La centrale di Zaporižžja e il rischio di un incidente nucleare
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Sono state settimane intense nei dintorni di Zaporižžja. A partire dal 20 giugno, l’intelligence ucraina ha riferito in più occasioni circa un presunto piano russo per un attacco nucleare, aggiungendo di aver rilevato una smobilitazione dei rappresentanti dell’agenzia nucleare russa Rosatom e una diminuzione dei pattugliamenti, mentre il personale ucraino della centrale sarebbe stato invitato a trasferirsi altrove entro la prima settimana di luglio.
Mercoledì 5 luglio, il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha inoltre affermato che vi sarebbero degli oggetti dall’aspetto simile a esplosivi sul tetto di alcune unità del sito nucleare e nei pressi del bacino di raffreddamento, uno stagno artificiale da cui la centrale trae l’acqua per raffreddare il combustibile. Dall’altra parte, numerose testate hanno riportato le dichiarazioni del consigliere di una società sussidiaria della Rosatom, Renat Karčaa, rilasciate al canale televisivo Rossiya 24, secondo le quali l’esercito ucraino si stava preparando ad attaccare la centrale con munizioni imbottite di rifiuti radioattivi nella notte del 5 luglio: nessuna prova di queste affermazioni è stata fornita.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), che da settembre ha un contingente di due esperti sul sito, ha dichiarato di non aver rilevato alcuna evidenza dell’esistenza di ordigni esplosivi, e di non aver osservato movimentazioni particolari dell’esercito russo stanziato presso la centrale; ma ha anche aggiunto che per averne completa sicurezza sarebbe stato necessario garantire al proprio personale l’accesso ai tetti dei reattori 3 e 4 e ad alcuni locali delle sale turbine e del sistema di raffreddamento della centrale.
Prima del conflitto, la centrale nucleare di Zaporižžja forniva poco meno della metà della potenza elettrica di origine nucleare dell’Ucraina e circa il 20% dell’energia elettrica totale prodotta dal paese. Non stupisce, dunque, dal punto di vista strategico, la sua occupazione da parte delle truppe russe tra il 3 e il 4 marzo del 2022, con l’obiettivo di controllare la fornitura energetica di un’ampia porzione territoriale del paese. Il video della battaglia, ripreso dalle telecamere di sorveglianza, fece il giro del mondo: nonostante nessuna delle strutture essenziali per la sicurezza della centrale avesse subito danni, un incendio era scoppiato in un centro di addestramento periferico, e il proseguire dei bombardamenti aveva inizialmente impedito di spegnerlo.
Si è trattato di una circostanza senza precedenti: era la prima volta che un impianto nucleare in piena attività si trovava in una zona interessata da un conflitto armato e sotto il controllo delle truppe di occupazione. Nel corso dei mesi successivi, la centrale è stata coinvolta in diversi scontri e attacchi; dei quali le autorità dei paesi coinvolti si sono rinfacciate a vicenda le responsabilità. Fino a questo momento, il rischio di un incidente catastrofico è sempre rimasto molto remoto, ma il sito della centrale ha subito una serie di danni e disservizi che hanno destato la preoccupazione dell’AIEA (e non solo).
All’inizio della guerra, per far fronte al nuovo tipo di rischio, l’Agenzia ha stipulato i cosiddetti sette pilastri da seguire per garantire che l’operatività di una centrale nucleare in una zona di guerra si svolga in piena sicurezza. I pilastri affermano che l’integrità fisica di tutte le strutture della centrale deve essere mantenuta; i sistemi di sicurezza e di monitoraggio radiologico devono essere funzionanti in modo continuativo; lo staff della centrale deve essere nelle condizioni di condurre le proprie attività e di prendere decisioni in autonomia, senza ingerenze indebite; deve essere garantita la fornitura di energia dall’esterno per tutte le strutture, così come la continuità nei trasporti e nelle forniture di materiale e strumenti da e per la centrale; deve essere predisposto un sistema di risposta all’eventuale crisi; e devono essere garantite comunicazioni regolari con gli enti regolatori, come appunto l’AIEA o l’agenzia di stato nucleare ucraina, l’Energoatom.
