La satira “intollerabile” di Charlie Hebdo contro il politicamente corretto
9 min letturaIn partnership con i quotidiani del Gruppo Espresso
di Vittorio Parisi
Dottorando in Estetica all’Université Panthéon-Sorbonne, Parigi
Ho finalmente davanti a me questo numero 1178, il Charlie Hebdo più atteso, il più stampato (tiratura da cinque milioni, battuto il record che fu di France Soir in occasione della morte del generale De Gaulle nel 1970), soprattutto il più sofferto. Alcune informazioni sui suoi contenuti erano state rese note dai superstiti di redazione già da qualche giorno, a cominciare dalla prima pagina: una nuova caricatura di Maometto, figlia della matita di Luz, lo sguardo triste, una lacrima e, tra le mani, un cartello col motto di quest’ultima settimana, “Je suis Charlie”. Sopra il turbante del profeta aleggia l’affermazione “Tout est pardonné” (tutto è perdonato).
Non un numero “necrologio”, avevano annunciato durante la conferenza stampa del 12 gennaio, ma un "numero normale". Non si fa a tempo a girar pagina, infatti, che due vignette catturano immediatamente la mia attenzione. Una porta la firma di Tignous, l’altra di Cabu. Entrambi i disegnatori sono rimasti uccisi nell’attentato. La prima, in basso a sinistra, mostra tre jihadisti circondati da mosche svolazzanti, imbronciati e seduti a un tavolo. “Non bisogna toccare quelli di Charlie Hebdo”, dice uno di loro, “Altrimenti va a finire che passano per martiri e, in paradiso, quei bastardi si ruberanno tutte le nostre vergini!".
L’altra vignetta è in alto, a pagina tre. Titolo: “Le divorziate potranno avere la comunione”. Scena: Papa Francesco, il volto tra l’intristito e il seccato, si accinge a dare la comunione a una fila di donne dagli abiti succinti, tutte in attesa di ricevere il sacramento ad occhi chiusi, la bocca aperta e la lingua di fuori. La nuvoletta tradisce il pensiero del Santo Padre: “Mio Dio, perdona queste succhiacazzi”.
Fisso per un po’ lo sguardo su queste prime vignette, e ripeto in silenzio una domanda che tante volte mi sono fatto, prima di oggi, pensando a Charlie Hebdo e al panico seminato qua e là a suon di schizzi e freddure: cosa accadrebbe se a qualcuno venisse in mente di pubblicare qualcosa del genere in Italia?
In un articolo sul New York Times intitolato I am not Charlie Hebdo, David Brooks sostiene, a ragione, che la pubblicazione di un giornale satirico come quello francese non durerebbe trenta secondi in un campus americano. D’altronde, lo stesso New York Times ha deciso di non pubblicare l’immagine della prima pagina dell’ultimo Charlie, spiegando che non rientra nella politica del giornale la diffusione di “immagini create per ferire le sensibilità religiose”. Il Daily Beast apre invece così un articolo - a firma Arthur Chu - intitolato Trolls and Martyrdom: Je ne suis pas Charlie: “Sparare alle persone è sbagliato [...ma…] Charlie Hebdo è anche un giornale di merda, e le persone devono smetterla di celebrarlo e pensare ai membri del suo staff come a dei martiri”.
In Italia qualcosa di simile si può rintracciare con una facilità disarmante in un angolo qualsiasi di social network, fra i commenti a notizie riguardanti immigrazione, sbarchi, crimini commessi da immigrati, paesi musulmani e via discorrendo, ed è l’intramontabile formula “io non sono razzista, ma…”. Questo è il biglietto da visita con cui solitamente si presenta il cittadino xenofobo, intimamente razzista ma al tempo stesso ben attento a celare, dietro una maschera di apparente civiltà e apprensione, un profondo e radicato disprezzo verso il culturalmente diverso.
Nonostante le differenze che separano un americano da un italiano, e benché nel primo caso un presunto razzismo sia l’oggetto condannato, mentre nel secondo un inequivocabile razzista sia il soggetto condannante, entrambi sono figli di una stessa filosofia: quella del politically correct.
La political correctness è un codice, per lo più linguistico e morale, filosoficamente vicino a ciò che Michel Foucault chiamava dispositivo (dispositif): uno dei tanti strumenti (politici, amministrativi, legislativi, architettonici o, per l’appunto, linguistici e morali) che il potere utilizza per conservarsi all’interno di un determinato contesto sociale.
