A 50 anni dal colpo di Stato in Cile, il cammino per la verità e la giustizia è ancora lungo
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A 50 anni dal colpo di Stato che stroncò l’esperienza socialista del governo di Salvador Allende, in Cile la memoria storica è ancora un campo di battaglia aperto. C'è molta strada da percorrere perché le vittime dei 17 anni di dittatura del generale Augusto Pinochet ottengano giustizia, tassello fondamentale per iniziare un processo di riconciliazione nel paese. Il patto di silenzio che protegge ancora oggi i responsabili delle atroci violazioni dei diritti umani, tanto tra le fila dei militari come tra i civili, rinforza e legittima un settore politico che oggi rivendica apertamente l’eredità di Pinochet. Da parte dello Stato, a partire dal ritorno della democrazia, è stato fatto troppo poco per mantenere l’impegno nella ricerca della verità sulle torture, gli omicidi e le sparizioni forzate avvenute in dittatura, e questo compito è ricaduto sempre soltanto sui familiari dei detenuti e desaparecidos, che hanno portato avanti i processi per decenni e combattono ancora per riconoscere numerosi luoghi di tortura disseminati nelle città come spazi della memoria.
La ferita è ancora aperta, attraversa il corpo sociale cileno, è una frattura presente non solo nella vita pubblica e nel dibattito politico di questi ultimi mesi, polarizzato dal contesto di avanzata delle destre nel paese, ma nei tessuti più profondi, nelle famiglie spaccate ideologicamente, nel classismo delle istituzioni, nella struttura neoliberale di un sistema educativo fortemente privatizzato, che oblitera questa parte della Storia recente, come mostra un recente sondaggio secondo il quale il 41% dei giovani sotto i 35 anni ammette di sapere poco o nulla di ciò che è accaduto durante la dittatura.
Così come hanno fatto le Madri di Plaza de Mayo in Argentina, anche in Cile le donne – madri, mogli, figlie, sorelle – hanno cercato di sapere dov’erano detenuti i loro cari scomparsi fin dai primi anni della dittatura. Una delle loro forme di protesta che è arrivata fino ad oggi è la cueca sola, un genere musicale folklorico che si danza in coppia, e che le donne cominciarono a ballare da sole, evidenziando l’assenza del familiare scomparso, ricordato in una fotografia appuntata al petto. L’8 marzo del 1978 cantarono e ballarono la cueca sola per la prima volta sul palco del teatro Caupolican a Santiago, cominciando poi a denunciare l’orrore della dittatura nei diversi quartieri della capitale. Tornarono ad esibirsi nella campagna del “No” al plebiscito che 1988 che riportò la democrazia in Cile, mostrando per la prima volta l’esistenza dei desaparecidos in televisione. “Ho perso quel che più amavo”, dice la canzone creata da Gala Torres per suo fratello scomparso, “e mi domando costantemente, dove ti tengono? E nessuno risponde, e tu non torni”. La stessa domanda, ancora senza risposta, si ripete oggi per oltre mille persone: secondo i dati del ministero della Giustizia, del totale di 1.469 vittime solo 307 sono state identificate.
Lo scorso 30 agosto il governo Boric ha inaugurato un “Piano nazionale di ricerca e giustizia” come politica di Stato, assumendo l’impegno a utilizzare tutti gli strumenti a disposizione delle istituzioni per ritrovare le persone che sono state fatte sparire durante la dittatura. La legge di amnistia, imposta per decreto da Pinochet nel 1978, evitò che fossero processati i responsabili di atti criminali commessi tra l’11 settembre 1973 e il 10 marzo 1978, il primo e più violento periodo della dittatura. Le legge è stata applicata a centinaia di casi di gravi violazioni dei diritti umani e non è stata derogata al termine del regime militare, quando il primo presidente democratico Aylwin annunciava che avrebbe cercato la giustizia “nella misura del possibile”. La “Commissione per la verità e la riconciliazione”, creata dal suo governo, produsse il rapporto Rettig in cui si riconobbero 1.319 esecuzioni illegali e morti per torture e 979 sparizioni forzate, mentre non vennero investigati i casi di tortura che non portarono alla morte. Solo nel 1998, mentre Pinochet veniva detenuto a Londra, la Corte Suprema decretò che la legge di amnistia non si sarebbe applicata ai casi di violazione dei diritti umani, aprendo il cammino a nuove cruciali indagini sugli arresti sistematici e arbitrari, le torture, le esecuzioni extragiudiziali e le sparizioni forzate. Il primo e il secondo rapporto Valech, pubblicati nel 2004 e poi nel 2010, ampliavano le ricerche ai casi di tortura e prigione politica, ma le testimonianze complete raccolte dalla Commissione sono state protette da segreto per 50 anni e sono ancora inaccessibili perfino al potere giudiziario. Le dichiarazioni dell’attuale presidente Boric sull’apertura degli archivi dei rapporti Valech hanno scatenato l’immediata reazione di rappresentanti politici della destra che hanno parlato di un “tradimento” alla confidenzialità delle testimonianze depositate.
“Sono passati 50 anni e le forze armate e la polizia non hanno mai rotto il loro patto di silenzio”, afferma Alicia Lira, presidente della Agrupación de Familiares de Ejecutados Políticos. “Non hanno dato informazioni né per ragioni umanitarie né pensando alle famiglie e alla tortura psicologica costante del non sapere dove sono” i loro cari scomparsi. In un’altra intervista aggiunge che è difficile che rompano il silenzio ora, dopo tanti anni. “È peggio, vediamo la viltà di quelli che si danno alla fuga o si suicidano, come è accaduto con i condannati per l’omicidio di Victor Jara, che sono stati impuni per molto tempo”.
