La ricerca sugli impianti cerebrali, oltre l’annuncio pubblicitario di Elon Musk
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Un imprenditore miliardario ha pubblicato un post sul suo social media riguardo a un impianto cerebrale effettuato su una persona in un qualche posto degli Stati Uniti e in poche ore si è elettrizzato tutto il mondo dei media con la gara a chi la raccontava più grossa e fantascientifica. Nel frattempo, pareva di vederli i gruppi di ricercatori e ricercatrici che da decenni lavorano con rigore e passione in settori che intersecano l’ingegneria, l’elettronica, le neuroscienze, la medicina. Pareva di vedere il loro stupore e un certo avvilimento tra gli angoli di rintracciabili laboratori sperimentali e reparti ospedalieri per come una notizia vuota abbia fatto rapidamente il giro dei continenti rimbalzata e resa artatamente rivoluzionaria dall’esaltazione di prodighi commentatori.
La realtà è che l’innovazione tecnologica ha radicalmente cambiato il presente della diagnosi e dei trattamenti in ambito medico e, particolarmente, in neurologia e in psichiatria. Accanto a strumenti diagnostici sempre più precisi nell’identificare circuiti neurali sottostanti le manifestazioni sintomatiche di una determinata persona, la neuromodulazione è stata aggiunta alle opzioni di trattamento per diverse condizioni come la malattia di Parkinson, le distonie, i tic, il disturbo ossessivo compulsivo, la depressione, ecc.
Il futuro sarà caratterizzato da ulteriori sfide che riguarderanno i materiali e l’elettronica, la continuità degli aggiornamenti e la sostituzione dei dispositivi e degli elettrodi, la sicurezza e la riservatezza dei dati registrati, l’universalità e i limiti etici.
La storia moderna della neuromodulazione con fini terapeutici ha inizio negli anni 1960, a partire dai primi dispositivi impiantati per la stimolazione elettrica midollare (Spinal Cord Stimulation) nel trattamento temporaneo del dolore cronico resistente. Da allora si sono evolute le teorie, le metodiche, gli elettrodi, il sistema di controllo, le applicazioni e la durata, con impianti stimolanti definitivi. Alla fine degli anni 1980 la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation) è stata applicata a specifiche regioni sottocorticali nei nuclei della base per trattare i tremori gravi nella malattia di Parkinson e poi ha trovato indicazioni anche alle fasi intermedie di malattia, portando a benefici funzionali.
È “la tecnica di impianto cerebrale forse più vecchia di tutte”, spiega a Valigia Blu dagli Stati Uniti, Lorella Battelli, docente di Neurologia alla Harvard Medical School, coordinatrice scientifica al Berenson-Allen Center for Non-invasive Brain Stimulation del Beth Israel Hospital di Boston e ricercatrice associata presso il Center for Neuroscience and Cognitive Systems dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Rovereto, “grazie alla quale, l'inserimento di uno stimolatore tipicamente posizionato nei nuclei subtalamici, permette l'invio di impulsi elettrici ai nuclei subtalamici riducendo completamente il tremore. Nella versione più recente, un sistema a circuito chiuso impara a identificare i pattern di attività corticale tipici del tremore e grazie a un algoritmo che impara ad identificare questi pattern, la stimolazione viene adattata al singolo individuo ed emessa al sorgere del tremore (anche denominata adaptive DBS)”.
“Ho assistito da poco – continua la professoressa – a una presentazione di questa metodica a circuito chiuso e posso dire che è una tecnologia fantastica, veramente efficace. Si tratta di una tecnica molto costosa purtroppo e questo la rende applicabile ancora a pochi casi”. Tale metodica, ha aggiunto, “con l'installazione degli elettrodi in aree corticali diverse, viene utilizzata in casi di depressione maggiore farmacoresistente o nel disturbo ossessivo compulsivo grave”.
La configurazione a circuito chiuso di questi impianti ancora sperimentali si distingue da quella a circuito aperto in cui le impostazioni di stimolazione vengono prefissate empiricamente, senza adattarsi allo stato fisiologico del paziente. Andando alle applicazioni più recenti della neuromodulazione, Battelli riferisce che “ci sono dei risultati indubbiamente molto interessanti ed estremamente promettenti. Basti pensare alla paziente con sindrome locked-in da tanti anni che, grazie a una BCI [Brain Computer Interface o, in italiano, interfaccia cervello-computer] e all’intelligenza artificiale è riuscita a comunicare o al paziente paraplegico seguito in Svizzera che è stato in grado di muovere le gambe e camminare”.