La prigione è, ad esempio, un dispositivo architettonico e giurisdizionale atto a consentire controllo su soggetti ritenuti pericolosi, quindi da sorvegliare e punire. La political correctness è anch’essa in grado di orientare e limitare le opinioni, le azioni e i comportamenti, e lo fa non per mezzo di leggi scritte ma, come ogni morale, esponendo il soggetto eterodosso al giudizio e alla reazione della comunità. Una di queste è, per esempio, il boicottaggio: mi trovavo a New York quando, poco più di un anno fa, Guido Barilla ebbe l’infelice idea di dire, per radio, che non avrebbe mai utilizzato l’immagine di una famiglia “non tradizionale” per pubblicizzare i suoi prodotti. L’affermazione, di per sé gravida di una morale da quattro soldi, ha suscitato una reazione non meno moralizzatrice da parte di numerose persone che, in Italia come all’estero, hanno promosso una campagna di boicottaggio dei prodotti a marchio Barilla. Dal giorno dopo, per dire, il grocery store dove ero solito fare la spesa, da sempre fornito di pasta Barilla, vendeva improvvisamente solo De Cecco. Benché, nell’occasione, Guido Barilla avesse grondato pregiudizi, sono convinto che l’isteria vendicativa degli indignados abbia messo a repentaglio la libertà più di quanto non l’abbiano fatto le dichiarazioni da provinciale di Barilla. Non è difficile da immaginare che, se la campagna di boicottaggio non avesse conosciuto la battuta d’arresto dovuta al provvidenziale mea culpa dell’imprenditore, essa non si sarebbe limitata a danneggiare solo quest’ultimo, ma anche tutti quei lavoratori che non avevano alcuna responsabilità nell’accaduto. E questo è solo uno dei possibili effetti collaterali dovuti all’impiego dell’indignazione come strumento di controllo, cioè della political correctness.
Bertrand Russell ne descrive un altro in un breve saggio del 1928, intitolato La recrudescenza del Puritanesimo: “l’indignazione morale” dice il filosofo gallese, “è una delle più pericolose forze nel mondo moderno, tanto più perché può sempre essere dirottata verso usi sinistri da coloro che controllano la propaganda”. Sebbene Russell non parli direttamente di political correctness, il lettore di oggi non potrà fare a meno di vedere una filiazione di quest’ultima dal puritanesimo descritto dall’autore, in particolare il puritanesimo statunitense.
Gli Stati Uniti sono infatti fieri promotori del politically correct, tanto quanto lo sono i francesi della laicità: i già citati New York Times e Daily Beast figurano qui come esempio, così come il mio aneddoto del supermercato newyorchese. Una comicità come quella di Charlie Hebdo sarebbe assai poco tollerata in un paese che condanna come pericolosa ogni tipo di licenza, sia essa anche satirica, dal linguaggio ritenuto corretto nei confronti di razza, genere, orientamento sessuale e religioso.
Questa politica si allinea a un fenomeno caro proprio al puritanesimo e al protestantesimo calvinista, e cioè l’iconoclastia. Secondo lo storico dell’arte americano David Freedberg, l’iconoclastia è una delle tante reazioni derivanti dall’inalienabile tendenza umana a considerare le immagini come cosa viva. D’altronde, l’iconoclastia è un fenomeno psicologico, quindi metastorico, benché alcune culture, quella puritana così come quella islamica, ne abbiano fatto un uso puntuale e ideologico.
Considerare le immagini cosa viva significa,in primis, attribuire loro un potere e, in certi casi, averne timore. Nell’iconoclastia puritana e in quella islamica si riconoscono un obiettivo e un timore in comune: limitare l’idolatria, per scongiurare una pericolosa dispersione di energie ed obbedienza che i fedeli dovrebbero riservare solo ed esclusivamente all’autorità religiosa costituita. Da un punto di vista logico, la differenza tra questo atteggiamento e quello di un fanatico o di un terrorista è, in verità, minima. Entrambi riconoscono un pericolo nell’immagine: solo, i primi reagiscono colpendo (distruggendo, cancellando, censurando) l’immagine; i secondi colpiscono (uccidono, feriscono, imprigionano) la persona che fa uso dell’immagine.
Allo stesso modo è minima la differenza tra i puritani di ieri e i puritani di oggi: laddove l’unica vera autorità religiosa costituita è il capitalismo, e il dispositivo linguistico da esso impiegato per la propria conservazione è la political correctness, ogni affermazione, sia essa verbale o iconografica, che metta a repentaglio questo equilibrio comunicativo, incute un timore analogo a quello provato da Zwingli e Calvino nei confronti di statue, reliquie o pale d’altare.
Ma, tornando alla mia domanda iniziale: e in Italia? Siamo più vicini alla political correctness degli americani, o siamo forse più orientati verso la libertà di satira come la concepiscono i nostri dirimpettai transalpini? La seconda ipotesi pare immediatamente improbabile. In primo luogo perché la libertà di espressione di un paese la cui classe politica deve costantemente scendere a patti con il Vaticano non può essere la stessa di uno che, al contrario, fa del proprio laicismo un fondamento di libertà, uguaglianza e fratellanza.
È pensabile, d’altra parte, pubblicare una vignetta in cui la Santa Trinità inscena un trenino erotico, in Italia, un paese dove si rischia di essere multati per aver detto una bestemmia (Art. 724 Codice Penale)? È pensabile pubblicare Charlie Hebdo in Italia, dove un presentatore è stato cacciato dalla TV di Stato per aver dichiarato di aver mangiato un gatto durante la guerra? È pensabile pubblicare Charlie Hebdo in Italia, dove a ogni festival di Sanremo si invoca la censura se il comico di turno osa parlar male di Berlusconi?
