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Cos’è la Via della Seta. Perché USA e UE temono l’accordo Italia-Cina

19 Marzo 2019 15 min lettura

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Cos’è la Via della Seta. Perché USA e UE temono l’accordo Italia-Cina

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Firmati gli accordi Italia Cina

Aggiornamento 23 marzo 2019: Dopo settimane di discussioni sono stati siglati gli accordi tra Italia e Cina: 29 intese per un valori di almeno 7 miliardi. A firmare le intese principali, per la parte italiana, è stato il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, per la Cina, il presidente della National Development and Reform Commission, He Lifeng.

Tra le intese istituzionali, i settori di protocolli e memorandum tra ministeri e altri enti pubblici sono essenzialmente tre: la tecnologia, con intese per la collaborazione su startup innovative e commercio elettronico, mentre l'Agenzia spaziale italiana lavorerà con quella cinese ad un satellite per la rilevazioni geofisiche; l'agricoltura, con il protocollo sui requisiti fitosanitari per l'esportazione di agrumi freschi dall'Italia alla Cina e gli accordi su carne suina congelata e seme bovino; la cultura, con l'accordo per la prevenzione del traffico di beni archeologici, la restituzione di 796 reperti alla Cina, e la promozione congiunta dei siti Unesco. Inoltre, è stata firmata un'intesa per eliminare le doppie imposizioni. 

Gli accordi tra le aziende sono stati firmati dai manager di Eni, Cdp, Snam e altre importanti realtà economiche italiane e cinesi. Per quanto riguarda i porti, la società cinese CCC investirà in quello di Trieste per potenziare i collegamenti per il Centro ed Est Europa, mentre si prevedono progetti concordati per l'ampliamento dei moli del porto di Genova. Tra i punti dell'accordo, Italia e Cina "esprimono il loro interesse a sviluppare sinergie tra l’iniziativa “Belt and Road”, il sistema italiano di trasporti e infrastrutture - quali, ad esempio, strade, ferrovie, ponti, aviazione civile e porti - e le Reti di Trasporto Trans-europee (TEN-T), di cui fa parte anche TAV Torino - Lione. Congelato l'accordo di ricerca tra Huawei e un Politecnico italiano in riferimento al settore delle telecomunicazioni.

In questi giorni il Presidente cinese Xi Jinping è in visita ufficiale in Italia per firmare il Memorandum di Intesa tra Italia e Cina sulla cosiddetta “Via della Seta”. La visita poi farà tappa nel Principato di Monaco e terminerà in Francia il 26 marzo. Sei giorni che potranno far luce sull’evoluzione della Belt and Road Initiative, il progetto di sviluppo commerciale voluto dal governo cinese per una più profonda integrazione della Cina nell'economia mondiale. Gli Stati membri dell'Unione europea stanno, infatti, discutendo come sviluppare un approccio comune agli investimenti cinesi in Europa tra l’esigenza di bilanciare l’influenza della Cina e il bisogno di investimenti esteri da parte dei paesi europei. Un altro incontro con i rappresentanti di Pechino è previsto per il 9 aprile.

La firma del Memorandum da parte dell’Italia ha suscitato reazioni internazionali e un dibattito su posizioni diverse all'interno della maggioranza di governo. In particolare, il vicepremier Matteo Salvini e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Giancarlo Giorgetti, hanno sottolineato come questo accordo non debba portare a «colonizzazioni da parte della Cina». «Il memorandum per l’accordo italo-cinese sulla Via della seta dovrà sicuramente contenere nobili intenti per migliorare relazioni economiche e commerciali tra Italia e Cina, ma non impegni che possano creare interferenze di ordine strategico per il consolidato posizionamento del Paese», ha dichiarato Giorgetti.