“Questi sono progressi estremamente importanti – precisa Battelli – con alle spalle anni di ricerca e con risultati pubblicati su riviste scientifiche dopo un processo di revisione rigoroso”.
L’annuncio di Musk, pertanto, non può essere considerato in alcun modo alla stregua di una procedura scientifica controllata e trasparente ma è stata soltanto un’inserzione pubblicitaria amplificata senza costi probabilmente per poter arruolare - tramite il sito di Neuralink - sia i prossimi pazienti disposti a candidarsi all’impianto sia i tecnici e gli ingegneri necessari al gruppo di lavoro.
“Sebbene Elon Musk abbia sollevato tanta polemica dicendo di aver impiantato il primo chip, ricordiamoci che sono tutte mosse mediatiche, tanto rumore su una procedura che di fatto non è nuova. La cosa fondamentale è che sia tutto fatto seguendo i criteri etici corretti della sperimentazione e su questo assumo che anche Musk e il suo gruppo debbano sottostare alle stesse regole, anzi, ne sono certa”, ha puntualizzato Battelli.
La stimolazione invasiva fin qui trattata, relativa ad impianti che vengono inseriti in specifiche aree cerebrali attraverso un intervento neurochirurgico, caratterizza solo alcune tra le opzioni terapeutiche della neuromodulazione che si estende anche a tecniche non invasive.
“La neuromodulazione non invasiva – spiega ancora Battelli a Valigia Blu – utilizza lievi stimolazioni a correnti dirette che possono modificare l'attività corticale mediante l'applicazione di elettrodi sulla superficie della testa. La stimolazione può essere erogata in varie modalità e, quando viene utilizzata per scopo terapeutico, si cerca di riattivare e aumentare l'eccitabilità corticale di un'area che può essere stata lesionata da un ictus, con lo scopo di aiutare il recupero delle funzioni perse a causa del danno”.
Battelli fa l’esempio di un sistema a circuito chiuso che utilizza i dati elettroencefalografici e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS) che, attraverso elettrodi di superficie “permette di registrare costantemente l'attività corticale e identificare i pattern caratteristici che indicano l'imminenza di una crisi epilettica”. “Un algoritmo – prosegue – viene addestrato a capire quando il cervello è in un determinato stato e può attivare la stimolazione (utilizzando gli stessi elettrodi) nel momento più adeguato a prevenire la scarica epilettica”. Si tratta, quindi, di un intervento che potrebbe diventare alternativo alla terapia farmacologica di alcune epilessie.
Questi sistemi a circuito chiuso, adattati allo stato fisiologico, rappresentano una delle sfide per il futuro sia per la loro complessità e sia “perché la variabilità nella risposta inter-individuale impone che l'algoritmo apprenda in modo preciso i pattern di risposta corticali di ogni singolo individuo per poter operare con precisione”, precisa la ricercatrice, sottolineando che "c'è molto di vero nel "dialogo" tra il nostro cervello e un dispositivo tecnologico, ma a monte c’è una grande quantità di lavoro di ricerca, fondamentale per la riuscita di progressi tecnologici”.
Sono numerosi i vincoli metodologici che rendono mandatoria la definizione di condizioni controllate di sperimentazione e di applicazione della neuromodulazione, dalla sua sperimentazione alle applicazioni terapeutiche. Uno di questi vincoli riguarda i materiali e la manutenzione degli elettrodi che vengono impiantati. Per Battelli, tali vincoli “sono principalmente dovuti ai rischi in cui si può incorrere, ad esempio, impiantando una griglia di elettrodi (o chip) nel cervello, che, essendo costituito di tessuto morbido e in costante movimento, può con il tempo risultare lesionato e infiammato dall'impianto definitivo di elettrodi, con chiare conseguenze sulla salute dell'individuo”.
Non sono neppure da trascurare i principi deontologici quando si formulano indicazioni cliniche alle tecniche di neuromodulazione terapeutica. Allo stato attuale, non tutte le procedure hanno lo stesso grado di efficacia dimostrata, oltre ai limiti di accessibilità. Il potenziale terapeutico della neuromodulazione deriva dal grado di conoscenze raggiunte rispetto a specifici sistemi e circuiti cerebrali. Gli impianti per restituire la visione costituiscono uno di questi casi. “Anche se sappiamo che le diverse aree corticali sono connesse e che, ad esempio, per riconoscere un oggetto sono implicate diverse aree visive – esemplifica Battelli – in realtà, sappiamo ancora molto poco di come di fatto arriviamo all'interpretazione di un segnale/sitmolo visivo e di come identifichiamo un oggetto specifico, ovvero come il sistema visivo interpreta l'informazione visiva che arriva dall’esterno. Quindi, anche se una persona cieca ha un chip nella corteccia visiva, è al momento impossibile che possa recuperare la visione con una griglia di elettrodi che stimola le aree visive del cervello”.
