La Russia è davvero più isolata dopo la stretta di mano tra Biden e Xi al G20?
9 min letturaCi sono stati due protagonisti che più di tutti hanno conquistato la scena al G20 di Bali, in Indonesia: il primo richiesto da qualsiasi leader presente al meeting, l’altro, assente, al centro delle discussioni e del comunicato congiunto a cui gli sherpa sono arrivati alla fine dell’incontro. Ovviamente parliamo del presidente cinese Xi Jinping e di quello russo, Vladimir Putin, che senza dare spiegazioni ufficiali per motivare la sua assenza, in rappresentanza del Cremlino ha inviato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov. In generale, il G20 è stato accolto dalla politica e dalla stampa occidentale come un grande successo. Il Financial Times, sulla base di alcune dichiarazioni raccolte tra i funzionari occidentali presenti a Bali, ha parlato di “lavoro straordinario” (remarkable job) che ha fatto cedere Russia e Cina di fronte alla compattezza del G20. Il comunicato congiunto, in cui si condanna la minaccia dell’utilizzo delle armi nucleari ed è scritto che “questa non può essere l’era della guerra”, non era infatti così scontato.
L’immagine che resterà di questo G20 sarà senz’altro quella della stretta di mano tra Biden e Xi Jinping. I due non si erano mai incontrati di persona da quando Biden è stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 2020 e, nel momento in cui i rapporti tra i due paesi sono ridotti al minimo con la Cina che ha interrotto le comunicazioni con gli USA su alcuni importanti dossier a seguito della visita della speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan, è stato importante più che mai che le due potenze abbiano ripreso a dialogare. “I due leader hanno parlato candidamente delle rispettive priorità e intenzioni su una serie di questioni”, riporta il comunicato della Casa Bianca diffuso dopo l’incontro: “L’antagonismo [tra i due paesi] non deve sfociare in un conflitto, Stati Uniti e Cina devono gestire le rivalità in modo responsabile e mantenere le linee di comunicazione aperte”, prosegue.
Today, I met with President Xi Jinping of the People’s Republic of China.
We discussed our responsibility to prevent the competition between our countries from veering into conflict and finding ways to work together on shared challenges that affect the international community. pic.twitter.com/ufneHdcyCF
— President Biden (@POTUS) November 14, 2022
Simili le parole scelte da Pechino:
“Le due parti devono rispettarsi a vicenda, coesistere in pace, perseguire una cooperazione vantaggiosa per tutti e lavorare insieme per garantire che le relazioni tra Cina e Stati Uniti avanzino verso la giusta rotta senza perdere le coordinate, tanto meno scontrandosi”.
Anche se, al contrario del comunicato della Casa Bianca dove viene riportato che entrambi i presidenti sottolineano la loro opposizione all’uso o alla minaccia dell’utilizzo di armi nucleari in Ucraina, in quello cinese non vi è alcun riferimento al rischio nucleare. Un altro aspetto rilevante da notare nel comunicato cinese è la divisione tra “democrazia versus autoritarismo”, definita un tipo di “narrazione che non rappresenta il mondo di oggi né è in linea con le tendenze del nostro tempo”. Ad ogni modo entrambi i presidenti considerano l’incontro "approfondito, sincero e costruttivo”.
Anche il presidente francese Emmanuel Macron è stato particolarmente entusiasta del proprio incontro con Xi Jinping. Macron ha lanciato un appello condiviso per il rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina: “Le conseguenze di questo conflitto vanno oltre i confini europei: è attraverso uno stretto coordinamento tra Francia e Cina che le supereremo”, ha scritto su Twitter.
La posizione di Pechino rispetto all’alleanza con Mosca e la guerra in Ucraina è dunque cambiata? Sappiamo che alla vigilia dell’invasione della Russia in Ucraina del 24 febbraio, in occasione dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali a Pechino, Xi e Putin avevano firmato un comunicato congiunto che sanciva la loro “amicizia senza limiti”. Da quel momento in poi ci sono stati diversi elementi che hanno però evidenziato quanto invece il rapporto tra Pechino e Mosca avesse qualche limite. La Cina si è sempre mossa in equilibrio per non schierarsi da una parte contro Mosca - pensiamo ad esempio alle votazioni alle assemblee generali in sede ONU - dall’altra non l’ha mai sostenuta militarmente per evitare ritorsioni economiche e sanzioni. Con questo G20, l’asticella si è spostata più lontana da Mosca e più vicina al blocco occidentale, o così sembrerebbe.
