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Cina, la ‘campagna di rettificazione’ del governo colpisce influencer, movimenti femministi e icone della cultura pop

14 Ottobre 2022 7 min lettura

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Cina, la ‘campagna di rettificazione’ del governo colpisce influencer, movimenti femministi e icone della cultura pop

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In Cina, capita che un adolescente chieda su un forum se uscire di casa durante una giornata molto calda e afosa con un ombrello per proteggersi dal sole è da ritenersi un comportamento da niangpao, un termine problematico e stigmatizzante utilizzato in maniera offensiva per definire quei ragazzi che, secondo i canoni socialmente riconosciuti di maschile e femminile, presentano comportamenti femminili. Ma perché questa paura? Si teme forse un’aggressione omofoba da parte di qualche compagno di scuola? Potrebbe essere, ma come spesso capita in Cina bisogna guardare al governo centrale e alle politiche adottate dal partito per comprendere come queste si riflettano sulla società civile. 

Negli ultimi anni ha avuto luogo una “campagna di rettificazione” che non ha coinvolto solo i vertici dell’industria hi-tech o della logistica – si pensi al caso di Jack Ma – ma anche influencer, attori e cantanti da decine di milioni di follower della cultura pop cinese. Uno dopo l’altro sono emersi scandali che hanno coinvolto celebrità della televisione, dello spettacolo e del settore dello streaming online. Per citarne alcuni tra i più famosi: a gennaio del 2021, l’attrice Zheng Shuang è stata accusata di aver abbandonato due figli nati attraverso maternità surrogata negli Stati Uniti dopo aver rotto la relazione con il compagno e padre dei bambini. Casi altrettanto noti sono quelli della “regina del live streaming” Huang Wei, conosciuta come Viya – capace di vendere da una semplice scatola di noodle al lancio di un razzo commerciale per 5 milioni e mezzo di dollari – multata per circa 210 milioni di dollari per evasione fiscale, come anche quello dell’attrice Zhao Wei, inserita in una blacklist del governo che ha fatto cancellare il suo nome da tutte le piattaforme video: Tencent video, iQiyi, Youku. Il motivo è rimasto ignoto, anche se il Global Times riporta di alcuni netizen che avrebbero scovato una foto risalente al 2001 dell’attrice con un abito su cui vi era stampata la bandiera del Sole Nascente, la bandiera militare giapponese. 

Tutti questi casi non vanno considerati singolarmente, ma rientrano in una campagna più ampia del governo cinese che ha il fine di controllare i contenuti veicolati dalle celebrità ai propri fan e di adeguarli alla politica della "prosperità comune" del presidente Xi Jinping. Per fare ancora un esempio: più evidente sul piano politico è stata l’assenza online per più di tre mesi dello streamer Li Jiaqi, riapparso in video solo un paio di settimane fa. Li era stato improvvisamente messo offline alla vigilia dell’anniversario della repressione di piazza Tiananmen. Mentre era in diretta lo scorso 3 giugno, infatti, aveva mostrato una torta a forma di carro armato. Proprio in questi giorni, le autorità cinesi hanno censurato post, foto e video che discutevano sui social di una protesta svoltasi a Pechino che contestavano Xi Jinping, alla vigilia del Congresso, l'evento più importante del ciclo politico quinquennale della Cina. Influencer e celebrità che hanno un bacino di diversi milioni di follower rappresentano una fonte di mobilitazione diversa da quella del Partito Comunista Cinese, si legge su The Diplomat, e proprio questa differenza è alla base del conflitto tra industria dell’intrattenimento e partito. La mobilitazione di massa è ovviamente una delle “armi segrete” utilizzate dal PCC: fu determinante durante la Guerra civile come più recentemente nel contenimento della pandemia nella sua prima fase. E per il futuro della nazione è fondamentale avere il controllo di questo canale di comunicazione non solo per i contenuti che vengono veicolati ma anche per l’immagine di modello di cittadino maschio cinese che viene rappresentato. Da qui la scelta di iniziare a blurare e coprire orecchini o tatuaggi dei ragazzi che compaiono in tv. 

La crisi della mascolinità

Attualmente, sul fronte interno, Pechino si trova ad affrontare diverse difficoltà: il dissenso per la politica dello zero-covid, il rallentamento dell’economia, la crisi dei debiti nel settore immobiliare. Ma c’è un’altra “crisi” con cui è alle prese da alcuni anni e con la quale sta cercando di fare i conti: la “crisi della mascolinità” e la "femminilizzazione" dei maschi nella cultura pop. 

È il 2018 quando viene pubblicato un commento dall'agenzia Xinhua disseminando il panico per i mesi e gli anni di lì a venire – viene ricordato in una dettagliata analisi uscita per la newsletter China Talk – con i netizen che si scatenano su Weibo e Wechat per lamentare l’assalto sugli schermi di “uomini effeminati” dal trucco femminile e l’accento taiwanese. L’articolo è a firma di Xin Shiping, un gruppo di scrittori propagandisti che, in un manifesto dai connotati chiaramente omofobi e dal linguaggio violento, si scaglia contro l’estetica del sissy man. 