“Con tutta l’attenzione necessaria a considerare sempre i rischi e benefici di una procedura che in certi casi difficilmente migliorerà la qualità della vita, devo dire – ha continuato Battelli – che, al momento, vedo più vantaggi che limiti nella stimolazione cerebrale, soprattutto in quella non invasiva ma anche in quella invasiva, sempre ammesso che tutto sia fatto seguendo i rigorosi criteri metodologici ed etici della sperimentazione”.
Un ulteriore aspetto da considerare per le preoccupazioni etiche è che le tecniche di neuromodulazione possono andare oltre il trattamento delle malattie per estendersi al potenziamento cognitivo di persone sane, attualmente limitato a una fase sperimentale. “Le stesse procedure di stimolazione non invasiva (stimolazione transcranica a correnti dirette - tDCS - , a correnti alternate - tACS - o con rumore casuale - tRNS) possono essere utilizzate in soggetti sani per esperimenti volti a dimostrare il coinvolgimento diretto di specifiche aree cerebrali in determinati compiti cognitivi, sensoriali o motori e a fare esperimenti proof-of-concept, ovvero dove si dimostra che l'intervento con la stimolazione non invasiva migliore la prestazione cognitiva in soggetti sani”, ha chiarito Battelli. In tal modo, sarà possibile applicare la stessa procedura a pazienti con lesioni cerebrali in quelle aree e con difficoltà in quei compiti cognitivi, motori e sensoriali, per migliorarne le funzioni.
Per questo tipo di applicazione con finalità terapeutica, “le implicazioni etiche sono le stesse che si applicano a qualsiasi ricerca sull'essere umano, ovvero devono essere autorizzate solo se rispettano il principio di 'do no harm', ovvero non causare danno e avere benefici maggiori rispetto ai potenziali rischi. Questi principi sono alla base di una corretta sperimentazione. Devono sempre essere utilizzati dei criteri molto stringenti di inclusione ed esclusione alla sperimentazione e per tutto questo ogni sperimentazione deve essere approvata da un comitato etico competente”.
Se invece consideriamo il potenziamento nella persona sana, un interrogativo riguarda la definizione di criteri e limiti per l'accesso alle neurotecnologie con scopo non terapeutico ma di migliorare le proprie capacità. La professoressa Battelli sottolinea il rischio di un uso scorretto, e anche di abuso, della neuromodulazione non invasiva che è ormai considerata molto sicura, facendo riferimento sia a “metodiche scorrette e tecniche ‘fai da te' potenzialmente pericolose” sia alle complesse implicazioni etiche di possibili interventi sulla neurodiversità, la cura dell'autismo, altre psicopatologie, ecc., “che richiederebbero uno spazio dedicato di discussione per rispondere alla domanda: Fino a che punto vogliamo intervenire e/o riconoscere la neurodiversità come parte della variabilita' umana?”.
Infine, negli ultimi anni stiamo assistendo al fenomeno per cui la promozione dei propri risultati scientifici tende a sfruttare il sistema del clamore mediatico e a enfatizzare benefici spesso poco attinenti ai dati raccolti. Di conseguenza, si assiste a un’esagerazione nella comunicazione delle notizie scientifiche a partire dagli stessi laboratori di ricerca e da chi li guida che risulta poi amplificata sui media. Per Battelli, “al giorno d'oggi, chi si pubblicizza tende ad avere notorietà più velocemente e questo può darsi che crei un bias nel finanziamento della ricerca. Detto questo, almeno negli Stati Uniti, le procedure di assegnazione dei finanziamenti sono fatte in modo davvero rigoroso e chiaro. Ai reviewers che giudicano le domande di fondi di ricerca è sempre richiesto di esprimere un giudizio su molti livelli, sono costretti a lavorare seriamente perché le procedure sono molto lineari e trasparenti. In Europa questo succede un po' meno. Alle domande dei fondi di ricerca in America, si riceve sempre un feedback scritto, anche per finanziamenti piccoli. In Europa non è così"'.
Il futuro della neuromodulazione è promettente e fervono le sperimentazioni che, in conformità alle pratiche controllate e trasparenti, alla definizione di principi etici e di assetti normativi appropriati, porteranno allo sviluppo di metodiche e dispositivi tali da cambiare radicalmente le terapie e la gestione di condizioni neurologiche e psichiatriche.
Immagine in anteprima: Steve Jurvetson via Flickr.com