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Charlie Hebdo, perché la vera risposta è: più tolleranza, più rispetto

14 Gennaio 2015 5 min lettura

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Charlie Hebdo, perché la vera risposta è: più tolleranza, più rispetto

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Di Luciano Floridi -  professore di Filosofia ed Etica dell'Informazione presso l'Università di Oxford
traduzione di Roberta Aiello
Già apparso su CheFuturo.it e tradotto per gentile concessione dell'autore

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Place de la Nation Sunday night, photo by Zoé Filloux - via Mondaynote 

C'è un principio fondamentale alla base delle democrazie contemporanee e liberali: la giustizia. Sembra così ovvio da non poter essere messo in discussione. Cos'altro potrebbe garantire interazioni fluide tra gruppi di persone sempre più grandi e più complessi, se non la giustizia nelle sue varie incarnazioni distributive e retributive?

Eppure, molto tempo fa, la risposta era diversa: la tolleranza.

La guerra dei Trent'anni, svoltasi tra il 1618 e il 1648, può essere considerata la Guerra Mondiale numero zero. È stata uno dei conflitti più lunghi e distruttivi della storia in Europa, coinvolgendo protestanti e cattolici del Sacro Romano Impero, ormai moribondo e balcanizzato. Quando la guerra terminò, diede origine a quello che è conosciuto come il sistema westfaliano degli Stati nazionali, che divenne, più o meno direttamente, il modello da seguire per gran parte del nostro mondo contemporaneo.

La guerra spinse filosofi come John Locke a prendere atto che ciò di cui c'era maggiormente bisogno, come elemento di coesione sociale, fosse la tolleranza perché la tolleranza, secondo Locke, avrebbe potuto portare la pace, di importanza primaria. La Lettera sulla tolleranza di Locke fu pubblicata nel 1689. 170 anni dopo, nel 1859, John Stuart Mill, concordando con la tesi di Locke, aggiunse, nel suo Saggio sulla libertà, che la tolleranza avrebbe potuto anche condurre alla libertà. Comprane una, la tolleranza, per averne gratuitamente altre due, la pace e la libertà. Aveva tutta l'aria di un affare irresistibile. Eppure Immanuel Kant aveva già dimostrato che la società avrebbe potuto essere ancora più parsimoniosa. Nel suo Per la pace perpetua, pubblicato nel 1795, aveva sostenuto che ciò che avrebbe dovuto essere acquistato prima di tutto fosse la giustizia, che avrebbe potuto condurre alla tolleranza che, come sostenuto da Locke e (successivamente) da Mill, avrebbe portato la pace e la libertà.

In questo modo era stata servita la ricetta per le democrazie moderne e liberali. Da Kant a John Rawls, la giustizia, più della tolleranza, è divenuta il fondamento delle società occidentali, la madre di tutti i principi etici per la progettazione di un mondo politico migliore. Fino ad oggi, è andata così. Il sistema westfaliano, però, si sta ormai erodendo: la territorialità della legge rappresenta spesso un ostacolo per affrontare questioni in rete, e gli Stati sovrani vengono messi sempre più in discussione come gli unici pezzi della scacchiera internazionale della politica, si pensi per esempio al gruppo ribelle sunnita islamico erroneamente chiamato Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL). Intanto, il fanatismo etnico e religioso è riapparso in tutte le sue forme peggiori: discriminazione, violenza, terrorismo, guerra. Ovunque, l'immensità della sofferenza è pari solo alla sua inutilità.

L'attacco terroristico avvenuto lo scorso 7 gennaio contro la sede di Parigi di Charlie Hebdo, settimanale satirico francese, è stato un barbaro promemoria. In un mondo globalizzato e costantemente collegato, dove idee contrastanti e valori, tanto quanto abitudini e tradizioni disomogenee, possono più facilmente scontrarsi nel modo sbagliato, la ricetta che ha funzionato così bene per tanto tempo potrebbe aver bisogno di qualche miglioria. Potrebbe essere giunto il momento di ripensare il progetto illuminista di una società fondata solo sulla giustizia, che tende ad essere interpretata in modo diverso da persone diverse. Abbiamo bisogno di riscoprire la tolleranza come pilastro fondamentale della nostra esistenza comune. Nelle società avanzate, dove si conosce del proprio vicino più di quanto si voglia, e pazzi di ogni tipo possono riprendersi e mettersi in mostra sempre e dovunque, la tolleranza diventa essenziale per garantire risoluzioni pacifiche di conflitti e collaborazioni fruttuose su progetti condivisi. Noi europei abbiamo imparato la lezione ad un prezzo molto alto, macellandoci per millenni.

