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Le proteste dei lavoratori Foxconn in Cina non nascono oggi e mostrano cosa potrebbe accadere se salta il patto sociale su cui si regge la società

19 Dicembre 2022 10 min lettura

Le proteste dei lavoratori Foxconn in Cina non nascono oggi e mostrano cosa potrebbe accadere se salta il patto sociale su cui si regge la società

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Nel fine settimana del 26 e del 27 novembre si sono registrate proteste diffuse in varie città della Repubblica popolare cinese. A scatenare le manifestazioni è stata in particolar modo la notizia di un incendio propagatosi un paio di giorni prima in un condominio di Urumqi, capitale della regione autonoma del Xinjiang. La morte di dieci residenti è stata immediatamente collegata alle restrizioni di quarantena che avrebbero impedito alle vittime di fuggire. Dalla volontà di partecipare a veglie organizzate per commemorare le vittime, le migliaia di persone che si sono riversate nelle strade di Shanghai, Pechino, Chongqing e altre città hanno poi diretto la loro rabbia contro la strategia antipandemica nazionale (conosciuta come “Zero Covid” o “Azzeramento dinamico”) e l’inefficienza delle amministrazioni locali. Ma non solo. 

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La particolare rilevanza è data dal fatto che sono state mosse richieste più generali per la libertà di espressione e di associazione. E, soprattutto, perché alcuni slogan sono stati diretti contro Xi Jinping. Nelle ore successive la situazione è tornata sotto controllo per una commistione tra dispiegamento di polizia nelle strade e alleggerimento dei provvedimenti anti-Covid. Sebbene non si possa parlare di una vera e propria riapertura, nelle scorse settimane il Consiglio di Stato cinese ha varato nuove misure per ridurre nel concreto la pressione sui cittadini, tra la possibilità di trascorrere la quarantena nel proprio domicilio invece che nelle strutture apposite e l’alleviamento delle misure per le aree a basso e medio rischio.

Un rilassamento a cui pare abbia contribuito la presa di posizione di una certa classe imprenditoriale. O meglio, di un tycoon dell’elettronica di consumo: taiwanese, classe 1950, Terry Gou è il fondatore della Foxconn, società che assembla soprattutto prodotti Apple. Il Wall Street Journal ha riportato che il magnate originario di Nuova Taipei avrebbe inviato una lettera al Governo centrale di Pechino per convincerlo ad abbracciare un approccio più indulgente per il contenimento dei focolai di contagi che continuano a verificarsi nel paese. Gou sarebbe stato spinto dai gravi rallentamenti alla produzione sofferti dalla Foxconn per colpa della Zero Covid, e, quindi, da un consequenziale ritardo delle consegne per la Apple.

La strategia “a circuito chiuso”, raccontata negli ultimi mesi dai media nazionali come un modo infallibile per garantire sicurezza sul luogo di lavoro e rispettare gli standard produttivi, sembra non funzionare più. E proprio di recente migliaia di operai della Foxconn se ne sono lamentati, indice di come le nuove manifestazioni di dissenso su larga scala non abbiano riguardato solo giovani istruiti di classe media. A inizio ottobre, la fabbrica di Foxconn di Zhengzhou (che ad oggi si piazza al primo posto al mondo per numero di iPhone assemblati) ha risposto all’aumento dei contagi in città abbracciando la strategia e, come da prassi, chiudendo i cancelli e confinando tutta la forza lavoro all’interno dello stabilimento-bolla. Nelle ore successive, per evitare il lockdown, molti lavoratori sono stati visti fuggire di nascosto, per campi e con valigie al seguito. 

In seguito sono emersi nuovi problemi. I nuovi operai assunti in via temporanea per scongiurare il blocco della produzione hanno lamentato la crescente mole di lavoro e il peggioramento delle condizioni igieniche. Il malcontento è cresciuto fino a esplodere il 23 novembre scorso, quando centinaia di dipendenti si sono scontrati con il personale di sicurezza. “L’evoluzione della situazione”, si legge in un’analisi della ONG di Hong Kong, China Labour Bullettin, “rivela che [..] i lavoratori hanno come obiettivo principale condizioni di lavoro sicure e dignitose”. Ciò indica che le proteste non sono state indirizzare tanto alla politica Zero Covid in sé, quanto al fatto che sono venute a mancare le garanzie di sicurezza promesse dalla strategia nazionale.

I casi sopra citati mostrano anche come, nel paese, gli “incidenti collettivi” (dicitura che si utilizza in riferimento alle proteste collettive di ogni genere) non siano affatto rari, e non riguardano solo una precisa classe sociale. Sembrerebbe assurdo pensare il contrario, anche ragionando in meri termini di vastità (e varietà) territoriale e popolosità. 

