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Esistono davvero il “cervello maschile” e il “cervello femminile”?

27 Maggio 2024 12 min lettura

Esistono davvero il “cervello maschile” e il “cervello femminile”?

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I dati sulle donne che in Italia studiano o lavorano nei settori scientifici e tecnologici riflettono un ampio divario tra il genere maschile e quello femminile. A fronte di una media europea del 52,2% di donne che operano in questi settori, l’Italia si colloca agli ultimi posti con una percentuale che va dal 45 al 46%. Di queste, solo una parte lavora come scienziata o ingegnera. Su 100 donne laureate, poi, solo 16 ottengono un titolo di studio nelle cosiddette discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), contro 35 uomini su 100. Questo divario è stato spesso spiegato con una presunta differenza innata tra uomini e donne, in termini di abilità, predisposizioni e interessi, per cui le donne sarebbero meno portate e capaci ad approcciarsi alla razionalità che la scienza richiede. È stato anche il mondo della scienza, attraverso studi che oggi sono considerati controversi se non del tutto inattendibili, a giustificare questa disparità per genere, che non riguarda solo l’esclusione delle donne dalle discipline STEM, ma ogni aspetto della loro vita quotidiana.

Inferiori o complementari?

Per secoli, teorie mai comprovate di rinomati scienziati, studiosi e filosofi hanno sostenuto una chiara inferiorità intellettiva del sesso femminile rispetto a quello maschile. Già nell’antica Grecia si distingueva tra logos, l’intelligenza “alta e luminosa”, e metis, l’intelligenza “bassa”, concreta e frutto dell’esperienza, che si manifesta attraverso l’ideazione di inganni ed espedienti. Gli uomini possedevano entrambe le intelligenze, alle donne invece veniva riconosciuta solo la metis. Questa distinzione venne poi ripresa anche dal filosofo e religioso Tommaso d’Aquino, che considerava la donna come un essere mancato. Secondo il filosofo Jean-Jacques Rousseau, poi, la disparità dal punto di vista fisico e mentale tra uomini e donne imponeva un’educazione specifica sulla base del genere di appartenenza: non intellettuale ma piuttosto pratica e finalizzata al suo ruolo di madre e moglie era la scelta ideale per le donne.

Anche lo scienziato britannico Charles Darwin, che contribuì a cambiare il modo in cui guardiamo alla storia e all’evoluzione della specie umana, era convinto che le donne non fossero tanto intelligenti quanto gli uomini, e il solo fatto che i più importanti scrittori, artisti e scienziati fossero soprattutto uomini dimostrava la loro superiorità intellettiva. Piuttosto, non conveniva neppure che le donne aspirassero a un ruolo diverso rispetto a quello assegnato loro dalla biologia: ne avrebbero sofferto i figli e la serenità familiare, diceva il biologo e naturalista britannico. Darwin non è ovviamente il solo a pensarla in questo modo, ma riflette piuttosto il sentire comune: molti studiosi e scienziati dell’epoca consideravano le donne deboli, dipendenti per natura, e interessate principalmente a compiacere gli uomini e a essere mogli devote.

L’isolamento e lo studio degli ormoni sessuali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento offrirono poi a scienziati alla ricerca di differenze tra uomini e donne nuove basi su cui fondare gli stereotipi di genere: gli estrogeni, dicevano alcuni studi, rendevano le donne più remissive, meno razionali e più adatte alla vita casalinga, mentre il testosterone era la causa degli atteggiamenti più aggressivi e combattivi negli uomini. Una teoria, questa, poi contestata non appena si scoprì che entrambi i sessi presentano sia i cosiddetti ormoni femminili sia quelli maschili, e che i livelli ormonali possono anche cambiare in reazione a stimoli esterni, come attraverso l’assunzione di farmaci o la nutrizione; e soprattutto che gli ormoni non possono essere messi in relazione a comportamenti specifici.

Studi più accurati da un lato e il pensiero femminista e del movimento per i diritti delle donne dall’altro contribuirono a mettere in discussione le credenze per cui il sesso femminile fosse per natura meno intelligente e capace di quello maschile. Una parte del mondo scientifico però continuò comunque a indagare le differenze intellettive tra uomini e donne e a usare nuovi strumenti per provare a dare valenza scientifica alle discriminazioni di genere. L’introduzione del neuroimaging, ad esempio, insieme di tecniche che dagli anni Settanta ha permesso di studiare e mappare il cervello, costituì un momento di svolta nell’ambito delle neuroscienze. Oltre ai neuroni e alla cosiddetta sostanza o materia grigia, si capì infatti che un ruolo centrale è svolto anche dai prolungamenti delle cellule cerebrali: questi fasci di fibre nervose costituiscono la “sostanza bianca” e sono in grado di creare connessioni con parti del cervello più distanti e con il midollo spinale. 