In seguito, nel corso del briefing tenutosi lo scorso 30 maggio con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Direttore Generale dell’agenzia, Rafael Mariano Grossi, ha sintetizzato le azioni concrete da intraprendere per rispettare i sette pilastri, insistendo soprattutto sulla necessità di considerare i siti nucleari come zone franche, astenendosi dalle azioni di guerra nelle loro vicinanze, evitando di usarle come base di stoccaggio per armi pesanti o quartier generale di truppe armate con cui lanciare un attacco, e facendo tutto il possibile per garantire il mantenimento continuo della fornitura elettrica esterna. Quest’ultimo punto in particolare, insieme alla disponibilità d’acqua, è cruciale ai fini della sicurezza della centrale.
Di cosa parliamo in questo articolo:
L’impianto
La centrale nucleare di Zaporižžja è quella più vicina alle regioni del Donbas, ragion per cui nel corso della guerra del 2014 è stata oggetto di un tentativo di intrusione da parte di militanti del gruppo di estrema destra Pravij sektor. Allacciata alla rete elettrica tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, contiene sei reattori del tipo VVER-1000, molto simili alle configurazioni ad acqua leggera pressurizzata che costituiscono il modello predominante di reattore nucleare utilizzato nel mondo. In questa configurazione, la fissione nucleare controllata nelle barre di combustibile produce una gran quantità di calore, che viene asportato dal fluido di raffreddamento (l’acqua) e utilizzato per convertire altra acqua in vapore ad altissima pressione, il quale aziona le turbine dell’alternatore per generare energia elettrica. Per evitare il surriscaldamento delle barre di combustibile, l’acqua viene fatta circolare attivamente da una serie di pompe elettriche nel circuito del reattore.
Coi suoi sei reattori da 950 megawatt di potenza elettrica generata, Zaporižžja è la centrale nucleare più grande in Europa e la nona più grande tra quelle attive nel mondo per potenza installata. Oltre ai reattori, vi sono delle una piscina di stoccaggio contenente acqua, dove le barre di combustibile esausto (dal quale non si può più estrarre energia in modo efficiente) sono mantenute per un periodo minimo di cinque anni in modo da permettere il loro raffreddamento e il decadimento dei prodotti di fissione più radioattivi. Dopodiché, il combustibile viene trasferito nei dry cask all’esterno della centrale, dei cilindri ad altissima resistenza raffreddati ad aria dove le barre rimangono per circa cinquant’anni almeno.
Nel corso degli oltre 500 giorni di conflitto a oggi, si sono verificate numerose violazioni più o meno severe dei principi di salvaguardia dell’AIEA. Le comunicazioni con l’ispettorato nucleare ucraino si sono svolte in modo frammentario, complicando così l’eventuale coordinamento di un’operazione di emergenza. Sebbene non vi siano mai stati pericoli gravi e imminenti per la tenuta dei reattori, le azioni militari hanno causato danneggiamenti di varie apparecchiature (come il sistema di lubrificazione delle turbine, di trattamento chimico delle acque reflue o di monitoraggio radiologico sul sito) e infrastrutture (tetti, muri, finestre, strade, gallerie di collegamento). Munizioni e veicoli da combattimento hanno stazionato entro il perimetro della centrale, ponendo un rischio per la sua integrità. Soprattutto, le linee elettriche di alimentazione esterna della centrale sono state danneggiate più volte dalle operazioni militari, con conseguente interruzione della fornitura elettrica che ha fatto scattare in diverse occasioni i sistemi di emergenza della centrale.