Proteste operaie si riscontrano già durante i primi anni delle riforme con cui la Cina post-Mao Zedong si apre al mercato internazionale, avviate da Deng Xiaoping negli anni Ottanta. Privati del sistema occupazionale del periodo maoista (la cosiddetta “ciotola di riso di ferro”), in quegli anni i lavoratori cinesi si scontrano con le conseguenze del processo di privatizzazione dell’assetto statale, e comprendono in fretta concetti nuovi, come la competizione lavorativa e la stipulazione dei contratti. Generalmente concentrati nel Delta del Fiume delle Perle, zona ad alta concentrazione di imprese straniere nella provincia meridionale del Guangdong, i nuovi operai della Repubblica popolare si rendono protagonisti di azioni collettive per chiedere riduzioni dell’orario di lavoro e aumenti salariali. Da quanto emerso dall’accurato lavoro di tracciamento di China Labour Bulletin, nel 1993 si registrano oltre 10 mila casi di protesta che coinvolgono in totale circa 700 mila lavoratori. Nel 2003 il numero degli incidenti collettivi raggiunge i 60 mila, con oltre 3 milioni di persone coinvolte. 

Lo sciopero del 2004 nello stabilimento della città di Dongguan della Stella Company, azienda taiwanese produttrice di scarpe per la Nike, è considerato una pietra miliare delle rivendicazioni operaie. Partecipano oltre 4 mila lavoratori. Qualche anno più tardi le proteste a Foshan che interessano lo stabilimento della Honda hanno come risultato l’aumento del salario e le elezioni democratiche per i sindacati aziendali, oltre a riuscire a influenzare azioni collettive in altre fabbriche del settore automobilistico.

I protagonisti di questi “incidenti” sono soprattutto i nonmingong, i cosiddetti “contadini-lavoratori”, abitanti delle aree rurali che nel periodo delle riforme iniziano con flussi più o meno costanti a migrare in città in cerca di lavoro. Costretti a fornire manodopera a basso costo, i lavoratori migranti diventano presto fondamentali per il modello economico basato sulle esportazioni con cui la Cina riesce a crescere a ritmi record. A fine anni Novanta se ne contano già 100 milioni, e nei primi anni Duemila compongono il 60% della forza lavoro nei settori secondario e terziario: “Una figura non più completamente contadina, perché ormai ubicata nelle metropoli industriali, ma non ancora pienamente operaia nel senso novecentesco del termine, in quanto possedendo ancora formalmente una residenza rurale non ha accesso ai servizi pubblici e sociali della città”, ha scritto Federico Picerni in un saggio sulla produzione poetica degli operai cinesi uscito per la rivista Sinosfere.

La questione dell’hukou è determinante per comprendere le condizioni dei lavoratori migranti: traducibile come “sistema di registrazione familiare”, l’hukou viene imposto negli anni Cinquanta per limitare la migrazione dalle campagne alla città e ancora ad oggi lega l’erogazione del welfare al luogo di origine fino al compimento di determinati requisiti (come aver trascorso nella città di arrivo un certo numero di anni). Pur riempiendo le file degli operai nei siti produttivi urbani di un paese per anni considerato la “fabbrica del mondo”, i lavoratori migranti non hanno potuto beneficiare degli stessi servizi dei residenti delle città.

Una vera e propria discriminazione istituzionale che da tempo si cerca di lenire con politiche su scala nazionale: un esempio è il piano di urbanizzazione varato dal governo nel 2014, che nel giro di qualche anno ha garantito l’hukou urbano a 100 milioni di residenti rurali. E a cui sono seguite misure locali, in ultimo una bozza pubblicata dalle autorità di Zhengzhou, capitale dello Henan, che se approvata consentirebbe a qualsiasi cittadino con un lavoro e una alloggio stabile di trasferire la propria residenza. 

Ma nelle città di prima fascia il controllo viene ancora largamente esercitato. Le città cinesi sono luoghi sempre più “smart” e sempre più inaccessibili. Due dei protagonisti di “Il settimo giorno”, romanzo del celebre autore contemporaneo Yu Hua, sono costretti dalla loro condizione di estrema povertà a vivere nei sotterranei di un palazzo. Shu zu, la “tribù dei topi”, è una espressione nata appositamente per indicare le migliaia di persone impossibilitate a permettersi alloggi dignitosi “in superficie”. 

Ma il luogo che meglio fa da sfondo alle storie di precarietà e di migrazione, in Cina, è la fabbrica. Spazio di alienazione per eccellenza, lo si è imparato a conoscere fuori dai confini cinesi per notizie di cronaca come la serie di suicidi che tra marzo e maggio del 2010 aveva interessato gli operai dello stabilimento della Foxconn di Longhua, a Shenzhen, per anni il sito più produttivo della società. Una enorme fabbrica-città-dormitorio capace di contenere fino a 450 mila lavoratori. Con la strategia di contenimento del Covid applicata su scala nazionale, le fabbriche sono diventate luoghi ancora più alienanti e discriminanti: una bolla inaccessibile in cui gli operai vengono privati di ogni contatto con l’esterno e vengono costretti a una routine giornaliera votata al profitto in cui è vietato qualsiasi contatto con l’esterno. Durante i due terribili mesi di lockdown che ha coinvolto Shanghai dallo scorso maggio, Bloomberg ha riportato le condizioni nella Gigafactory 3, lo stabilimento di punta della Tesla locato nel distretto di Lingang della metropoli: per recuperare gli ovvi ritardi di produzione causati dalla quarantena (tradotti in 40 mila auto “perse”, agli operai è stato imposto il confinamento in fabbrica e un regime lavorativo di 12 ore). 

