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La Cina arresta una giornalista australiana in nome della sicurezza nazionale. Altri reporter costretti a lasciare il paese

9 Settembre 2020 5 min lettura

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La Cina arresta una giornalista australiana in nome della sicurezza nazionale. Altri reporter costretti a lasciare il paese

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La giornalista australiana Cheng Lei, arrestata il 14 agosto a Pechino, è accusata di attività criminali che avrebbero messo a rischio la sicurezza nazionale cinese. È quanto ha dichiarato martedì pomeriggio Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, poche ore dopo che altri due giornalisti australiani erano stati costretti a lasciare il paese, riporta il Guardian.

Cittadina australiana residente a Pechino, Cheng è una rinomata giornalista economica che lavorava per il canale in lingua inglese China Global Television Network (CGTN). Da quando è stata arrestata, la CGTN ha cancellato ogni traccia della giornalista dai suoi siti internet.

Cheng aveva criticato il governo in alcuni status pubblicati sul suo profilo Facebook all'inizio dell’anno, ma non si sa se quei post siano collegati alla sua detenzione. "Questo caso viene gestito secondo la legge e i legittimi diritti di Cheng sono pienamente garantiti", ha affermato Zhao, senza offrire dettagli aggiuntivi sull’arresto.

Una settimana fa, la ministra degli Esteri australiana, Marise Payne, ha riferito che Cheng si troverebbe in una “struttura di detenzione” sotto “sorveglianza residenziale”, una forma di isolamento che lo Stato può prolungare fino a un massimo di sei mesi prima di arrestarla formalmente e permetterle di parlare con un avvocato.

L’espulsione forzata dei due giornalisti australiani

Il portavoce del ministro degli Esteri cinese ha anche difeso il recente interrogatorio dei giornalisti australiani Bill Birtles, della ABC, e Mike Smith, dell'Australian Financial Review. Ha detto che l'interrogatorio dei due reporter ha seguito la "normale applicazione della legge".

La ABC scrive che la settimana scorsa i diplomatici australiani hanno consigliato a Birtles e al resto dei lavoratori della catena televisiva australiana di lasciare la Cina. Era stato prenotato un volo che doveva partire da Pechino giovedì scorso. Ma la situazione è precipitata mercoledì notte, quando sette agenti di polizia hanno visitato l'appartamento del giornalista mentre era in compagnia di alcuni ospiti per un brindisi di addio. Gli agenti hanno detto a Birtles che non era autorizzato a lasciare il paese e che sarebbe stato interrogato su un "caso di sicurezza nazionale".

Anche Smith, che viveva a Shanghai, ha ricevuto una visita analoga dalla polizia, che lo ha spinto a recarsi al consolato australiano.

Entrambi i giornalisti sono stati quindi posti sotto protezione diplomatica australiana per cinque giorni e il loro governo ha negoziato con quello cinese il permesso di lasciarli tornare in Australia, in cambio di un colloquio di un'ora con i funzionari del ministero della Sicurezza dello Stato, ossia i servizi segreti cinesi.

Birtles e Smith hanno lasciato la Cina lunedì, dopo essere stati interrogati sul loro lavoro, riporta l’Australian Financial Review. Erano gli unici corrispondenti di media australiani rimasti in Cina.

Il problema della libertà di stampa e gli attacchi ai corrispondenti stranieri

La crisi diplomatica tra Cina e Australia non è un caso isolato per quanto riguarda la libertà d’espressione e le difficoltà che sono costretti ad affrontare i corrispondenti esteri che lavorano nel paese asiatico.

Gli attacchi alle testate giornalistiche occidentali sono diventati più intensi sotto la presidenza di Xi Jinping e ancora più acuti per via del conflitto commerciale con gli Stati Uniti. All’inizio di quest’anno a seguito di un botta e risposta diplomatico con gli USA, la Cina ha decretato l’espulsione di tre giornalisti del Wall Street Journal, una decisione senza precedenti dalla morte di Mao Zedong.

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Anche se il ministero degli Esteri cinese ha ufficialmente attribuito la decisione a un titolo offensivo pubblicato dal WSJ, sappiamo che i corrispondenti del giornale americano avevano coperto storie delicate come la corruzione dei funzionari del governo o la detenzione di massa dei musulmani nello Xinjiang. E al momento dell’espulsione, a metà febbraio, stavano coprendo l’espandersi dell’epidemia del nuovo coronavirus a Whuan.

Durante la pandemia di COVID-19, la Cina è stata criticata dalle organizzazioni per la libertà di stampa per la segretezza adottata dalle istituzioni nelle prime fasi dell’epidemia di Wuhan: le autorità locali hanno inizialmente cercato di censurare le notizie, ritardando una risposta che avrebbe potuto rallentare la diffusione della malattia.

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A metà marzo, il governo cinese ha espulso una decina di giornalisti americani che lavoravano per il New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal, come ritorsione per i limiti imposti dall'amministrazione Trump ai media di Stato cinesi con sede negli Stati Uniti (l'agenzia di stampa Xinhua, China Radio, la televisione CGTN e i quotidiani China Daily e People's Daily), classificati da febbraio come operazioni dell’intelligence cinese. I loro dipendenti non sono più considerati come giornalisti dagli USA, bensì come funzionari di un governo straniero. A marzo, Washington ha inoltre limitato a cento il numero massimo di corrispondenti che i media cinesi possono avere negli Stati Uniti. È stata quest'ultima decisione a provocare la reazione di Pechino, pochi giorni dopo.

Anche in questo caso, i corrispondenti espulsi dalla Cina erano quelli che avevano raccontato quel che stava succedendo a Wuhan a gennaio e febbraio, durante la crisi sanitaria per il coronavirus.

Oltre a revocare loro il permesso di operare come giornalisti sul suolo cinese, le autorità hanno vietato ai loro datori di lavoro di riassegnarli a Hong Kong o Macao e tutti e tre i giornali sono stati designati come missioni dell’intelligence americana, insieme al Time e a Voice of America. Il ministero degli Esteri cinese ha accusato in quell’occasione i media americani di "diffondere notizie false attraverso la cosiddetta libertà di stampa".

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Nella guerra diplomatica tra Stati, i giornalisti diventano delle pedine da utilizzare a proprio vantaggio come arma di ricatto. Secondo Peter Greste, portavoce dell'Alliance for Journalists’ Freedom, il trattamento riservato ai giornalisti australiani è un attacco finalizzato a lanciare un messaggio politico. "I giornalisti non dovrebbero mai essere usati come pedine politiche e ostaggi", ha dichiarato Greste, che è stato detenuto per più di un anno in Egitto, tra il 2013 e il 2015, quando era corrispondente per Al Jazeera. “Questa notizia, che arriva pochi giorni dopo l'arresto della giornalista australiana Cheng Lei, mostra quanto sia diventata intollerante la Cina quando si tratta di accettare lo scrutinio indipendente del buon giornalismo".

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La Cina è tristemente nota per il suo sistema di censura e controllo delle informazioni. E da quando Xi Jinping è diventato presidente nel 2013 la morsa attorno al giornalismo si è stretta ulteriormente. Il giornalismo investigativo è stato praticamente spazzato via e i corrispondenti stranieri trovano sempre più difficoltà quando cercano di informare da luoghi sensibili per gli interessi del governo cinese, come Xinjiang, il Tibet, Wuhan e Hong Kong. Alla fine del 2019, la Cina aveva 48 giornalisti in prigione, più di qualsiasi altra nazione, secondo i dati del Committee to Protect Journalists.

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