L’insostenibile leggerezza della libertà d’espressione #charliehebdo
3 min letturaRiceviamo e pubblichiamo
Appena dopo il tremendo atto terroristico commesso contro la redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, siamo stati velocissimi nell’aggrapparci a uno dei più sacri valori delle società democratiche: la libertà di espressione. Ma la verità è che abbiamo iniziato a perderla molto tempo fa e ricominceremo a perderla non appena torneremo alla normalità.
È stata una sensazione confortante, un piacevole tepore, essere circondati da hashtag come #JesuisCharlie e vedere tutta quella gente nelle strade di Parigi a dire sì, stiamo combattendo spalla a spalla con il settimanale satirico francese per riaffermare l’importanza di poter dire a voce alta ciò che pensiamo, ciò in cui crediamo.
Nelle ore successive alla tragedia dei 12 morti, il mondo intero ha preso la direzione giusta, decisamente. Invece di barcollare e cedere a un odio ed una rabbia sbagliati, quasi tutti sono stati capaci di concentrarsi su un’idea di libertà di espressione e di parola e di dare una risposta adeguata agli assassini.
Eppure, sarà meglio restare concentrati. Meglio non pensare che questo sia abbastanza.
La libertà di espressione non è qualcosa che si perde in un giorno. Hanno ucciso dodici persone, li hanno resi dei martiri, ma non hanno potuto uccidere la libertà di espressione, perché quella è un’idea, e le idee sono “a prova di proiettile”, come disse qualcuno.
Quello che però può davvero uccidere un’idea è il tempo.
Mettiamola in questo modo, usando una metafora non troppo elegante: su una testa, la tragedia avvenuta a Parigi è una mano che strappa una ciocca intera di capelli, lasciando un gran buco e facendo un gran male. Il proprietario della testa si preoccuperà immediatamente di quel che è successo, e cercherà di porvi rimedio.
Ma se la stessa testa perde lentamente e continuamente capelli, diventando calva senza alcun apparente dolore, quell’uomo non noterà la calvizie finché non sarà troppo tardi. E a quel punto, che potrà fare?
Con la libertà di espressione è lo stesso. Questo attentato fa davvero male, ed è giusto che piangiamo i nostri morti e che gridiamo il nostro dolore, ma come la mettiamo con tutti gli attentati che, ogni giorno, la libertà di espressione subisce – perfino nelle nostre democrazie progressiste? Ogni attacco è un capello strappato via da quella testa.
Prendiamo due esempi.
Il primo è l’Italia. Il Bel paese, nel 2014, si è classificato al quarantanovesimo posto nella classifica mondiale per la libertà di espressione. Abbiamo cose come la Legge sulla Diffamazione, un ddl che le commissioni parlamentari di Camera e Senato stanno discutendo. Stefano Rodotà l'ha definita “un pericolo per la democrazia”, perché impedisce un sano sviluppo di nuove forme di giornalismo – come quello sul web – e minaccia i giornalisti con pesanti pene pecuniarie. Questa legge introdurrebbe il diritto di chiedere una completa rettifica (senza possibilità di replica da parte del giornalista) o la cancellazione di informazioni pubblicate, ignorando totalmente il diritto alla libertà di parola e il diritto ad una libera informazione.
Il secondo esempio è notizia di queste ore. Si tratta dell’attivista e blogger saudita Raif Badawi, condannato per apostasia a 10 anni di prigione e 1000 frustate. Badawi è stato il fondatore del forum online ‘Free Saudi Liberals’, attraverso il quale avrebbe insultato la propria religione e alcune autorità religiose. Non ha nemmeno avuto un equo processo - per capirci, anche il suo avvocato è in galera.
Oggi, dopo due anni di reclusione, Raif riceve le prime 50 delle 1000 frustate che gli spettano.
Quanti giornali si stanno preoccupando di seguire questa o altre storie che dimostrano quanto minacciata, provvisoria e indebolita sia la libertà di espressione?
Possiamo sentirci scusati oggi, perché c’è ancora un buco nei nostri capelli, un buco grande e che fa molto male. Ma non saremo scusati domani.