«La Via della Seta è una strada a doppio senso e lungo di essa devono transitare non solo commercio ma talenti, idee, conoscenze e progetti di futuro», ha dichiarato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al termine dell'incontro con il Presidente cinese Xi Jinping, che ha aggiunto che l'obiettivo dell'intesa tra i due paesi è «rafforzare le sinergie tra le rispettive strategie di sviluppo nei settori infrastrutturali, portuali e logistici, nonché dei trasporti marittimi» e che «guardando il mondo ci ritroviamo avanti un cambiamento epocale, la Cina e l'Italia sono due importanti forze nel mondo per salvaguardare la pace e promuovere lo sviluppo. La Cina vuole lavorare con l'Italia per rilanciare lo spirito di equità, mutuo rispetto e giustizia».

Più che per i contenuti la firma dell’intesa potrebbe avere un valore simbolico e politico. Qualora firmasse, l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a sostenere ufficialmente il piano di investimento globale cinese noto come "Belt and Road Initiative". Finora sono 68 i paesi che hanno firmato accordi bilaterali con la Cina.

L’ipotesi di una firma del memorandum da parte dell’Italia ha suscitato infatti le reazioni di Stati Uniti e Unione europea. Al Financial Times, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Garrett Marquis ha detto che l’adesione di Roma alla nuova via della seta non aiuterà l’Italia a uscire dalla recessione economica e costituirebbe un danneggiamento della sua reputazione internazionale. «Consideriamo la Belt and Road Initiative come un'iniziativa fatta dalla Cina per la Cina», ha aggiunto Marquis, invitando «tutti gli alleati e partner, compresa l'Italia, a fare pressioni sulla Cina per allineare gli sforzi di investimento globale agli standard internazionali».

Per gli USA, scrive Alberto Prina Cerai in un recente articolo su Pandora Rivista, “la principale minaccia – come ribadisce la National Security Strategy del 2017 – proviene da una rinnovata competizione interstatale, in cui la Cina rappresenta il peer competitor per eccellenza”. Secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa degli USA, “l’espansione cinese mirerebbe a «escludere gli Stati Uniti dalla regione Indo-Pacifica» tramite il monumentale progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, volta ad implementare l’obiettivo strategico del Partito Comunista: fare della Cina «la potenza preminente» del continente eurasiatico”.

Anche l’Unione europea si è detta preoccupata per l’eventuale firma del memorandum da parte dell’Italia in quanto potrebbe rappresentare un avvicinamento alla Cina, e ha chiesto a tutti gli Stati membri di essere coerenti con le leggi e le politiche dell’Ue e di rispettarne l’unità nell’implementarle. 

Tuttavia non sono ancora chiari i contenuti del testo che Italia e Cina si apprestano a firmare. Per quanto nei giorni scorsi alcune testate abbiano pubblicato una bozza del Memorandum, il testo dell’intesa resta ancora misterioso, scriveva nei giorni scorsi Simone Pieranni sul Manifesto. “Le bozze circolate non hanno chiarito la reale entità di quali accordi si andranno a firmare. La sensazione è che si firmerà un accordo quadro, «cornice» come ha specificato la settimana scorsa il sottosegretario allo sviluppo Michele Geraci, ricco di grandi intenzioni ma dalla valenza per lo più politica”.

In particolare gli Stati Uniti temono le ripercussioni dell’intesa rispetto all’ambito delle telecomunicazioni, consentendo l’ascesa Huawei, “colosso cinese molto avanti per tutto quanto riguarda il 5G, con tanto di progetti pilota già avviati in Italia”, spiega ancora Pieranni. “L’Italia ha basi Nato e Usa a Napoli, Aviano, Sigonella, se la Cina dovesse avere il controllo sulla rete in Italia le comunicazioni riservate ai Paesi Nato potrebbero essere compromesse”, spiega a Formiche l’esperto di tecnologia militare Mauro Gilli, in merito alle preoccupazioni degli Stati Uniti.

«Non metteremo a repentaglio nessun asset strategico», ha dichiarato Conte dopo un vertice di maggioranza. «Si sta facendo molta confusione. Una cosa è la tutela degli asset strategici, una cosa è la sottoscrizione di un accordo programmatico non vincolante», ha aggiunto il presidente del Consiglio, sottolineando anche che l’Italia «è l’unico paese che ha preteso e imposto, rispetto alla versione originaria del memorandum elaborato dalla parte cinese, principi e regole europee. Allo stesso tempo ci cauteliamo e adotteremo misure, per esempio rafforzeremo la golden power [ndr, "la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazione"] per rafforzare gli interessi nazionali».