In una società aperta e pluralista, i gusti estetici possono assumere molte forme e variare da persona a persona. Ma c’è un limite a tutto e i pericoli iniziano proprio con il superamento di questo limite: non è più un’estetica legata alla bellezza quanto più ad una indulgenza al grottesco. L’accoglienza e il favore che i Xiao Xian Rou (letteralmente “giovane carne fresca”, in riferimento ai giovani dalla pelle glabra e i lineamenti delicati ndr) raccolgono tra media e popolazione tradiscono una tendenza preoccupante. 

La cultura dei sissy man (uomini femminuccia) è rivoltante in particolar modo per le implicazioni negative che questa ha sui nostri adolescenti. I giovani sono il futuro del nostro paese e mentre online si trovano formule scherzose per sollevare critiche come quella della “gioventù femminuccia che genera una nazione femminuccia” (gioco di parole con lo slogan patriottico “una gioventù forte genera una nazione forte”), è vero che tutto ciò che viene accolto, rifiutato e diffuso da una società, da una nazione e dalla sua cultura popolare è un tema cruciale che definisce il futuro della nostra nazione. Preparare nuove generazioni al compito del “rinnovamento” nazionale richiede il rifiuto di culture illecite e dei loro tentativi di invasione e il nutrimento attivo di una cultura positiva. 

Più volte nel corso dell’articolo – viene sottolineato sempre su China Talk – è usata la parola niangpao (娘炮), la stessa citata all’inizio dal ragazzo che chiede se portare o meno l’ombrello con sé. Un termine che è più facile sentire da qualche bullo della scuola che non da alti funzionari o giornalisti dell’agenzia di stato. Anche il Ministero dell’Educazione si è espresso sulla questione, decidendo l’anno scorso di incrementare il numero di docenti di educazione fisica di sesso maschile perché uno dei motivi per cui è in atto la “femminilizzazione” è da ricercare anche nel numero maggiore di insegnanti donna nelle scuole primarie e secondarie, oltre che alla presenza di “bei ragazzi” in televisione e nei film. La pervasività di questa ansia da maschio alfa è diventata evidente poi a marzo 2020, quando si accese la protesta online a seguito della proposta di estendere la residenza permanente agli stranieri. “Le ragazze cinesi appartengono ai ragazzi cinesi”, si leggeva tra i numerosi post pubblicati dai netizen spesso diretti contro la comunità nera, vista come minaccia perché “inquinante” della “razza cinese”. La proposta di legge venne inoltre vista come un complotto creato ad arte dall’Occidente – accusa che ultimamente risuona sempre più spesso in paesi come Russia e Iran – e le donne che reclamavano la propria autonomia come traditrici della patria. 

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Tra propaganda e censura la strada per i (pochi) movimenti femministi è tutta in salita

Dal caso celebre di Zhou Xiaoxuan che nel 2018 accusò di molestie il suo capo nonché conduttore televisivo Zhu Jun, il #Metoo ha contribuito notevolmente al dibattito pubblico cinese su disuguaglianze e discriminazioni di genere, ma far fronte alla propaganda e alle censure di stato rende la battaglia estremamente complicata. Un episodio avvenuto poi questa estate che ha infiammato gli animi delle donne cinesi, ha reso ancora più evidente quanto la strada sia in salita. Lo scorso giugno ha fatto il giro del web un video che mostrava un gruppo di uomini che dopo aver importunato una donna seduta con le amiche in un ristorante a Tangshan, alla richiesta di allontanarsi da parte di questa, hanno iniziata a picchiarla violentemente per poi afferrarla per i capelli e trascinarla in strada dove hanno continuato a sferrare calci e pugni. Il caso fece parecchio clamore, anche perché le forze dell’ordine che inizialmente avevano detto di essere intervenute subito si scoprì che in realtà arrivarono dopo una mezz’ora abbondante dall’inizio del pestaggio, quando gli uomini stavano praticamente andando via. 

Due giorni dopo l’incidente, Weibo ha annunciato una politica di tolleranza zero nei confronti di tutti gli utenti che avrebbero utilizzato un linguaggio di odio, compresi “attacchi alla polizia o al sistema politico” o di “incitamento al conflitto di genere”. Anche le cronache di quei giorni hanno minimizzato quanto avvenuto riportando frasi come “il conflitto è scoppiato da entrambe le parti”, “i due hanno iniziato a spingersi finendo così a scontrarsi fisicamente”, e in generale riducendo la questione ad un problema di sicurezza e ordine pubblico. L’elemento della violenza di genere manifestata così platealmente non è stato minimamente preso in considerazione, anzi è stato fatto di tutto per non dare adito a quel tipo di lettura. Una dolorosa sconfitta è arrivata anche il 10 agosto, quando Zhou Xiaoxuan ha visto il Tribunale rigettare il suo ricorso in appello per le accuse di molestie sessuali contro il conduttore Zhu Jun. "Quello che ho vissuto è quello che sono costrette a vivere le donne", ha detto Zhou in udienza. "Spero che la prossima persona che verrà in tribunale sia trattata con maggiore comprensione".

Immagine in anteprima: frame video WeTv English via YouTube

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