Dai primi studi effettuati con le tecniche del neuroimaging, si arrivò a dedurre che gli uomini avessero più neuroni e le donne più connessioni. Una ricerca del 2014 rilevò poi che gli uomini avrebbero più connessioni all’interno dei due emisferi cerebrali mentre le donne avrebbero più connessioni tra gli emisferi. Questo, dicono i neuroscienziati e autori dello studio, avrebbe degli effetti sui comportamenti sulla base del sesso biologico, per cui gli uomini risponderebbero più in fretta agli stimoli mentre le donne avrebbero maggiori capacità verbali e sarebbero più intuitive. 

Se già questo studio aveva acceso un grande dibattito, il modo in cui è stato raccontato dagli autori stessi e dai media è andato anche oltre. La ricerca è stata infatti presentata come la prova scientifica di alcuni stereotipi di genere: lo studio e la mappatura del cervello davano finalmente una spiegazione alla presunta maggiore emotività, capacità di ascolto e di multitasking delle donne da un lato, e alla razionalità e velocità a muoversi nello spazio degli uomini dall’altro. Soprattutto, la scienza finalmente provava che le donne fossero migliori in tutte “quelle qualità che sono messe in relazione con l’essere buone madri”, disse la professoressa e coautrice dello studio Ragini Verma.

Era dunque cambiata la prospettiva e il modo in cui si guardava ai due sessi: non si parlava più di una struttura gerarchica, per cui le donne erano descritte come per natura inferiori agli uomini, ma di un rapporto di complementarietà. Uomini e donne erano sì diversi e antitetici per competenze e modo di pensare, ma si completavano a vicenda: le qualità intrinseche degli uomini colmavano le lacune delle donne e viceversa. Questi studi vennero poi contestati perché definiti non replicabili. Ovvero che, per quanto singolarmente potessero avere un certo significato, quando messi a confronto tra di loro e con campioni di dati più ampi le differenze risultavano statisticamente non significative.

L’empatia femminile e l’analisi maschile

Un’altra teoria tanto diffusa quanto controversa sulle differenze innate tra uomini e donne è quella creata dallo psicologo britannico Simon Baron-Cohen, conosciuta come la “teoria empatia-sistematizzazione”. Secondo lo psicologo britannico, infatti, il cervello “femminile” sarebbe programmato e predisposto all’empatia, mentre quello “maschile” sarebbe atto ad analizzare e costruire sistemi. La ragione di questa diversità risiederebbe nei livelli di esposizione al testosterone nell’utero: i feti maschili, essendo più esposti a questo ormone, risentirebbero molto di più della sua influenza rispetto a quelli femminili. 

Baron-Cohen sostiene che la scelta degli hobby sia una chiara dimostrazione di ciò: chi ha un cervello maschile, sostiene lo psicologo, dedica molte ore a sistemare macchine e veicoli, fotografare, giocare ai videogame o svolgere progetti manuali; chi ha un cervello femminile invece preferisce avere amici a cena, dare consigli relazionali, prendersi cura dei propri cari e degli animali domestici, fare volontariato. Non si tratterebbe dunque del frutto dell’educazione, della cultura e dei ruoli di genere, ma di cause biologiche. 

Per quanto Baron-Cohen ammetta una certa variabilità di caratteristiche “maschili” e “femminili” nei generi, sostiene anche che più donne che uomini avrebbero un cervello “femminile” e più uomini che donne avrebbero un cervello “maschile”. Da qui nacque anche la teoria del “cervello estremamente maschile”, per cui secondo Baron-Cohen le persone autistiche sarebbero meno empatiche e più predisposte alla sistematizzazione e all’analisi e presenterebbero dunque una versione estrema dei tratti tipicamente “maschili”. Questa ipotesi spiegherebbe anche la maggiore frequenza di diagnosi di autismo tra bambini che non tra bambine.