Dopo aver finalmente ricevuto il via libera per accedere alla centrale, la delegazione dell’AIEA in visita alla centrale ha inoltre riferito difficoltà nell’approvvigionamento di parti di ricambio per la manutenzione ordinaria e di diesel per i generatori di emergenza. Inoltre, la presenza di un gruppo di specialisti della Rosatom che affiancano il personale ucraino della centrale, esigendo rapporti quotidiani sulla gestione della centrale, rappresenta una pressione indebita che mina l’autonomia decisionale dello staff, generando prevedibili attriti e tensioni. Due esperti dell’AIEA sono rimasti in via permanente nel sito della centrale per riferire direttamente all’agenzia che ha inviato altre delegazioni nel corso dei mesi successivi per assicurarsi, tra le altre cose, che le rotazioni del personale avvenissero con regolarità.
La situazione complessiva della centrale rimane comunque problematica: con la controffensiva ucraina c’è stato un intensificarsi delle azioni militari in zone calde come, appunto, quella di Zaporižžja, aumentando così i rischi di ulteriori danneggiamenti alle strutture della centrale e le minacce alla sicurezza del personale. Il personale per le operazioni di manutenzione ordinaria è ridotto all’osso, il che comporta una serie di inconvenienti che peggiorano la qualità del lavoro degli operatori rimasti. A complicare le cose, la distruzione della diga di Kakhovka sul fiume Dnepr, avvenuta il 6 giugno del 2023, ha abbassato i livelli dell’acqua nel serbatoio da cui la centrale trae l’acqua per il proprio bacino di raffreddamento.
In seguito alle numerose interruzioni della fornitura elettrica esterna, Energoatom ha deciso di contenere il rischio dapprima abbassando la potenza dei reattori, e poi spegnendoli del tutto l’11 settembre 2022. Oggi, i sei reattori sono in quello che si definisce cold shutdown: uno stato in cui la quantità di acqua richiesta per evitare il surriscaldamento delle barre è molto più bassa rispetto a quello di un reattore in piena operatività e, aspetto non secondario in carenza di personale, il lavoro degli operatori della centrale è molto meno intensivo. Attualmente, la centrale dispone di una riserva d’acqua sufficiente a garantire il raffreddamento per diversi mesi; ma mentre i reattori si trovano all’interno di strutture di contenimento estremamente robuste, che possono essere danneggiate soltanto con missili antibunker, il bacino di raffreddamento è più vulnerabile ai bombardamenti che potrebbero pregiudicarne l’integrità.
I rischi per Zaporižžja: il raffreddamento
La centrale è collegata alla rete elettrica da quattro diverse linee, più una di riserva, che normalmente trasportano l’energia elettrica prodotta alla centrale alla rete ucraina. Quando la centrale non produce elettricità, queste linee servono per fornire l’energia necessaria al raffreddamento del reattore e delle piscine di combustibile esausto. Infatti, anche quando la fissione è interrotta e il reattore non produce più energia, le barre continuano a emettere calore residuo a causa del decadimento radioattivo degli elementi prodotti nel corso della fissione. Lo stesso vale per le piscine di raffreddamento, dato che il combustibile rimane molto caldo per parecchi anni.
Nel caso in cui l’elettricità venga a mancare del tutto, entrano in gioco una serie di sistemi di sicurezza simili a quelli dei reattori ad acqua pressurizzata, presenti in molteplici copie per ovviare a possibili guasti e manutenzioni. Tra questi vi sono anche dei sistemi di circolazione passiva, che non necessitano di energia elettrica, e i generatori diesel, se la corrente dovesse venire a mancare del tutto, sono in grado di fornire l’energia necessaria a far circolare l’acqua di raffreddamento per circa una settimana. Ammettendo che tutto questo fallisca, si prospetta lo scenario forse più temuto per un reattore nucleare: quello in cui le barre di combustibile rimangono scoperte e fondono, creando una massa semifluida estremamente calda e radioattiva detta corium, che tende ad accumularsi in basso. La rapidità con cui questo avviene dipende da molti fattori, di cui a titolo non esaustivo si possono citare la potenza a cui stava lavorando il reattore in quel momento, l’efficienza dei sistemi attivi e passivi di sicurezza e la prontezza degli interventi esterni.
