La violenta punizione collettiva contro i palestinesi in Cisgiordania
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Oltre cento palestinesi uccisi in Cisgiordania da quando, il 7 ottobre, Hamas ha compiuto il massacro di 1.400 israeliani, appena oltre il confine di Gaza, e Israele ha dato inizio a un bombardamento a tappeto sulla Striscia. I palestinesi uccisi in Cisgiordania negli ultimi venti giorni si sommano – dati dell’Ufficio per gli Affari umanitari dell’ONU per il Territorio Palestinese Occupato (OchaOpt) – ai 189 registrati nel 2023, fino al 19 settembre, solo in West Bank. Nella tragica conta dei morti ammazzati, le vittime palestinesi in Cisgiordania, in quest’anno che è ancora lungi dal concludersi, sono già quasi trecento.
Numeri. Numeri che, se lasciati in una fredda statistica e non, invece, com’è doveroso, considerati corpi e menti e anime, non rendono conto di quello che è diventata la Cisgiordania, nel 2023 e almeno nei tre anni precedenti. Questo è un altro dei buchi informativi della questione israelo-palestinese. Dimenticata, o meglio marginalizzata, perché tanto c’erano crisi aperte considerate più rilevanti di una questione troppo vecchia, troppo incancrenita, e che soprattutto si era pensato di risolvere e normalizzare in due modi.
Il primo: con una soluzione – quella scritta nera su bianco negli Accordi di Abramo elaborati dall’amministrazione Trump e mai smentiti dalla successiva amministrazione Biden – che scavalcasse i palestinesi, togliesse dal panorama della normalizzazione Gaza e Gerusalemme est, ed escludesse i palestinesi dal tavolo negoziale, dove invece erano stati invitati i supposti sponsor, alcuni paesi arabi, e neanche i più vicini a Israele/Palestina.
Il secondo strumento usato, che in questi giorni mostra tutta la sua fallacia e la sua insipienza, è stato il buco informativo, questo vuoto durato anni nella cronaca israelo-palestinese che ha gettato il mondo, o per meglio dire, decisori e opinioni pubbliche occidentali, direttamente dentro questa cesura, l’ottobre 2023. Senza capirne i processi, i ‘dettagli minori’, i fatti che hanno preceduto il 7 ottobre. Usando le parole di Antonio Guterres, tutto questo “non è successo in un vacuum”, in un nulla da cui, in un giorno terribile, emergono i miliziani di Hamas e Jihad islamico e tolgono la vita a 1.400 israeliani, in massima parte civili, e in buona parte pacifisti e progressisti, compiendo il più sanguinoso massacro nella storia di Israele.
Lo stesso errore compiuto su Gaza lo si sta compiendo sulla Cisgiordania, in una retorica che ondeggia tra il sostegno a ciò che rimane dell’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas (ormai disconnessa da anni dalla società palestinese e depotenziata) e la descrizione dei palestinesi tra il confine israeliano e la valle del Giordano come armati fino ai denti e fanatici. Nel mezzo, c’è la popolazione palestinese della Cisgiordania, quella che vive in un territorio sotto occupazione militare, in cui gli accordi del settembre 1993 (il processo di Oslo) e le risoluzioni del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sono stati tutti disattesi. In massima parte degli israeliani.
I 750mila israeliani che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupata, nelle colonie, hanno ricevuto luce verde per la costruzione degli insediamenti, finanziamenti, sostegni fiscali e case da tutti i governi, da quelli a guida laburista ai sei governi presieduti da Netanyahu, ai governi centristi. Le centinaia di checkpoint, permanenti o volanti, divieti di ingresso, ostacoli alla viabilità, ingressi attraverso il Muro di Separazione (qui la mappa dello OCHAOPT relativa alla Cisgiordania, aggiornata allo scorso maggio) rendono impraticabile la vita quotidiana di due milioni e mezzo di palestinesi. Descrivono, dunque, quella rete di strade separate, di occupazione del suolo attraverso le colonie, descritta non solo nel rapporto di Amnesty International sull'apartheid costruito da Israele, ma dalle più importanti organizzazioni per la difesa dei diritti umani e civili.