Il giornalista Lorenzo Lamperti, di base a Taipei, ricorda come in realtà la Cina abbia espresso il sostegno all’integrità territoriale ucraina infinite volte e sin dagli inizi, solitamente accompagnato da una formula a tutela delle “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutte le parti”, ovvero di Mosca. L’incontro tra Xi e Biden è sicuramente un passo importante, ma è da leggere più come controllo della situazione che disgelo. Per la Cina i principali responsabili del conflitto sono sempre Stati Uniti e NATO che alimentano la “mentalità da guerra fredda”. Insomma, Pechino non ha scaricato Mosca a Bali e il rischio che si deve cercare di evitare è quello di proiettare i propri desideri e pregiudizi, positivi o negativi, sulla diplomazia cinese.
C'è chi si stupisce del fatto che la Cina si sia espressa a favore della tutela dell'integrità territoriale dell'Ucraina e interpreta la dichiarazione finale come segnale che Pechino abbia scaricato Putin. La realtà è un po' diversa. [breve thread]
— Lorenzo Lamperti (@LorenzoLamperti) November 16, 2022
Le divisioni ancora presenti tra Cina e USA e il ruolo di mediazione dell'Indonesia
Tra gli argomenti affrontati nel bilaterale tra Stati Uniti e Cina non poteva mancare quello più spinoso di tutti, ovvero la sovranità territoriale sull’isola di Taiwan. Il presidente Biden ha ribadito come il principio di un’unica Cina (“One China policy”) non sia cambiato, mentre Pechino ha sottolineato l’assoluta centralità della questione di Taiwan nei suoi affari interni: Taiwan è la “linea rossa” che gli Stati Uniti non devono valicare.
La grave crisi che ha seguito la visita della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi a Taiwan lo scorso 2 agosto e la riconferma al terzo mandato da presidente di Xi Jinping, avevano fatto temere a Washington un cambio di passo rispetto ai piani di annessione da parte di Pechino di Taiwan. Preoccupazioni esternate anche dall Segretario di Stato Antony Blinken il mese scorso. Ma tra i passaggi più importanti della conferenza stampa a Bali, Biden ha per il momento escluso questo rischio: “Non penso che ci sia un tentativo imminente da parte della Cina di invadere Taiwan”. Concetto ribadito dal Capo di Stato maggiore dell’Esercito statunitense Mark Milley in un briefing del Pentagono due giorni dopo le dichiarazioni del presidente USA: lanciarsi in un’invasione sarebbe “un’operazione militare molto difficile da eseguire, e penso che ci vorrà del tempo prima che i cinesi abbiano le capacità militari per farlo”. Segnali positivi di riapertura del dialogo si intravedono poi nell’incontro in Cambogia questa settimana tra il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe e il Segretario della Difesa statunitense Lloyd Austin. È stato il primo faccia faccia tra i due dalla “provocatoria” visita di Nancy Pelosi a Taiwan, scrive il Global Times.
Di certo se la questione Taiwan deflagrasse diventerebbe un affare internazionale, ma è evidente che i paesi che si affacciano sull’Indo-Pacifico, per via della loro posizione di prossimità, siano maggiormente sensibili a qualsiasi sviluppo dei rapporti tra Cina, Taiwan e Stati Uniti per tutte le disastrose ripercussioni che ci sarebbero nell’intera area. E sorrisi e strette di mano non sono sufficienti per sedare certi timori. Un editoriale del 16 novembre del Jakarta Post, principale giornale indonesiano in lingua inglese, accoglie con favore il ritorno al dialogo tra Xi e Biden e lo smorzarsi di alcune tensioni, segnalando tuttavia che, sul tema più rilevante, Taiwan, Stati Uniti e Cina sono arroccati sulle loro posizioni. Il fatto che la crisi di questa estate sia rientrata, insomma, non garantisce che in futuro venga scelta la via della moderazione. E l’Indonesia, in quanto paese non allineato, sottolinea l'editoriale, dovrebbe svolgere un ruolo di mediatore tra le due parti.
