatti, il Plan Velo intende rendere la capitale francese un luogo 100% ciclabile, con pochissime auto e molte più aree verdi. Complice la spinta apportata dalla pandemia, l'obiettivo sembra più che mai realistico: la rapidità con cui Parigi è riuscita a cambiare volto in pochi anni è stata impressionante, tanto da catturare l'attenzione mondiale come nuovo esempio di “rivoluzione ciclabile”. È nel pieno dell’emergenza sanitaria che la città di Parigi annuncia la creazione di 50 chilometri di piste ciclabili provvisorie: le “coronapiste”, pensate per promuovere gli spostamenti in bicicletta al termine del primo lockdown. Durante l’epidemia di Covid-19, infatti, alcune strade originariamente destinate alle macchine sono state convertite in piste ciclabili. Questi provvedimenti, uniti alle migliorie infrastrutturali provenienti dal Plan Velo 2015-2020, hanno portato ad un aumento del traffico sulle due ruote del 60% rispetto all’anno precedente. Ora molte “coronapiste” provvisorie sono diventate permanenti, e le piste ciclabili e le biciclette in città si vedono praticamente ovunque.

Nei casi sopracitati, così come in molte altre città in Europa e nel mondo, si tratta in sostanza dell’applicazione con successo di un noto principio: "Build it and they will come" (“costruiscile, e loro arriveranno”). Naturalmente non è mai così riduttivo: ad una buona rete di piste ciclabili deve essere affiancata un’ampia offerta di servizi di mobilità che garantiscano nel complesso una migliore alternativa all’auto privata. Ad esempio, uno stretto legame con il trasporto pubblico grazie a sistemi di tariffazione integrata, bike sharing, parcheggi sicuri per le biciclette, così come l’integrazione con politiche sull’uso e organizzazione dello spazio che rendano le città luoghi piacevoli in cui camminare e pedalare.

Figura 0.5 Come è cambiato il paesaggio urbano delle città con la riconversione dello spazio per le auto in spazio per le persone. Fonte: The Mind Circle

Non ci manca lo spazio: ci manca l’immaginazione

Quando le biciclette dominavano le strade, la forte convinzione che le auto sarebbero state senza dubbio il mezzo dominante del futuro ha fatto sì che questo accadesse per davvero: la cosiddetta profezia che si auto-avvera. Guardando alla potenza che ha avuto questa convinzione nella trasformazione delle città europee, che per secoli sono state fondate e sviluppate e per essere fulcri di persone e relazioni prima che di automobili, non risulta così difficile immaginare che sia possibile una nuova rivoluzione. Dopotutto ce lo dimostrano gli esempi di Amsterdam, Londra, Parigi per non parlare di molte altre città che vedono un traffico ciclistico maggiore di quello veicolare, prima fra tutte Copenhagen.

Immagina una città senza auto

Con questo articolo si sono volute ripercorrere le tappe che hanno portato le città a essere quello che sono oggi, per portare l’attenzione sul fatto che la mobilità ciclistica non è l’ultima moda dell’élite urbana, ma incarna una lunga storia di marginalizzazione, rinascita e rivoluzione. È la storia di una rivoluzione ciclabile, la velorution, che ha sicuramente travolto Amsterdam ma che – come abbiamo visto – è invocata da sempre più città.

Ricostruendo la storia delle nostre città e della mobilità delle persone, è possibile “sbloccare” la capacità di immaginare città diverse e migliori (“Immagina una città senza auto”), uscendo dalla logica urbana auto-centrica in cui la maggior parte di noi è cresciuta e, chissà, ricredersi sulla effettiva funzionalità di questo modello. Maturare una nuova convinzione e farne avverare un’altra, di profezia. Per ridare alle città e alle strade il fine per cui sono nate: far incontrare le persone.

Figura 0.6 Mobilità attiva: la costante interazione con lo spazio e le persone. Fonte BikeyFace

… E in Italia?

Nei primi mesi dell’emergenza sanitaria, Milano ha fatto da apripista nell’ondata di infrastrutturazione ciclistica post-Covid. Con i suoi 35km di corsie ciclabili “pop-up” ha cercato di fornire nel breve periodo una soluzione rapida ed economica per chi voleva spostarsi in bicicletta, seguita da Genova (30km), Roma (15,7km) e Torino (15,5km). Durante la pandemia, infatti, la domanda di una mobilità "a prova di distanziamento sociale" e di prossimità ha fatto notevolmente crescere l’offerta di infrastrutture per la mobilità ciclistica, con un aumento che è tuttora in corso in molti capoluoghi italiani.