Ma la pandemia ha anche accelerato una tendenza che molti chiamano “migrazione inversa”, che sembrerebbe indicare una volontà sempre più diffusa da parte di milioni di cinesi (compresi i migranti che svolgono lavori a basso reddito) di ritornare nelle aree rurali di origine e di abbandonare i grandi centri urbani e il costo della vita proibitivo. Vivere nelle città risulta ancora più complesso alla luce del peggioramento delle prestazioni economiche su scala nazionale: nella seconda metà del 2022 il PIL cinese non ha superato il 3,9%, a fronte del 6% nel 2019.

Il sistema economico cinese, tuttavia, necessita ancora dello sfruttamento del lavoro migrante. Per esempio perché i migranti costituiscono la maggioranza delle persone coinvolte nelle cosiddette “nuovi occupazioni”, ovvero quel calderone di lavoretti temporanei e a chiamata da economia gig. L’economia delle piattaforme ha trovato in Cina un mercato fiorente, soprattutto visto l’enorme bacino di utenti internet, che lo scorso anno hanno superato il miliardo. Le stime nazionali parlano di oltre 200 milioni di persone coinvolte nella gig e sharing economy, un quarto del totale. Uno dei settori più fiorenti è senza dubbio quello della consegna di cibo a domicilio. Nel 2020 Li Keqiang aveva riconosciuto il ruolo “essenziale” dei fattorini in tempi di lockdown. Ma ad attirare l’attenzione pubblica sui problemi insiti nella professione era stato, in particolar modo, un lungo articolo pubblicato a fine 2020 dalla rivista Renwu, che aveva esposto le dinamiche che hanno garantito profitti da record alle due società che si contendono il mercato, Meituan e Eleme: come per altre app di food delivery, il tempo concesso ai fattorini è scandito da un algoritmo che ha il colpito di gestire la totalità del lavoro e di assegnare gli ordini. Il software dell’app consente un ampio margine di azione al cliente, sul cui gradimento si fonda l’intero servizio di piattaforma: per soddisfarlo, il fattorino deve andare sempre più veloce, fornendo al contempo un servizio sempre più cortese e variegato.

Pechino, tuttavia, è intervenuta per regolare il settore, soprattutto per rispondere al malcontento che si è tradotto nel 2021 in alcuni focolai di protesta che hanno coinvolto fattorini e lavoratori del ride-hailing (il servizio di noleggio di veicolo con conducente). A luglio 2021 otto agenzie governative hanno emesso nuove linee guida per promuovere un “uso moderato” dell’algoritmo e migliorare la copertura assicurativa di questo genere di professioni. Intenti che rientrano nelle mosse di Pechino per correggere il tiro delle gradi società del digitale, colpevoli di una espansione che per decenni si è protratta in maniera “disordinata”. 

Come ribadito anche durante il XX Congresso del Partito comunista cinese, bisogna “ridistribuire la ricchezza” e perseguire l’obiettivo ad ampio raggio di “prosperità comune”. Per giustificare questi intenti Pechino si è anche fatta in qualche modo portavoce di un malcontento che negli ultimi anni si è diffuso sul web e che ha visto soprattutto le nuove generazioni puntare il dito contro le condizioni di lavoro interne delle big tech.

Impieghi capaci un tempo di garantire status e soldi. Ma che con il rallentamento economico hanno richiesto sempre di più in termini di costo umano: ai “colletti bianchi” non è rimasto altro che lunghi turni di lavoro, rischio di burnout e possibilità minime di mobilità sociale. Sul web si sono fatti strada neologismi divenuti in poco tempo virali, come ad esempio moyu e tangping, che indicano rispettivamente la volontà di ridurre al minimo le prestazioni lavorative e di celebrare la pigrizia, il non agire, in chiave anticapitalistica.

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La disillusione giovanile di fronte a un mercato del lavoro così contratto e stagnate, per cui una migliore istruzione o competenze aggiuntive non garantiscono più l’accesso a rosee prospettive di carriera, deve fare i conti con i numeri record di quest’anno su fronte disoccupazione giovanile: diretta conseguenza della politica di contenimento del Covid, lo scorso luglio il 19,9% dei giovani di ceto medio urbano era senza lavoro. Nel mentre il numero di neolaureati ha continuato a registrare a registrare crescita costante, fino a toccare per la prima volta i 10,76 milioni.

In questo scenario le chiusure della politica zero Covid non hanno fatto altro che amplificare il malcontento. Le proteste delle scorse settimane hanno di certo significato qualcosa. Non hanno indicato una mobilitazione su larga scala della popolazione, visto e considerato che a coordinare le varie azioni sono stati probabilmente giovani istruiti di città. Ma hanno mostrato quali possono essere le conseguenze nel caso venga meno l’implicito patto sociale su cui il Partito fonda la sua legittimità: limitazioni nella partecipazione pubblica e nella libertà di espressione dei cittadini, in cambio di garanzia di crescita economica e stabilità occupazionale.

Immagine in anteprima: Frame video YouTube

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