Che cos’è la Belt and Road Initiative

Quella che in questi giorni viene chiamata “via della seta cinese” è in realtà la Belt and Road Initiative (BRI), un progetto – noto anche con il nome di One Belt One Road (OBOR) – di cui aveva parlato nel 2013 in un discorso agli studenti della Nazarbayev University di Astana, in Kazakistan il segretario e presidente del Partito Comunista cinese, Xi Jinping. Il leader cinese aveva parlato di un “progetto del secolo”, “una cintura economica lungo la via della seta”.

BRI è un'infrastruttura internazionale e un progetto di sviluppo commerciale guidato dal governo cinese per perseguire una maggiore cooperazione e una più profonda integrazione della Cina nell'economia mondiale. La “Cintura” (Belt) comprende percorsi di trasporto terrestre che collegano Cina, Europa, Russia e Medio Oriente. La “Strada” (Road) si riferisce alle rotte marittime che dall’Asia arrivano all’Europa settentrionale attraverso Sri Lanka, Pakistan, Medio Oriente, Africa orientale, passando infine per il mar Mediterraneo. In questo contesto, scrivono Shivani Pandya e Simone Tagliapietra su Bruegel, nell'ultimo decennio, società cinesi private e di proprietà statale hanno acquisito partecipazioni in otto porti marittimi in Belgio, Francia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Spagna.

via Bruegel

Il progetto prevede infatti la realizzazione di ferrovie, autostrade, porti e oleodotti con la finalità di garantire per la Cina (e, conseguentemente, per tutti i paesi coinvolti lungo il tragitto) un migliore accesso alle sue esportazioni e importazioni. Per l’Italia, scrivono Stefano Riela e Alessandro Gili di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), i tracciati dei collegamenti via terra e via mare potrebbero avere il loro centro nevralgico proprio nella città di Venezia.

via The Economist

Si tratta di un progetto significativo per la sua dimensione economica e geografica con investimenti per mille miliardi di dollari in oltre 70 paesi che, secondo i dati contenuti nello studio del Parlamento europeo “The new Silk Route – opportunities and challenges for EU transport”, pubblicato nel gennaio 2018, rappresentano oltre il 30% del PIL mondiale, il 62% della popolazione e il 75% delle riserve energetiche conosciute.

Dalla “strategia del filo di perle” alla “nuova via della seta”

Anche se il premier cinese Xi Jinping ha parlato per la prima volta della Belt and Road Initiative nel 2013, la strategia di espansione della Cina (in cinese 走出去战略, Zǒu chūqù zhànlüè, andare fuori) è iniziata alcuni anni prima attraverso la realizzazione di infrastrutture lungo tutto il sud-est asiatico, spiegava Isabel Pepe su Pandora Rivista.

Questa rete di opere era stata definita da alcuni studiosi americani la “Strategia del Filo di Perle” (termine mai utilizzato dalla Cina) per indicare la particolare posizione geografica dei paesi verso i quali il governo cinese aveva fatto investimenti diretti. Secondo questo gruppo di studiosi, la Cina aveva in mente di realizzare rotte su strada e su mare alternative a quelle esistenti in modo tale da potersi permettere un’autonomia energetica, creando una rete di collegamenti con basi (anche militari) nei porti.

La crescita esponenziale dell’economia cinese avvenuta in quegli anni aveva incrementato la richiesta di risorse energetiche facendo diventare la Cina un importatore di petrolio e la possibilità di blocchi o limitazioni al transito delle navi allo stretto di Malacca, lo stretto di Hormuz e il Canale di Suez da parte dei paesi che ne detengono la giurisdizione rappresentavano una minaccia per il flusso energetico cinese. Per questo motivo, prosegue Pepe nella sua ricostruzione, a partire dal 2001, con il finanziamento del rinnovamento del porto di Gwadar, in Pakistan, la Cina ha iniziato questa strategia che le garantisse una maggiore stabilità nelle aree di transito delle merci via terra e via mare.