Non è detto che la fusione (meltdown) del nocciolo si traduca automaticamente in una dispersione radioattiva all’esterno: il combustibile nucleare si trova all’interno di una serie di livelli di protezione, tra cui il vessel, recipiente d’acciaio in pressione che contiene le barre, a sua volta contenuto in una struttura esterna con pareti di cemento armato spesse più di un metro e mezzo, progettate specificamente per resistere a urti, esplosioni e pressioni molto alte. Anche nel caso in cui il corium perfori il recipiente, nel tempo sono stati messi a punto una serie di interventi per contenerlo e refrigerarlo e condensare i vapori radioattivi riducendo di gran lunga la frazione che viene dispersa nell’ambiente.
Nelle piscine di raffreddamento, se il ricircolo d’acqua dovesse essere insufficiente, le barre di combustibile possono ossidarsi, fondere e liberare anch’esse sostanze radioattive. Va tuttavia ricordato che, nel corso del disastro di Fukushima, delle barre di combustibile estratte da poco dal reattore (e quindi ancora molto calde) sono rimaste in una piscina priva di sistemi di raffreddamento per molte ore senza che questo si verificasse. E citando Fukushima, sono inevitabili i paragoni con gli incidenti passati, che infatti non sono mancati.
Per esempio, il 4 marzo 2022 il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba aveva affermato in un tweet che un incidente a Zaporižžja avrebbe avuto conseguenze paragonabili a quelle di dieci disastri di Černobyl’. Tuttavia, è ormai evidente che, anche nel caso peggiore immaginabile, non si può neanche alla lontana confrontare lo scenario derivante da un eventuale incidente nucleare a Zaporižžja con quanto successo a Černobyl’ 37 anni fa. La centrale nucleare di Černobyl’ era infatti dotata di sistemi di sicurezza molto meno efficaci, alcuni dei quali con difetti critici di progettazione, e soffriva di problemi di instabilità intrinseca che si manifestavano in particolari regimi di operazione. Soprattutto, il nocciolo del reattore di Černobyl conteneva grafite, un materiale altamente infiammabile, con la funzione di massimizzare l’efficacia della fissione: fu l’incendio prolungato della grafite, insieme alla mancanza di una struttura di contenimento esterna, a causare una dispersione atmosferica così alta ed estesa di materiale radioattivo. Nei reattori VVER come quelli di Zaporižžja, la funzione della grafite è svolta dalla stessa acqua che funge da refrigerante e non vi sono materiali infiammabili negli edifici dei reattori.
Si è detto, l’anno scorso, che un eventuale incidente da perdita di refrigerazione sarebbe stato più simile a quanto successo a Fukushima; oggi però le condizioni per questa similitudine sono venute a mancare. I reattori a Fukushima furono infatti spenti meno di un’ora prima che lo tsunami causasse il malfunzionamento del sistema del raffreddamento di emergenza, e quindi erano molto più caldi e radioattivi. I reattori di Zaporižžja, come abbiamo detto, sono spenti ormai da mesi: la maggior parte dei prodotti di fissione ad alta radioattività, che sono anche quelli a vita media più breve (come lo iodio-131) sono decaduti, abbattendo considerevolmente la temperatura del combustibile. Aggiungiamoci che, per quanto critica, la situazione a Zaporižžja permette ancora di mantenere un certo controllo sugli eventi, ed esiste un margine temporale di intervento per mitigare o evitare del tutto conseguenze esterne alla centrale.
Il rischio di dispersione radiologica
Una dispersione radioattiva al di fuori della centrale di Zaporižžja si può dunque escludere con certezza? La risposta è no, anche se bisogna chiamare in causa eventi abbastanza improbabili. Per esempio i dry cask, che conservano le barre di combustibile esausto all’esterno delle strutture di contenimento, sono stati testati in numerose occasioni e sono in grado di sostenere esplosioni e impatti singoli di considerevole entità, ma per ovvie ragioni non è mai stata condotta una sperimentazione per vedere che succederebbe in caso di raffiche di artiglieria e bombardamenti prolungati, che anche senza distruggerli potrebbero compromettere l’integrità strutturale di cask pieni e “caldi”; e un discorso simile si potrebbe fare per le stesse strutture di contenimento che custodiscono i reattori e le piscine di raffreddamento, queste ultime non protette dal vessel. In caso poi di danneggiamento del vessel, un’azione di sabotaggio che aprisse i sistemi di ventilazione della struttura di contenimento potrebbe rilasciare vapori radioattivi all’esterno.