Se da un lato queste teorie hanno avuto un forte impatto soprattutto in ambito di ricerca e conoscenza dell’autismo, dall’altro gli studi e l’approccio di Baron-Cohen sono stati anche molto contestati. Ad esempio, ancora oggi è molto difficile misurare l’esposizione prenatale al testosterone, per cui individuarla come fattore principale di una teoria la rende di per sé inattendibile. Inoltre, non solo è incorretto parlare di scarsa empatia delle persone autistiche, ma il maggior numero di diagnosi tra maschi è piuttosto la conseguenza di una sottostima dell’autismo tra femmine. C’è inoltre un problema metodologico: uno degli studi che avrebbe dimostrato le differenze del cervello di uomini e donne venne condotto in un reparto maternità da Jennifer Connellan, all’epoca dottoranda del team di Baron-Cohen. A 102 neonati presenti in reparto venne mostrato il volto della stessa dottoranda dal vivo e in foto attraverso un dispositivo: l’obiettivo era comprendere cosa attirasse maggiormente la loro attenzione. I risultati non rilevarono grandi asimmetrie, ma poco più del 43% dei bambini maschi avrebbe guardato più a lungo il dispositivo e circa il 36% delle bambine avrebbe preferito il volto dal vivo. Da qui, si dedusse che i bambini avessero un maggiore interesse negli oggetti e aspetti meccanici, mentre le bambine nelle relazioni sociali. Successivamente si scoprì che la dottoranda fosse probabilmente a conoscenza del sesso dei neonati e in qualche modo li avesse influenzati, anche inconsciamente. La stessa ricercatrice, che allora aveva appena 22 anni e in seguito si definì “giovane e inesperta”, definì lo studio come “piuttosto rudimentale. Mi sembrava una specie di progetto da fiera della scienza”.

A ciò va aggiunto anche che questo studio non è stato poi replicato, mettendo ulteriormente in dubbio la validità delle sue conclusioni. La replicabilità di uno studio è infatti un elemento fondamentale per poter considerare i risultati come affidabili e attendibili. È ciò che è stato contestato ai primi studi con le tecniche del neuroimaging sulle presunte differenze cerebrali tra uomini e donne, ed è ciò su cui si basano anche le critiche a molte ricerche in ambito psicologico. La neuroscienziata e professoressa all’Università di Cambridge Marina Hines ha condotto vari studi per poter sostenere oggi che in media i bambini preferiscono giocare con trattori e macchinine mentre le bambine con le bambole. Hines ha spiegato che, mentre fino al primo anno di età non viene riscontrata alcuna differenza, è tra i 12 e i 24 mesi che i bambini iniziano a manifestare interesse verso i giochi considerati in linea con il loro genere. 

Anche in questo caso sono state sollevate alcune questioni, come la difficoltà di misurare l’influenza dell’educazione e della cultura circostante nei primi dodici mesi, e se ciò che i bambini esprimono da quel momento in poi sia frutto davvero di una loro preferenza o di ciò che hanno visto e dunque immagazzinato nei mesi precedenti. In ogni caso, qualora ci fosse davvero una maggiore preferenza per i giochi in linea con lo stereotipo di genere, questa non dimostrerebbe una disparità nelle capacità intellettive tra maschi e femmine: piuttosto è il valore che attribuiamo a ciò che è considerato tipicamente maschile o femminile a portarci a considerare una manifestazione di genere migliore o peggiore, superiore o inferiore. Piuttosto, vari studi, inclusi alcuni condotti dalla stessa Hines, hanno riscontrato differenze minime se non nulle tra i due sessi in ambiti come la visualizzazione dello spazio, la capacità di movimento, le abilità matematiche e la fluidità verbale. Anche il diverso peso del cervello tra sesso maschile e femminile (si parla di una differenza di circa l’11%) che è stato usato come prova delle diverse capacità degli uomini e delle donne non è attendibile: oggi sappiamo che le dimensioni del cervello sono in proporzione a quelle corporee, e che questo comunque non può essere messo in relazione con abilità, comportamenti o competenze.

La fallacia delle argomentazioni

Un aspetto che non sempre viene tenuto in considerazione in questi studi sulle presunte differenze intellettive è la plasticità cerebrale, e cioè la capacità del cervello di modificarsi sotto l’influenza di stimoli esterni. Per quanto minimi, questi cambiamenti dimostrano il valore che il contesto in cui viviamo, le competenze che sviluppiamo e le attività a cui ci dedichiamo hanno un impatto anche sul nostro cervello e le nostre attività cerebrali. Come spiegano ad esempio le studiose Maria Pia Abbracchio e Marilisa D’Amico nel loro saggio Donne nella scienza, l’intelligenza può svilupparsi “con l’esperienza e con lo studio”, per cui “tenere le ragazze lontane dagli studi” com’è stato fatto per secoli, “bastava già di per sé a renderle meno ‘intelligenti’, di fatto impedendo loro di sviluppare le proprie doti e le proprie attitudini naturali”. 

