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Basta disinformazione su uso dei cellulari e salute mentale dei più giovani. Ecco cosa dice la ricerca scientifica

16 Novembre 2019 10 min lettura

Basta disinformazione su uso dei cellulari e salute mentale dei più giovani. Ecco cosa dice la ricerca scientifica

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Ancora in questo caldo autunno capita di trovare notizie in cui all’uso dei telefonini e delle nuove tecnologie da parte dei più giovani sono associate parole quali “allarme”, “malattie”, “schiavitù”, “disintossicazione”, “divieto”.

Si tratta ormai di vera e propria disinformazione che ha una rapida presa sul pubblico di famiglie, insegnanti e professionisti e ha per conseguenze l’arbitrarietà delle azioni correttive attuate, la vendita di prodotti e pacchetti che promettono cure e il deterioramento della comunicazione tra generazioni.

Il meccanismo, nella sua ripetitività, denota il mancato aggiornamento scientifico degli autori dei proclami, la pubblicizzazione di soluzioni ingannevoli con più o meno diretti conflitti d’interesse non dichiarati e la manifestazione concreta del divario digitale intergenerazionale.

Se di disinformazione si tratta, non sorprende che manchino totalmente di copertura mediatica i risultati degli studi più recenti che dimostrano gli effetti positivi delle nuove tecnologie e soprattutto affrontano l’argomento con un metodo rigoroso che rifiuta le semplificazioni e ne analizza la complessità.

Ad esempio, solo un articolo ha parlato dello studio che “smentisce la teoria che stare sui display digitali crei problemi di salute mentale ai giovani”. L’articolo faceva riferimento alla ricerca collaborativa condotta da Michaeline Jensen, Candice Odgers e altri coautori, pubblicata sulla rivista scientifica Psychological Science, che difatti smontava l’associazione tra salute mentale e uso delle tecnologie digitali.

L’autrice e i co-autori hanno preso come riferimento i dati di un’indagine condotta nelle scuole pubbliche della North Carolina, negli Stati Uniti, su 2104 bambine/i e ragazze/i di età compresa tra 9 e 15 anni, di diversa origine ed estrazione economica, che frequentavano dal 5° (V primaria) all’8° anno di scuola (III media). L'indagine presa come riferimento dalle ricercatrici,  svolta nel 2015 (T1), esplorava attraverso una serie di questionari il malessere psicologico, i problemi di comportamento e il rischio di un disturbo da deficit di attenzione e iperattività e, attraverso altri questionari, l’uso quotidiano di tecnologie digitali. Tra il 2016 e il 2017 (T2), 388 di quegli adolescenti hanno partecipato allo studio che prevedeva per 14 giorni la registrazione quotidiana delle varie attività effettivamente svolte, dell’uso delle tecnologie digitali, dei comportamenti e dell’umore. Attraverso queste due serie di dati (T1 e T2) le autrici hanno potuto studiare sia la relazione attuale tra uso delle tecnologie e benessere psicologico sia quella nel tempo (longitudinale), con il confronto tra le variabili di circa due anni prima e quelle attuali, su uno stesso sottogruppo di adolescenti.

I risultati longitudinali hanno dimostrato che la frequenza d’uso dei cellulari e delle reti sociali digitali riferita nel 2015 non influenzava i sintomi depressivi, le preoccupazioni, i sintomi di disattenzione e iperattività riportati 1-2 anni dopo. Inoltre, i risultati sulle attività quotidiane dimostrano che anche quando gli adolescenti riferivano un maggiore uso dei dispositivi digitali non riportavano maggiori problemi comportamentali, sintomi di disattenzione e iperattività, né più frequenti preoccupazioni o sintomi depressivi.

Non solo l’uso delle tecnologie digitali non si associa nel momento attuale a un malessere psicologico (non c’è correlazione) ma, come avevano dimostrato altre ricerche longitudinali precedenti, l’uso di dispositivi digitali in un dato periodo non espone al rischio di disturbi mentali negli anni successivi (non c’è un rapporto di causa-effetto). Inoltre, approfondendo alcune analisi sul tipo di uso dei dispositivi, le autrici hanno osservato che chi usava di più la messaggistica, tendeva a riportare meno sintomi depressivi. In media, nel campione considerato, bambine/i e adolescenti usavano i dispositivi per circa 4 ore al giorno.

Quando si parla di uso problematico dei dispositivi digitali?

Le diverse ricerche hanno dimostrato che, in generale, per i vari dispositivi (telefonini, computer, videogiochi) un tempo di esposizione intorno alle 4 ore al giorno (con lievi variazioni tra giorni feriali e fine settimana) rappresenta un uso moderato e si configura come quello ottimale nel fornire i vantaggi delle nuove tecnologie senza essere intrinsecamente dannoso.