Tuttavia, se negli Stati Uniti la political correctness è, come abbiamo visto, un’ideologia, una sorta di pilastro culturale (cosa che non può dirsi per chi, come noi, non ha conosciuto la Riforma protestante), in Italia diventa strumento politico, impiegato e piegato con agio da chiunque secondo i propri bisogni. È metaideologica. Ne fanno uso le autorità ecclesiastiche per difendere i precetti della Chiesa. Ne fa uso Laura Boldrini, così come Matteo Salvini, sia pure in maniera radicalmente opposta.
Laddove la Boldrini vi ricorre, all’americana, quando critica come sessista l’imitazione di Maria Elena Boschi, a Salvini torna invece utile dissociarsene per propagandare di sé un’immagine di personaggio scomodo a cui è cara la libertà di espressione: uno stratagemma per travestire di nobili intenzioni il suo becero razzismo e la sua pericolosa ignoranza. E questo è l’ennesimo effetto collaterale derivante da un frequente ricorso alla political correctness: più essa è radicata in una società, e più quella stessa società non sarà in grado di riconoscere la differenza tra la vera libertà di espressione e l’insulto, tra la discriminazione e la vera satira.
Si può dire tutto della satira di Charlie Hebdo: che sia volgare (lo è), che tocchi questioni delicate e soggetti a rischio di discriminazione (vero), che miri a provocare reazioni di ogni tipo (l’hanno sperimentato sulla loro pelle), che non faccia ridere (e questo è soggettivo). Non si può, però, in nessun caso, dire che sia razzista o discriminatoria. In primis, perché discriminare significa separare, distinguere, allontanare da sé o da un gruppo, in virtù di determinate differenze. Il biglietto da visita di Charlie Hebdo è tutt’altro: è quello della dissacrazione.
Dissacrare significa privare un simbolo della sua stessa forza simbolica; di quell’aura che gli è stata attribuita da una persona o da una comunità; della sua sacralità, per l’appunto, sia essa laica o religiosa. Esattamente al contrario dell’atto discriminatorio, la dissacrazione non crea distanze: mira anzi ad accorciarle, se non proprio ad annullarle. Una guida spirituale come il papa può improvvisamente trasformarsi in un volgarissimo compagno di battutacce sessiste (che, quindi, non sono fini a se stesse – cioè discriminatorie – ma funzionali alla dissacrazione in atto); allo stesso modo un profeta come Maometto, il cui volto irrappresentabile dovrebbe, da solo, incutere timore, viene denudato e messo nei panni di Brigitte Bardot in Le Mépris. In entrambi i casi è questo scarto, questa escursione immediata e inattesa dal sacro al profano che genera il riso nell’osservatore razionale, a prescindere che questi sia o no un fedele. La dissacrazione si rivela un problema solo per quegli individui che vedono nella sacralità un valore inviolabile.
Pretesa evidentemente assurda, perché fondata su un principio del tutto simile a quello che muove le ragioni di iconoclasti e fanatici: pensare l’immagine come cosa viva e, in questo caso, immedesimarsi in essa, sentirsi colpito in prima persona dalla profanazione del simbolo. C’è chi reagisce puntando l’indice, chi invece un kalashnikov: a esiti drammaticamente diversi corrispondono, tuttavia, identiche premesse, identiche pretese di rispetto e di censura del tutto inopportune.
Il numero di Charlie Hebdo che finisco di sfogliare snocciolando queste poche riflessioni, questo n. 1178 dove il lutto lascia quasi interamente spazio alla consueta ironia - quasi la redazione fosse stata momentaneamente decimata da un’epidemia di cacarella - ha il merito e il coraggio di non arretrare di un solo passo: non davanti all’immenso dolore, non davanti all’intimidazione e alla minaccia, non davanti alla barbarie, non davanti ai rimproveri e ai “ve la siete cercata”, non davanti alla paura, non davanti allo sciacallaggio della politica, non davanti all’infinita stupidità umana.
Je suis Charlie vuol soprattutto dire sono la laicità
scrive Gérard Biard nel suo bellissimo editoriale.
E “Sono la laicità” sembrava proprio il sottotitolo della straordinaria, impressionante partecipazione della Francia intera alla marcia repubblicana dell’11 gennaio. Un popolo ultimamente spaccato da tante questioni – il mariage pour tous, i problemi di integrazione – che si ritrova unito e indissolubile nel difendere la libertà di pensiero, di parola e di satira dal fascismo e dall’intolleranza (quella vera, che nulla ha a che vedere con la satira, come nel caso di Dieudonné): il droit de réponse unica, straordinaria arma di contestazione in un paese dove, beati loro, il culto della political correctness non ha mai davvero attecchito.