Per questo motivo risulta difficile definire “innate” alcune presunte differenze, come le capacità intellettive: per essere “innate” infatti dovrebbero essere in grado di resistere nel tempo a eventuali cambiamenti sistematici nell’ambiente circostante, e la plasticità cerebrale così come alcuni esperimenti e ricerche sui ruoli di genere non dimostrano questo. Inoltre, ogni persona è diversa così come diversi saranno i suoi comportamenti, e ciò è dovuto anche all’influenza dell’ambiente in cui vive e si muove: per queste ragioni, non si può sottovalutare il ruolo che la società, gli stereotipi di genere e l’ambiente in cui si cresce hanno sullo sviluppo di determinate capacità. A ciò va anche aggiunto che molte delle ricerche sulle differenze tra uomini e donne si basano sull’assunto errato che esistano solo due sessi e solo due generi, una rigida distinzione che non tiene conto ad esempio delle persone intersex e non binarie.

Oggi il mondo accademico e scientifico riconosce la differenza tra sesso e genere, e dunque anche il ruolo della società in cui viviamo nell’evoluzione delle nostre capacità, competenze e benessere psicofisico, ma non è comunque abbastanza per includere questa prospettiva nel discorso generale e superare la rigidità di certi ragionamenti. Come ha scritto la giornalista scientifica Angela Saini nel suo saggio Inferior, in cui analizza il sessismo nel mondo medico e scientifico, è più facile accettare prospettive che confermano lo stato attuale delle cose: “Ci piace giustificare il sistema sociale in cui ci troviamo. Se tutti intorno a noi pensano che le donne siano meno razionali o meno brave a parcheggiare, anche la più piccola informazione che rafforza questa supposizione verrà impressa nella nostra mente. Le ricerche che confermano ciò che sembra ovvio sembrano giuste. Tutto ciò che la contraddice, invece, viene liquidato come aberrante”.

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Se da un lato sono spesso i media a dare spazio a ricerche inattendibili per creare clamore e attirare l’attenzione del pubblico, dall’altro sono gli stessi studiosi e scienziati che nel corso del tempo hanno usato il metodo scientifico per giustificare discriminazioni e disparità. Oltre ai pregiudizi inconsci di cui tutti siamo vittime, Saini parla di un vero e proprio sessismo esplicito. “Nello spazio tra ciò che le prove dicono e ciò che significano, nel regno delle ipotesi, o a volte solo delle speculazioni, gli scienziati possono proiettare le loro supposizioni di parte. E se queste rafforzano gli stereotipi, queste teorie sessiste tendono a rimanere in piedi anche quando una grande quantità di prove le contraddice”, ha detto la giornalista britannica.

Negli anni il metodo scientifico è stato usato per giustificare le discriminazioni di genere, prima sostenendo che le donne fossero inferiori agli uomini, poi ricorrendo al principio di complementarietà, per cui per natura esistono luoghi e competenze più o meno adatti alle donne: l’ex preside dell’Università di Harvard Lawrence Summers, ad esempio, giustificò la carenza di donne nelle STEM con ragioni genetiche, sostenendo che già a scuola i ragazzi ottengono risultati migliori rispetto alle ragazze nelle discipline scientifiche proprio perché più portati.

Oggi possiamo dire con certezza che non esistono differenze di capacità e potenzialità sulla base del sesso biologico, ma piuttosto di opportunità di cui si ha il privilegio di godere o meno. Al tempo stesso, è necessario comunque continuare a indagare il modo in cui il sesso tanto quanto il genere influiscono sulla vita delle persone. Questo vuol dire ad esempio investire nello studio di patologie più diffuse tra le donne, come la demenza di Alzheimer, e non sottovalutare aspetti importanti della vita delle persone con utero: alcune ricerche recenti avrebbero rilevato che i cambiamenti ormonali dovuti al ciclo mestruale hanno un impatto sul cervello. Per quanto non se ne conoscano ancora le implicazioni, la professoressa e co-autrice di uno di questi studi Julia Sacher ha sottolineato la carenza di questo tipo di indagini e ha aggiunto: “Siamo intenzionati a colmare questa importante lacuna nella ricerca”.

Entrando “in questa nuova era”, ha scritto però Angela Saini, “gli scienziati devono fare attenzione. La ricerca sulle differenze di sesso ha una storia spiacevole e pericolosa. [...] Per quanto possa migliorare la comprensione, ha anche il potenziale di danneggiare il modo in cui vediamo le donne”. Il problema dunque è piuttosto cosa si vuole ottenere con queste ricerche. L’obiettivo non dovrebbe essere quello di selezionare accuratamente dati per sostenere le proprie ipotesi e cercare nella scienza le ragioni delle disparità, ma piuttosto usare le conoscenze e le scoperte per migliorare la qualità della vita di tutte e tutti, a prescindere dal genere e dal sesso biologico.

Immagine in anteprima: frame video BBC

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