L’uso limitato (tra 1 o 2 ore al giorno) o nullo restringe l’accesso ai benefici delle nuove tecnologie, come l’acquisizione di conoscenze e le interazioni sociali. L’uso eccessivo può portare a una riduzione delle altre attività (come quelle didattiche e sportive) e al rischio di effetti negativi. In ogni caso, a quest’ultimo è possibile riferirsi come “uso problematico” dei dispositivi se si vogliono informare i cittadini in modo consapevole e responsabile. Parlare di “dipendenza”, come purtroppo fa anche Save the Children, definendo in modo vago di cosa si tratti, è limitarsi a fare allarmismo.

Leggi anche >> La dipendenza dei giovani dai cellulari è un allarme fondato?

Per rispondere alla domanda su cosa s’intenda per uso eccessivo dei dispositivi digitali, Przybylski, Orben e Weinstein hanno aggiunto un altro studio fondamentale alla loro serie basata su solidi metodi statistici, su campioni molto numerosi e sull’interpretazione critica dei risultati.

Nell’introduzione al loro articolo di qualche settimana fa, invitano innanzi tutto a essere cauti nel dare limitazioni all’uso dei dispositivi. In particolare, fanno riferimento alla regola “2x2” introdotta dal Consiglio di Comunicazioni e Media dell’Accademia Americana dei Pediatri nel 2011, secondo la quale i bambini fino a due anni non devono essere esposti ai dispositivi digitali, mentre i bambini con più di due anni devono essere esposti per non più di due ore al giorno. Questa regola ancora sopravvive, assieme ad altre più articolate, ma gli studi fatti per verificare se fosse valida non hanno affatto dimostrato la sua fondatezza.

C’è da aggiungere, è ormai praticamente impossibile impedire a una famiglia di usare i dispositivi elettronici con i più piccoli, considerati i numerosi vantaggi del tenerli impegnati per qualche ora.

Gli autori ricordano che, nel tempo, si sono avvicendate, oltre alle raccomandazioni orarie, sia indicazioni sulla qualità dei contenuti predisposti sui dispositivi digitali di bambine/i e ragazze/i, sia interventi più drastici come la legge coreana del 2011 che spegneva i videogiochi online da mezzanotte alle 6 del mattino agli adolescenti, allo scopo di ridurne la dipendenza e migliorare il sonno notturno. Tale legge è rimasta in vigore per 6 anni, fino a che la ricerca scientifica non ne ha dimostrato l’infondatezza e il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Ci sono state anche misure più drastiche come l’inserimento, sulla base di diagnosi approssimative, in comunità di recupero che producono più effetti collaterali che benefici.

Ma perché si chiedono Przybylski e le due coautrici, in assenza di risultati scientifici certi si forniscono raccomandazioni restrittive a famiglie, legislatori, insegnanti e professionisti della salute?

L’obiettivo della ricerca era analizzare rigorosamente l’associazione tra tempo d’uso dei dispositivi e stato psicosociale di bambine/i e ragazze/i per quantificarla, ossia identificare a quale ampiezza un effetto statistico possa produrre un impatto nella vita reale. In altre parole, lo scopo era capire come un coefficiente statistico si possa tradurre in un effetto nella realtà. In tal modo, lo studio si rivolge proprio ai clinici e agli scienziati che parlano di effetti negativi dell’uso dei dispositivi digitali ancor prima di avere delle prove scientifiche almeno sufficienti.

Prendendo come riferimento l’Indagine Nazionale sulla Salute dei Bambini condotta negli Stati Uniti nel 2016, gli autori hanno selezionato un campione rappresentativo composto da più di 35.000 famiglie con bambine/i o adolescenti dai 6 mesi ai 17 anni. I genitori erano chiamati a rispondere alle domande di un questionario relative allo stato psicosociale, all’uso della TV e dei dispositivi digitali.  Nel questionario erano anche previste domande che permettevano di esplorare alcuni fattori di controllo individuali (come il supporto sociale e la salute del bambino), familiari (come l’istruzione e lo stato socioeconomico) e della comunità (come le caratteristiche del vicinato e la presenza di spazi per il gioco all’aperto), potenzialmente determinanti nel far emergere situazioni di disagio rispetto all’uso dei dispositivi.

I risultati ottenuti da Przybylski, Orben e Weinstein dimostrano che le associazioni tra esposizione a televisione/dispositivi digitali e stato psicosociale può essere descritta come una parabolica: in media, chi è esposto per 1 ora e 2 minuti alla TV e per 1 ora e 19 minuti ai dispositivi mostra un lieve beneficio psicosociale rispetto a chi non usa nessuno dei due. Gli effetti negativi si evidenziano soltanto dopo un’esposizione notevolmente prolungata.