D’altro canto, tutti questi scenari presupporrebbero un’azione deliberata contro la centrale, che per il momento, al di là delle dichiarazioni delle parti coinvolte, non sembra convenire a nessuno. Più problematici sono gli eventuali esiti di azioni non intenzionali: per esempio, se il livello del serbatoio d’acqua di Kakhovka si abbassa troppo, la tenuta del bacino di raffreddamento della centrale potrebbe essere a rischio. Come abbiamo visto, la disponibilità di acqua è cruciale perché i sistemi di emergenza funzionino; nel caso di danni al bacino, la perdita d’acqua potrebbe essere compensata pompando direttamente dal fiume Dnepr, ma questa procedura non standard potrebbe essere resa difficile dalla scarsità di personale disponibile sul sito.
È comunque importante valutare se un’eventuale dispersione radiologica possa raggiungere livelli pericolosi per la salute umana. Le analisi dei worst case scenario condotte dall’American Nuclear Society sembrano escludere che nelle attuali condizioni dei reattori si possa verificare una contaminazione significativa, specialmente a grandi distanze dall’impianto. Anche se, come afferma l’intelligence ucraina, ci fosse un piano russo per minare parti della centrale, la diffusione di sostanze radioattive tramite esplosivi non è un espediente efficace; non a caso le cosiddette “bombe sporche” (esplosivi con aggiunta di materiale radioattivo) ricevono una scarsissima considerazione come potenziale arma terroristica, nonostante il materiale sia più facilmente reperibile di quanto sembri.
Questo naturalmente non significa che vada tutto bene. Siamo molto lontani dalle condizioni di funzionamento standard della centrale e la dispersione radiologica non va presa come problema a sé, quanto come uno dei molteplici elementi di incertezza che vanno a impattare sul benessere complessivo delle persone coinvolte – operatori della centrale, staff tecnico e di supporto, popolazione circostante. Popolazione già molto provata dal prolungato stato di guerra e dai disagi causati dal collasso della diga che ha lasciato senza acqua corrente 700.000 persone nel bacino del Dnepr. Le città situate nei pressi della centrale, come Nikopol ed Enerhodar, sono già state parzialmente evacuate, soprattutto a causa del protrarsi degli scontri, che hanno fatto centinaia di vittime nella regione.
Dall’inizio del conflitto, i portavoce ucraini hanno prospettato il rischio di un disastro dalle proporzioni apocalittiche, con conseguenze sull’Europa intera, ingigantendo la portata delle conseguenze di un eventuale incidente a Zaporižžja. Dichiarazioni di questo tipo, però, pur motivate dall’obiettivo di tenere alto l’interesse e sollecitare, probabilmente, un intervento dei paesi NATO, rischiano di suscitare panico e disordini nel momento in cui si verificasse effettivamente una dispersione radiologica e si decidesse, per precauzione, di sgomberare l’area.
In questo contesto, è importante che tutti si tengano preparati. Le esercitazioni in caso di crisi radiologica e le prove di evacuazione, a cui continuano a partecipare le forze dell’ordine, i soccorritori e i cittadini, non solo sono un modo importante di riprendere in parte il controllo sulla situazione, ma possono fare molta differenza rispetto al caso di Fukushima, dove si ritiene che l’evacuazione scriteriata delle zone interessate dalla dispersione radiologica, rivelatasi poi inferiore a quanto temuto, possa essere responsabile di centinaia o migliaia di morti e di un trauma psicosociale tuttora non risolto.
Immagine in anteprima: Ralf1969, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons