Il punto non è Chiara Ferragni, ma il definanziamento dei Centri AntiViolenza
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Odiare Chiara Ferragni ci piace moltissimo. È bella, ricca, privilegiata, seguita, ha tutto quello che una donna dovrebbe avere secondo i canoni della società capitalista. Odiarla sembra un fatto naturale, quasi un’identità politica. Sono anticapitalista: odio Chiara Ferragni. Sono di sinistra, di quella sinistra un po’ paternalista in cui le donne devono sempre essere modelli di comportamento: odio Chiara Ferragni. Sono femminista militante: odio Chiara Ferragni. Non c’è quindi troppo da stupirsi se la decisione di Ferragni di donare il suo cachet di Sanremo 2023 all’associazione Di.Re, rete nazionale antiviolenza composta di associazioni gestite da donne, è stata accolta da cori di “Lo fa per farsi pubblicità” e “Sfrutta il femminismo per fare marketing”. Non odiarla, esserle indifferenti o trovarla (Dio ce ne scampi!) umanamente simpatica, pur riconoscendone i limiti, è considerato disdicevole e rischia di farti togliere il patentino di attivista.
Partiamo dal fondo, quindi, e dal fatto che certo, per Ferragni c’è un bel ritorno d’immagine da questa donazione, che la mette al riparo anche dalle inevitabili polemiche sul fatto che una donna ricca sia pagata con soldi pubblici per la sua partecipazione al Festival di Sanremo (polemiche di per sé surreali, perché il lavoro si paga). È anche un’assicurazione contro l’ansia da prestazione: che Ferragni sia bravissima, disinvolta e capace di tenere il palco o legnosa, ansiosa e priva di presenza scenica, comunque quei soldi saranno andati a una buona causa. Da qualunque parte la si guardi, per lei è un’ottima mossa, e intanto Di.Re gode sia di un’iniezione di liquidità sia della visibilità nazionale derivante dalla comunicazione. Chi vive nella realtà dell’attivismo spesso dimentica che là fuori c’è un mondo che non sa nemmeno che Di.Re esista, tantomeno cosa faccia e perché sia necessaria.
Ed è questo il punto fondamentale che stiamo trascurando. In Italia si è creata una rete di associazioni che si occupano di contrastare gli effetti della violenza maschile sulle donne, e questa rete, che gestisce un gran numero di centri antiviolenza e case rifugio necessari a dare sostegno e protezione alle donne che si sottraggono da una relazione di abuso e non hanno la disponibilità economica necessaria per essere indipendenti, è sempre a rischio per mancanza di finanziamenti pubblici. L’altro punto fondamentale è che abbiamo ancora bisogno di queste associazioni e di questi centri antiviolenza, perché la nostra società rifiuta di affrontare la violenza come un problema sistemico, e quindi rifiuta sia l’autocritica necessaria a smantellare quel sistema sia gli interventi di prevenzione ed educazione che possono se non altro ridurre e contenere il danno.
La presidente della casa delle donne Lucha y Siesta di Roma, che negli anni ha dovuto affrontare non solo la carenza di fondi ma anche una minaccia di sfratto da parte dell’amministrazione capitolina, è stata chiamata in tribunale per rispondere dell’occupazione del palazzo dell’ATAC di via Lucio Sestio da cui hanno ricavato la loro sede. Un palazzo fino a quel punto abbandonato, ristrutturato e messo a disposizione della comunità grazie al volontariato che l’ha trasformato nella più grande casa rifugio della città, in uno spazio di comunità, cultura ed elaborazione politica. La difesa ha chiesto la piena assoluzione, ed è difficile non ravvisare un intento persecutorio negli attacchi costanti che subiscono per aver cercato di dare una soluzione pratica a un problema collettivo, usando le risorse della collettività per farlo.
Questa è la cultura che circonda il problema della violenza maschile contro le donne: negazione, minimizzazione, delegittimazione, intransigenza e legalismo nei confronti di chi si rimbocca le maniche per supplire a una carenza. Il problema non esiste se non in forma episodica, ogni uomo che fa storia a sé, ogni donna morta che muore perché aveva lasciato il suo assassino, perché non l’aveva lasciato, perché intendeva lasciarlo, perché lui non si rassegnava. E intanto gli abusi vanno in onda su Canale 5, in prima serata, spacciati per storia d’amore che si può ancora salvare se lei lo perdona e torna da lui, o nei dialoghi dei dating show. Uomini che controllano le compagne, che sottraggono telefonini, che limitano la libertà di azione e di autodeterminazione delle donne che hanno intorno, che si atteggiano a padroni. Tutto normalizzato, tutto ignorato, e ogni volta che si prova a parlarne scatta la reazione maschile: non si può generalizzare! Non siamo tutti mostri! Non siamo tutti così! Non tutti gli uomini! Perché non sia mai che si possa parlare di un problema senza che loro siano al centro della discussione, mai responsabili, sempre alla ricerca di un’assoluzione individuale per essersi mantenuti al minimo della decenza.
Tutto questo è funzionale al capitalismo? Certo. L’oppressione delle donne e il mantenimento di un ordine rigido dei ruoli di genere è fondamentale per il sistema capitalistico. Ferragni è espressione del capitalismo? Senz’altro. La rivoluzione la deve fare lei? Mi sa di no. La dobbiamo celebrare come grande benefattrice, madre misericordiosa e santa? No, ma nemmeno sputarle addosso.
Il cachet di Ferragni non sarà stato certo misero, e anche se non abbiamo dettagli ufficiali sulla somma effettiva e sull’entità della donazione (e non è il caso di fidarsi delle indiscrezioni), sono comunque soldi che danno ossigeno a una realtà che dà soccorso a persone la cui vita è a rischio. Ed è questo il problema: da anni, l’associazione ActionAid segnala la lentezza con cui i fondi vengono erogati e la vaghezza dei piani antiviolenza varati dai governi, tutti proclami e zero implementazione. In quello del 2021-2023, varato dall’ormai ex ministra Bonetti, si parla di “interventi di sensibilizzazione” nelle scuole, senza stabilire quanti e quali fondi siano destinati alla loro attuazione e lasciando ampia discrezionalità agli istituti (e di conseguenza a docenti e dirigenza scolastica). Quello che servirebbe – l’introduzione di un piano educativo sulla sessualità e l’affettività a tutti i livelli della scuola dell’obbligo – non viene fatto. Non se ne ravvisa la necessità. Costa meno piangere le donne da morte che sostenerle da vive.
Di questo dovremmo parlare: non del nostro odio verso Ferragni, ma del fatto che i suoi soldi renderanno possibile salvare qualche vita in più, aiutare a rendere indipendenti donne che altrimenti non saprebbero come ricominciare, e tutto perché il nostro paese rifiuta di riconoscere la natura endemica della violenza, e rifiuta di intervenire sulle sue origini, oltre che sugli effetti che provoca. Sì, Ferragni ne esce bene. È l’Italia a uscirne male. Parliamone.
Immagine in anteprima: Chiara Ferragni e Antonella Veltri, Presidente D.i.Re – Foto via Instagram @chiaraferragni