La sentenza definitiva in cassazione per i sette militari, ormai in ritiro e con una lunga carriera alle spalle, è arrivata lo scorso 28 agosto, confermando la condanna già espressa dalla Corte d’appello nel 2021. A sei di loro sono stati dati 25 anni di carcere per il sequestro e l’assassinio dell’amato cantautore popolare Victor Jara e di Littré Quiroga, direttore delle prigioni durante il governo Allende, entrambi torturati nei giorni seguenti al colpo di Stato. Raúl Jofré González e Nelson Haase Mazzei si sono dati alla fuga mentre Hernán Chacón Soto si è suicidato con un colpo di pistola appena prima che lo portassero in carcere.
Le figlie di Victor Jara, in una dichiarazione pubblica, hanno affermato che “sono passati così tanti anni che è difficile sentirla come un atto di giustizia”, eppure la sentenza “è un segnale che sta mandando il potere giudiziario.” Hanno evidenziato che sui grandi media nazionali non si sta dando la dovuta rilevanza alle numerose sentenze emesse negli ultimi mesi dalla Corte Suprema per casi di lesa umanità.
La tradizionale manifestazione al cimitero generale di Santiago ha incluso, come ogni anno, anche atti di protesta e azione diretta seguiti dalla rituale repressione dei Carabineros. Per la prima volta anche il Presidente si è mostrato in piazza, salvo poi far chiudere l’Alameda all’altezza della Moneda, provocando la dispersione del partecipato corteo in mille rivoli che si sono poi riuniti solo al cimitero. Nuova è stata anche l’iniziativa delle organizzazioni per i diritti umani che hanno convocato verso sera attorno alla Moneda oltre 6.000 donne vestite di nero, con una candela in mano e la scritta “mai più” creando una immensa e potente coreografia che ricorda l’orrore della dittatura perché non torni a ripetersi.
Eppure c’è ancora tanta strada da fare: la ricorrenza dei 50 anni dal colpo di Stato ha inasprito la disputa sulla memoria in un contesto politico nazionale in cui la destra estrema sta guadagnando terreno. Un esempio, tra i moltissimi che hanno costellato il dibattito politico negli ultimi mesi, è stata l’affermazione della deputata Gloria Naveillan che ha negato le violenze sessuali avvenute durante la dittatura nel centro di tortura chiamato Venda Sexy, nonostante le centinaia di testimonianze esistenti e una sentenza dello scorso 21 agosto della Corte Suprema che condanna tre agenti della Dirección Nacional de Inteligencia (DINA) per averle perpetrate.
La scorsa settimana, i partiti politici dell’opposizione si sono rifiutati di firmare un accordo “per la protezione della democrazia”, proposto dal presidente Boric a tutte le forze politiche. Il leader della Unión Demócrata Independiente (UDI), Javier Macaya, ha sostenuto che la proposta divide e polarizza, e questo argomento viene usato da anni tutte le volte che si parla di stabilire una verità storica attorno agli orrori perpetrati dalla dittatura. Il sociologo Manuel Garretón, consultato da diversi giornali a fronte di una polemica sorta durante il suo programma radio, ha concluso che in Cile non c’è un consenso trasversale sulla condanna del colpo di Stato, che continua a essere giustificato come l’unica risposta possibile per salvare il Cile dal marxismo. “È il 44% che ha votato per il Sì a Augusto Pinochet nel plebiscito del 1988 ed è lo stesso 44% che ha votato per Kast alle ultime elezioni”. Le barbarie commesse dal regime di Pinochet vengono equiparate al governo dell’Unidad Popular e la proposta è sempre mettere un punto finale alla ricostruzione della Storia e guardare al futuro. Secondo Garretón, “la società cilena di oggi si fonda con il bombardamento alla Moneda” ed è “presente nel DNA di un settore che non condannerà mai il colpo di Stato perché sono i loro padri e nonni che lo hanno compiuto, appoggiato, promosso.” Ancora oggi non si conoscono i nomi dei piloti che sganciarono le bombe sul palazzo presidenziale.
Tutti i governi della cosiddetta Concertación cilena hanno cercato di chiudere il doloroso capitolo della dittatura nella storia del paese con alcuni gesti incompleti di riparazione alle vittime. Ma senza una ricostruzione esaustiva della verità, senza una giustizia profonda, non è possibile sanare la ferita ancora aperta per una repressione durata 17 anni.
La cueca sola è ancora attuale e torna a esprimersi con un collettivo che raccoglie tre generazioni e continua a ballare con e per i desaparecidos, ma anche per le morti causate dallo Stato in democrazia, per le vittime della violenza di genere, per i delitti di odio contro le dissidenze sessuali. La canzone riparte, una volta e un’altra ancora, con altri strumenti, con diversi interpreti che danzano, il fazzoletto in mano, la fotografia al petto. L’urgenza oggi è de-privatizzare la memoria, perché non sia una responsabilità e un fardello solo per i familiari diretti delle vittime, si tratta di renderla pubblica per permettere a tutta la società di appropriarsene e tessere così una memoria collettiva condivisa. Si tratta, ancora una volta, di ampliare e rafforzare la voce di denuncia della violenza del terrorismo di Stato, mostrando insieme altre forme di violenza strutturale che si esercitano sui corpi per questioni di genere, razza e classe. Sono cinquanta cuecas solas che vanno in scena questo 11 di settembre, a formare il racconto corale della dittatura e insistere nel gesto di ribellione e denuncia necessario per garantire che un’epoca oscura come quella della dittatura non si ripeta “mai più”.
Immagine in anteprima: foto di José Aguilera.