Probabilmente non avrà la forza negoziale di un paese come l’India, ma l’Indonesia da paese ospite del G20 ha dimostrato astute capacità diplomatiche incentrando l’agenda del summit su un terreno condiviso: l’impatto economico della guerra in Ucraina. “Gli indonesiani sono stati intelligenti. Hanno iniziato da una questione su cui chiunque è d’accordo, la sicurezza alimentare, e da lì hanno costruito il resto”, ha raccontato un funzionario occidentale al Financial Times. Il merito va anche a Joko Widodo, meglio conosciuto come “Jokowi”, settimo presidente dell’Indonesia, figura unica nella storia del paese – come scrive il giornalista Sebastian Strangio nel suo libro “All’ombra del dragone” (Add Editore) – perché è stato il primo presidente a non provenire né dalle file dell’esercito né dall’establishment politico. Cresciuto in uno slum, prima di essere eletto nel 2005 sindaco di Surakarta, una città della provincia di Giava Centrale, gestiva un’impresa di esportazione di mobili. La sua posizione rispetto alla Cina è sempre stata ambigua. Se da una parte ha stretto con Xi Jinping rapporti cordiali incontrandolo cinque volte nei primi due anni di mandato e sottoscrivendo diversi contratti per opere infrastrutturali [scrive sempre Strangio che Widodo considerava Xi simile a sé, ovvero un leader “attento ai risultati”, ndr], dall’altra ha condotto una guerra alla pesca illegale, perché sequestrare qualche imbarcazione serviva a stemperare le critiche dell’opposizione politica che lo accusava di essere troppo acquiescente nei confronti della Cina. In un’epoca di crescente competizione tra Cina e USA, l’atteggiamento indonesiano è stato di “equidistanza pragmatica”, come l'ha definito il ricercatore del CSIS di Jakarta, Evan A. Laksmana: una strategia di protezione che mira a mantenere una posizione di equilibrio rispetto agli interlocutori.
La Cina può avere un ruolo di mediatore nella guerra in Ucraina?
In chiusura del G20, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato che nel 2023 si recherà in visita a Pechino e che la sua controparte, il presidente Xi Jinping, può giocare un ruolo di mediatore capace di prevenire una ripresa in larga scala dell’offensiva russa in Ucraina dopo l’inverno. Ci sono tre principali motivi per cui è difficile che questo possa accadere, scrive il vicepresidente del think tank Carnegie Endowment, Evan Feigenbaum: in primo luogo perché è complicato mediare quando di fatto non si è un attore neutrale, secondo perché se “mediare” vuol dire “fare pressione sulla Russia per ottenere concessioni” possiamo anche scordarci che Pechino faccia questo tipo di pressioni. Infine, la storia della Cina in questo senso non è molto ricca di precedenti.
(1) It’s hard to mediate when you are not, in fact, a neutral party; (2) if “mediate” is code for “pressure Russia to make concessions,” forget it — Beijing won’t do it; (3) Beijing’s history on this is thin, eg, its role on Cambodia was via a UN process; not many good analogies. https://t.co/qxizidx0Lf
— Evan Feigenbaum (@EvanFeigenbaum) November 16, 2022
Secondo un’analisi del think tank tedesco Istituto Merics (Mercator Institute for China Studies), le attività di mediazione da parte della Cina sono aumentate negli ultimi anni. Un particolare incremento si nota in concomitanza con l’avvio della Nuova via della Seta, nel 2013. Prima di allora, Pechino era restia a impegnarsi nella risoluzione di conflitti all’estero. Nel lessico della politica estera cinese, la formula che riassume l’atteggiamento nei confronti dei conflitti regionali è “persuasione e promozione del dialogo”. In questo senso si è visto un coinvolgimento della Cina nel processo di riconciliazione etnica in Myanmar, in Afghanistan sotto il precedente governo Ghani, nel conflitto in Siria come anche nel Sud Sudan. Sebbene la Cina voglia rivendicare il ruolo di mediatore, il suo ruolo effettivo - sottolinea Yun Sun dello Stimson Center in un'analisi dello scorso aprile - si è limitato alla facilitazione del dialogo. Essere un mediatore vuol dire essere un broker. Ovvero, include la formulazione di proposte sostanziali che le parti in conflitto potrebbero accettare o negoziare. Come include anche la capacità di fare da garante designato o de facto dell’accordo, nel caso sopraggiungano ostacoli. Il processo di mediazione lega sostanzialmente il mediatore al processo di riconciliazione e all’eventuale accordo di pace. Nei precedenti citati di Myanmar e Afghanistan, ad esempio, la Cina si è astenuta dal fare proposte e, soprattutto, non ha fatto alcun tipo di pressione quando la trattativa è giunta a una situazione di stallo. La ragione è semplice, continua Yun Sun: la Cina vuole il merito associato alla fine del conflitto, ma non la responsabilità o la colpa se l’accordo non viene raggiunto. Avanzare proposte vorrebbe dire violare il principio di non ingerenza e un potenziale fallimento esporrebbe Pechino a critiche e scetticismo rispetto alla sua credibilità di leadership. Guardando al caso della guerra in Ucraina, è improbabile che la Cina faccia un passo in avanti se prima non si sarà assicurata della disponibilità a sedersi al tavolo delle trattative da parte della Russia e di una ragionevole possibilità di successo.
Immagine in anteprima: President of United States via Twitter