Nel 2002 è stato lanciato, sempre in Pakistan, un progetto per la costruzione di un porto di acque profonde per l’attracco di navi container di dimensioni maggiori che diventasse il punto di approdo per le navi provenienti dallo stretto di Hormuz e lo sbocco diretto al mare delle regioni occidentali cinesi. Successivamente è toccato al porto di Hambantota nello Sri Lanka, mentre con la Birmania, dove la Cina voleva assicurarsi il controllo del Golfo del Bengala, è stato siglato un accordo per la costruzione di una grande oleodotto che unisse il porto di Kyaukpyu alla città di Kunming, nella provincia della Yunnan, dove si trovano le maggiori raffinerie cinesi. Grazie alla realizzazione di questa infrastruttura la Cina avrebbe potuto incrementare l’importazione di petrolio di 22 milioni di tonnellate all’anno.

È in questo contesto che si è inserita la Belt and Road Initiative, attraverso la quale la Cina punta ad abbracciare tutto il mondo in un’unica “cintura”, aumentando la propria presenza nel Mediterraneo fino ad arrivare all’Artico, rotta ritenuta da Pechino indispensabile per poter raggiungere il Centro e Nord Europa. Durante il Forum per la cooperazione internazionale della BRI, svoltosi a Pechino nel maggio 2017, Xi Jinping ha reso noti i dettagli di un progetto che, in quel momento, coinvolgeva 65 paesi interconnessi tra di loro, che rappresentano il 70% della popolazione mondiale, e prevedeva un budget complessivo tra i 1000 e i 1400 miliardi di dollari e un volume di merci scambiate pari a 913 miliardi.

La logica seguita, spiegava Politico in un articolo dello scorso anno, è quella del “divide et impera”. In pratica la Cina stringe accordi bilaterali con quei paesi – soprattutto nell’Est Europa – che hanno forte bisogno di infrastrutture ma non hanno le risorse sufficienti per poterle realizzare acquisendo partecipazioni azionarie nella gestione delle stesse. In particolare ci sono stati forti investimenti in Repubblica Ceca, Grecia e Ungheria.

Nel 2016 COSCO (China Ocean Shopping Company) ha acquisito il 51% della Port Authority del Pireo in Grecia con un investimento di 280,5 milioni di euro (percentuale destinata a crescere fino al 67% se la compagnia cinese investirà altri 88 milioni di euro), ha partecipato alla joint venture Euro-Asia Oceanogate che ha acquisito per 790 milioni di euro il Kumport terminal di Ambarli a Istanbul in Turchia, e per il 20% a quella che gestisce il Suez canal container terminal. Nel giugno 2017 è stato acquisito il 51% della società proprietaria del terminal di Bilbao e Valencia, in Spagna.

Questi importanti investimenti testimoniano che la Cina considera strategiche le regioni dell'Europa meridionale e orientale. Dal 2008, quando è avvenuta l’acquisizione del porto del Pireo, il traffico portuale è cresciuto del 300%, diventando uno dei più importanti d’Europa e finendo con l’attrarre grandi aziende come Hewlett Packard (HP), Hyundai e Sony che hanno deciso di aprire i centri logistici in Grecia e di utilizzare il porto come principale centro di distribuzione per le spedizioni verso l'Europa centrale e orientale e l'Africa settentrionale.

In questo contesto, l’Italia ha una posizione strategica per le navi commerciali che transitano nel Mediterraneo, in particolare per quanto riguarda i porti di Genova, Trieste e Venezia. Proprio il porto di Trieste, spiega ISPIfa parte del progetto Trihub, nell’ambito di un accordo quadro tra UE e Cina per promuovere reciproci investimenti infrastrutturali. Inoltre, la China Merchants Group potrebbe realizzare nuovi investimenti nel porto triestino, mentre CCCC potrebbe impegnarsi nella realizzazione di una banchina alti fondali a Venezia investendo circa 1,3 miliardi di euro. Altri 10 milioni di euro sono stati investiti dalla China Merchant Group nel porto di Ravenna allo scopo di farne l’hub europeo dell’ingegneria navale.