Sono cose, fatti sul terreno, dati che tutti coloro – giornalisti e ‘internazionali’ - che hanno frequentato la Cisgiordania conoscono molto bene, passando proprio da quegli ostacoli e quei checkpoint, ma con un passaporto privilegiato. E che però, all’opinione pubblica italiana ed europea e occidentale, sono arrivati raramente, e con poca dovizia di particolari. Dettagli minori, appunto.
Qualcosa, però, è ulteriormente cambiato, negli anni più recenti. È stato anzitutto imposto il paradigma del sionismo religioso, dei coloni più radicali, a una politica israeliana che – comunque – considerava la Cisgiordania come normalizzata. Una situazione temporanea, sempre in attesa di Godot, e cioè della realizzazione del fantomatico processo di Oslo, equivalente a uno status quo permanente. Una entità palestinese solo in una piccolissima parte della Cisgiordania, governata da un’autorità che si occupa degli affari ordinari e del coordinamento di sicurezza con gli israeliani. Una terra sotto controllo militare israeliano. E Gerusalemme est e Gaza completamente disconnessi dall’ANP.
Perché i coloni hanno cambiato il paradigma? Perché hanno imposto la rottura dello status quo permanente, dicendo a chiare lettere, e nei fatti, che la questione palestinese andava risolta, ma non secondo il processo di Oslo. Come? Con un’annessione de facto, e con l’idea – esplicitata per esempio nel programma di Bezalel Smotrich – di un trasferimento dei palestinesi. Una nuova cacciata.
Gli attacchi, anche e soprattutto armati, dei coloni in Cisgiordania sono aumentati a dismisura. I video e le testimonianze raccolti dalle organizzazioni israeliane come Btselem e Breaking the Silence confermano che gli attacchi dei coloni sono condotti accanto a soldati dell’esercito israeliano. Negli ultimi mesi i palestinesi di molti piccoli villaggi della Cisgiordania hanno abbandonato le loro case in quella che è, a tutti gli effetti, una nakba strisciante, una cacciata dei palestinesi.
Vi è poi, non solo in queste settimane, ma almeno negli ultimi tre anni, una presenza aumentata dell’esercito israeliano in Cisgiordania che compie sempre di più operazioni all’interno delle città. Le autorità militari parlano di operazioni contro le fazioni armate, come quelle che – al di fuori delle sigle tradizionali – si sono costituite in particolare a Nablus e Jenin. Le incursioni dell’esercito colpiscono i civili e vengono denunciate come punizioni collettive dalle organizzazioni di difesa dei diritti civili e umanitarie. In una di queste operazioni, a Jenin nel maggio 2022, è stata uccisa Shireen Abu Akleh, giornalista di Al Jazeera. Il volto più noto dell’intero mondo televisivo arabo.
Raid dell’esercito e attacchi armati dei coloni si sono intensificati, negli ultimi venti giorni. È in particolare Jenin a essere il centro delle operazioni militari israeliane, che hanno visto per la prima volta dalla seconda intifada l’uso dei caccia, e anche di droni. Il numero di arresti è impressionante, con un record di oltre mille palestinesi che sono andati a ingrossare il numero dei prigionieri nelle carceri israeliane. Fino al 7 ottobre erano 5mila, ora le fonti palestinesi – l’ANP ha anche un ministero dei prigionieri, a testimonianza di quanto questo dossier sia uno dei fondamentali, per la popolazione – parlano di un numero raddoppiato in venti giorni, perché comprende anche circa quattromila lavoratori di Gaza che, con regolare permesso israeliano, si trovavano in Israele. Tra le famiglie dei prigionieri serpeggia la paura per il trattamento dei detenuti che hanno già parlato di restrizioni sempre più forti. La morte in custodia di due prigionieri nel giro delle ultime 48 ore aumenta le paure.
Immagine in anteprima: Frame video Euronews