C'è certamente un motivo per cui la tolleranza è stata sostituita dalla giustizia nella nostra storia moderna. È successo perché se ne può avere effettivamente troppa. Se si è sempre tolleranti verso chiunque e qualsiasi cosa, la giustizia diventa insignificante, e si finisce per indebolire le fondamenta su cui una società giusta può essere costruita. Per dirla più semplicemente: non si può essere incondizionatamente tolleranti verso gli intolleranti senza, ad un certo punto, diventare ingiusti nei confronti delle vittime delle azioni degli intolleranti, come Locke già sapeva, quando metteva in guardia i suoi concittadini contro i cattolici. Eppure oggi la giustizia da sola può diventare altrettanto problematica, per un mondo kantiano in cui "fiat justitia, pereat mundus" ("sia fatta giustizia, anche se perisce il mondo") diventa ben presto intollerante, rendendo la pace irraggiungibile. Il mondo perisce se interpretazioni contrastanti sulla giustizia rappresentano l'unico criterio per giudicare le azioni umane. Lo vediamo nei territori palestinesi, dove rispondere colpo su colpo continua a minare ogni possibilità di convivenza pacifica.

Quindi, prima di applicare la giustizia, comunque intesa, abbiamo bisogno di esercitare più tolleranza verso l'altro, sebbene con moderazione.

Ciò significa garantire che ogni atto di tolleranza non obblighi altri a tollerare il tollerato. In altre parole, la società dovrebbe tollerare qualsiasi azione che generalmente disapprova, a patto che ciò non obblighi altri a sopportarne le conseguenze. Ne deriva che dobbiamo essere radicalmente intolleranti contro tutti i tipi di terrorismo e coloro che teorizzano o promuovono la violenza, in quanto non esercitano la loro libertà, ma piuttosto infrangono vite e libertà altrui. Ma dobbiamo anche essere più tolleranti e fermamente rispettosi verso culture, religioni, credenze e sensibilità che possono non piacerci, perché questa è l'unica strada da percorrere verso un mondo di pace.

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È stato rilevato che il terribile attacco terroristico contro Charlie Hebdo sia stato un attacco contro la libertà, in particolare la libertà di parola. Non sono d'accordo, non perché non sia vero, ma perché non si tratta della verità più importante.

Continuando a scavare diventa chiaro che l'atto barbarico sia ancora più disumano di quanto sembri. Perché ha cercato di minare qualcosa di più profondo della libertà di parola, cioè la tolleranza, la condizione fondamentale più importante per qualsiasi possibilità di interazione sociale. Per distruggere la tolleranza e ogni civiltà che essa promuove, i terroristi hanno attaccato la libertà di parola e ucciso molte persone innocenti. Tuttavia, la libertà di parola in sé è un danno collaterale. Sarebbe un errore reagire ad un attacco così abominevole con una maggiore intolleranza o mancanza di rispetto verso valori o idee che non condividiamo o che categoricamente non gradiamo.

Certamente giustizia deve essere fatta. Ma la soluzione, nel lungo termine, per sradicare il terrorismo non può essere rappresentata da una giustizia più dura a tutti i costi. Deve essere ricercata in una maggiore tolleranza, in un rispetto più profondo, in una più grande comprensione reciproca. I terroristi avranno raggiunto i propri obiettivi se il contraccolpo delle loro azioni infami si tradurrà nella polarizzazione sociale e nelle crociate culturali. Tutti abbiamo il diritto di andare all'inferno a modo nostro purché ciascuno di noi ci vada da solo.

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