Accanto alla rete di porti nel mondo il progetto cinese prevede la “Cintura” (la Belt), vale a dire la creazione di corridoi commerciali via terra che, passando per l’Africa, colleghino la Cina all’Europa, collaborando al potenziamento e rifacimento di tratti già esistenti di ferrovie e autostrade.

A est, in Pakistan, è prevista la realizzazione di un’autostrada di 700km e di una linea ferroviaria per il trasporto delle merci su rotaie. Tra India, Bangladesh e Myanmar l’obiettivo è quello di riportare alla luce l’antica Stilwell Road, utilizzata durante la Seconda Guerra Mondiale, dai convogli militari statunitensi e britannici per arrivare in Cina. In Russia è stato siglato un accordo tra Gazprom e il governo per la realizzazione di un gasdotto.

A ovest, il centro degli investimenti sono innanzitutto i Balcani. Nel 2010 Pechino e Belgrado hanno stipulato un accordo per costruire un nuovo ponte autostradale sul Danubio, inaugurato nel 2014, che collega Salonicco a Salisburgo.

Per sostenere una tale quantità di investimenti, alla fine del 2015, è stata creata una banca di investimento – la Asian Infrastructure Investment Bank, con un capitale di 100 miliardi di dollari proveniente da 93 Stati, tra cui anche l’Italia che partecipa con una quota di 2,5 miliardi. Finanziamenti sono stati erogati anche da altre banche come la Industrial and Commercial Bank of China, China Costruction Bank, Agricultural Bank of China, l’Asian Development Bank e la Bank of China. È stato istituito, inoltre, il Fondo della Via della Seta e, nel 2016, la China Development Bank ha fornito 12,6 miliardi di dollari in finanziamenti a progetti BRI.

La proposta dell’Unione europea

A settembre 2018 l’Unione europea ha presentato la sua proposta di collegamento tra Europa e Asia – "Connessione Europa-Asia – Elementi essenziali per una strategia dell'Ue” – approvata dopo neanche un mese dal Consiglio in vista del dodicesimo summit Asia-Europa (ASEM), che si è tenuto il 18 e 19 ottobre dello scorso anno.

Attraverso la realizzazione di una rete trans-europea, l’Ue vuole innanzitutto contrastare questa logica di “divide et impera”, chiedendo ai paesi europei di non stringere accordi bilaterali ma di lasciare all’Unione europea a 27 la negoziazione con partner strategici (tra cui la Cina) per definire congiuntamente quali progetti realizzare e come realizzarli.

via ISPI

Per quanto concettualmente diversi, spiegano Stefano Riela e Alessandro Gili di ISPI, “è difficile pensare che non ci sia una cooperazione tra Ue e Cina”. Un coordinamento tra i due paesi è necessario “per evitare duplicazione di opere e comunque un’integrazione tra BRI e la rete TEN-T con la sua estensione a Oriente per dimensionare i tracciati in maniera tale da evitare colli di bottiglia che potrebbero richiedere anni prima di un loro effettivo potenziamento”.

Nello scontro tra USA e Cina, aggiungono Alessia Amighini, Giulia Sciorati e Alessandro Gili in un approfondimento su ISPI, l’Europa potrebbe limitarsi a un ruolo di osservatore o interlocutore esterno, oppure potrebbe schierarsi apertamente con gli Stati Uniti. Proprio per la sua storica alleanza con Washington, proseguono i tre ricercatori, l’UE potrebbe esercitare un compito di mediazione, mostrando a entrambi i contendenti che le prospettive di uno scontro frontale a lungo termine sono negative. Da questo punto di vista, la cooperatazione tra Italia e Cina “potrebbe porre Roma nella posizione di agire come canale per l’instaurazione di una relazione europea collettiva e unica con Pechino”.