Tuttavia, raramente le “coronapiste” hanno avuto lo stesso effetto dirompente osservato nella capitale parigina. Guardando al nostro paese, è difficile trovare degli esempi di vere e proprie rivoluzioni ciclabili. In Italia troviamo diverse città dove la bicicletta gode di un ampio utilizzo grazie alla diffusa presenza di infrastrutture dedicate. Ma si tratta spesso di luoghi in cui la cultura della bicicletta è radicata da tempo, come nei centri dei capoluoghi emiliani: città come Ferrara, Reggio Emilia, Modena sono spesso in testa nelle classifiche dedicate alla mobilità su due ruote. In queste ultime si va dai 12 ai 15km di piste ciclabili ogni 10.000 abitanti, un numero paragonabile ad Amsterdam (14km) o Copenhagen (8km). Peccato che si tratti di perle rare: la media nazionale rimane di appena 2,8 km di ciclabili per diecimila abitanti. Il dato non stupisce: secondo l’ultimo report di Clean Cities, l’Italia spende circa 100 volte in meno per la mobilità ciclistica che per quella motorizzata (poco più di un miliardo contro i 98 per il settore automotive). 

L’esempio che più si avvicina ad una “rivoluzione ciclabile” è quello di Pesaro. Il comune marchigiano, infatti, nel 2005 ha ideato e poi realizzato la Bicipolitana, una rete di 100 chilometri di piste ciclabili che va dal centro alle spiagge, dai parchi alle periferie. Il progetto, un modello che ha fatto scuola in Italia e all’estero (a partire dal nome), nasce nel 2005 da un’idea visionaria nata in collaborazione con la cittadinanza e i consigli di vicinato: ricalcare il modello della metropolitana per la mobilità su due ruote.

Figura 0.7 La mappa della Bicipolitana di Pesaro. Fonte: Comune di Pesaro

È stata quindi realizzata una segnaletica apposita con l’uso di diverse colorazioni per evidenziare i percorsi (“le linee”, appunto) e i collegamenti interni alla città: le coincidenze, la direzione finale, i nomi delle fermate, le distanze dai punti di interesse. Questa portentosa opera di infrastrutturazione non ha tardato a dare i suoi frutti. Con il suo 28% di spostamenti urbani effettuati in bicicletta, Pesaro è ora la città con la maggior quota di persone che scelgono la bici come mezzo di trasporto principale, superando capoluoghi di radicata tradizione ciclistica come le già citate Ferrara (27%) e Reggio Emilia (23%), e acquisendo il titolo di “Città della Bicicletta”.

Figura 0.8 Segnaletica della Bicipolitana. Foto: Elena Colli

Tirando le somme, si nota che anche nel caso italiano gli elementi in gioco per l’attivazione di una svolta urbana su due ruote sono sempre gli stessi: volontà politica, contesti di emergenza, spinte dal basso.

Sul primo punto, al momento, pare che si possa contare solo sulla lungimiranza di alcune amministrazioni locali, anche se qualche passo importante a livello nazionale è stato fatto con l’approvazione a fine 2022 del Piano Generale della Mobilità Ciclistica urbana e extraurbana.

Sul secondo, oltre agli strascichi di una pandemia che nel campo della mobilità ha decisamente lasciato il segno, le crisi globali che riguardano clima, economia e conflitti mondiali non mancano di scombinare il nostro equilibrio urbano.

C’è infine quell’ultimo punto, ugualmente fondamentale, su cui si poggia la legittimazione delle iniziative che arrivano dall’alto e che spesso per prime portano il seme del cambiamento ai tavoli dei processi decisionali. I gruppi di attivismo per città più vivibili, i movimenti per la sicurezza delle persone in bicicletta, le iniziative di protesta per portare l’attenzione su questi temi, sono sempre più diffusi e frequenti (un esempio è “ProteggiMi”, il flashmob milanese in cui centinaia di persone hanno composto una “ciclabile umana” per proteggere una corsia ciclabile, e che è arrivato oggi alla sua terza edizione). Gruppi composti da chi non si rassegna all’inevitabilità delle morti in strada, e che non smette di credere che dalla dipendenza dell’automobile si possa guarire. A partire dai luoghi.

Immagine in anteprima via sportplushealth.com

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