Le relazioni tra Italia e Cina

La visita del Presidente Xi Jinping arriva dopo una serie di incontri bilaterali, accordi informali e gruppi di lavoro tra rappresentanti dei governi italiani e cinesi che hanno contribuito a costruire la cooperazione tra i due paesi. Negli ultimi cinque anni, scrive ISPI, le relazioni tra Italia e Cina hanno registrato una tendenza positiva.

La Cina è il quarto mercato verso il quale l’Italia esporta di più dopo Unione europea (55,5%), Stati Uniti (9,1%) e Svizzera (4,6%): il 3% del totale esportato dall’Italia nel 2018 (pari a circa 13,7 miliardi di euro) è andato infatti verso il paese asiatico. Per quanto riguarda le importazioni, la Cina è seconda solo all’Ue con il 7,1% del totale importato dall’Italia, pari a 30,78 miliardi di euro nel 2018.

In ambito europeo l’Italia è il terzo importatore dopo Germania e Regno Unito e quarto esportatore dopo Germania, Regno Unito e Francia. Tra il 2000 e il 2018, “l’Italia è stata tra i primi Paesi destinatari delle acquisizioni cinesi, insieme a Gran Bretagna e Germania. Mentre in Italia sono stati destinati 15,3 miliardi di euro, in Gran Bretagna e in Germania sono arrivati rispettivamente 22,2 miliardi e 46,9 miliardi”.

via ISPI

Cosa accadrà?

È difficile riuscire a capire quali saranno gli scenari futuri. In Cina si parla anche di una seria riflessione sull’intero progetto a causa del mutato contesto economico cinese, profondamente diverso rispetto al 2013 quando si iniziò a parlare della Belt and Road Initiative. All’epoca, le riserve in valuta estera di Pechino erano quasi quattro trilioni di dollari e l’idea fu di utilizzare quell’eccesso di liquidità in questa mastodontica operazione.

Dopo il lancio di 6 anni fa e l’immediato entusiasmo scaturito in tutto il mondo e non solo in Cina, spiega Simone Pieranni, “cominciano ad affiorare dubbi sulla tenuta del progetto voluto da Xi Jinping. (...) Nel corso degli ultimi tempi gli intoppi del progetto non sono stati pochi e hanno tutti a che vedere con le situazioni politiche di alcuni paesi che – da entusiasti per il progetto – hanno finito per minare la base di alcuni accordi prestabiliti. I casi più eclatanti sono quelli della Malaysia, del Pakistan, del Myanmar, dello Sri Lanka e delle Maldive. In questi paesi il cambiamento al vertice politico, o il mutare di equilibri politici dati, ha portato alla messa in discussione dei progetti cinesi, precedentemente approvati. Secondo alcuni analisti questi sono tutti segnali negativi”.

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In un articolo pubblicato su Asia Nikkei Review, Minxin Pei, professore al Claremont McKenna College, scrive che i segnali sembrano portare a un disimpegno della Cina dal mega progetto: “La macchina della propaganda ufficiale, a pieno regime per diffondere i risultati della BRI non molto tempo fa, di recente ha abbassato il volume. (...) Se teniamo traccia delle storie dei Bri nei media ufficiali cinesi nel 2019 e confrontiamo la copertura con gli anni precedenti, dovremmo avere un quadro più chiaro su dove è diretta la BRI. Con ogni probabilità, assisteremo a un significativo declino delle pubblicità ufficiali dei media cinesi a favore della Bri. È anche una scommessa sicura che il finanziamento di Pechino per i Bri diminuirà in modo misurabile quest’anno e nei prossimi anni”.

Tuttavia, prosegue Pieranni, citando l’articolo di Minxin Pei, non si tratterà di uno stop definitivo al progetto ma di una sua ridefinizione “su scale più abbordabili per la Cina del 2019 rispetto alla Cina del 2013”.

Foto in anteprima via reporternuovo.it

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