Su basi empiriche, i ricercatori hanno identificato che circa 4 ore e 40 minuti davanti alla televisione e circa 5 ore e 8 minuti di fronte ai dispositivi digitali sono i livelli di esposizione quotidiana necessari per osservare una differenza soggettiva nel funzionamento psicosociale, cioè che producono un cambiamento descritto come negativo dai genitori.

Il fatto che il genitore abbia indicato nel giorno successivo a queste prolungate esposizioni un cambiamento negativo nel funzionamento psicosociale del/la propria/o figlio/a non va interpretato come clinicamente rilevante. Affinché si osservi un effetto clinicamente significativo con manifestazioni che devono essere esaminate e interpretate dagli specialisti è necessaria un’esposizione ancora più prolungata e che si protragga per diversi mesi.

Difatti, l’uso eccessivo o problematico dei dispositivi non determina direttamente un disturbo clinicamente rilevante che debba essere curato dagli specialisti (questo accade in una percentuale di poche unità di casi) ma può rappresentare un segnale di altre difficoltà vissute nei contesti scolastico, familiare e sociale e che vanno ascoltate o ricercate.

Dispositivi digitali e sviluppo cognitivo

Uno studio longitudinale pubblicato all’inizio di quest’anno su JAMA Pediatrics, una rivista scientifica che si distingue per una tendenza all’allarmismo, ha evidenziato che la maggiore esposizione ai dispositivi digitali durante l’infanzia si associa a punteggi inferiori alle scale che misurano lo sviluppo cognitivo negli anni successivi. I dispositivi  quindi rallenterebbero lo sviluppo cognitivo stando a questi risultati. In particolare, Sheril Madigan e i suoi collaboratori hanno intervistato le madri di oltre 2.400 bambine/i, quando avevano 2 anni, 3 anni e 5 anni (non tutte avevano completato i questionari a tutte le età) attraverso un questionario che comprendeva domande sulle tappe di sviluppo cognitivo e motorio e sul tempo di esposizione settimanale alla televisione e ai dispositivi digitali.

L’autrice ha osservato che i tempi medi di esposizione quotidiana a 2 anni erano di 2.4 ore, a 3 anni di 3.6 ore e 1.6 ore a 5 anni. Analizzando il tempo di esposizione assieme ai punteggi alla scala indiretta di sviluppo cognitivo è risultata una correlazione negativa, a dimostrazione che i/le bambini/e che passavano più ore davanti agli schermi avevano un successivo svantaggio nello sviluppo cognitivo. Questo svantaggio è identificato con specifici coefficienti standardizzati per i quali un aumento del tempo di esposizione a 2 anni è associato a una diminuzione nel punteggio al questionario di sviluppo cognitivo a 3 anni e a 5 anni. 

Ma, interpretando tale dato puramente statistico in modo da riportarlo alla realtà – come non fanno gli autori dello studio ma fanno invece Ava Guez e Franck Ramus – si dovrebbe aumentare l’esposizione ai dispositivi di più di 6 ore al giorno a 2 anni e di più di 8 ore a 3 anni per arrivare a un impatto di oltre 4 punti sul quoziente di sviluppo cognitivo: nemmeno nelle giornate più difficili una famiglia riuscirebbe ad arrivare a tanto!

Questo è il rischio che si corre a soffermarsi solo sui coefficienti di correlazione statistica, senza formulare un’interpretazione concreta dei dati nel loro contesto: diffondere raccomandazioni non supportate dall’analisi critica dei dati scientifici. 

È accaduto di nuovo pochi giorni fa e ancora sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics, che ha pubblicato uno studio condotto da Hutton e collaboratori, secondo i quali il maggior tempo di esposizione ai dispositivi digitali produce dei danni microstrutturali al cervello. Questa conclusione è stata riportata con clamore su diversi media ma si basa su una correlazione, quindi su una semplice associazione tra due fattori che non è sufficiente a stabilire se uno causi l’altro. In secondo luogo, uno studio così complesso è stato condotto solo su 47 bambini di strati socioeconomici elevati e con il 78% di mamme laureate: un campione limitato e poco rappresentativo della popolazione prescolare. In terzo luogo, il tempo di esposizione ai dispositivi non è stato dettagliato e non è stato separato dall’uso della TV. Infine, i bambini non presentavano alcuna difficoltà di linguaggio, anzi in alcuni casi il loro vocabolario era sopra la media: non c’era quindi un impatto negativo della riduzione nella connettività della sostanza bianca cerebrale. Questo dato rimane quindi isolato e tutto ancora da dimostrare.

Altre ricerche, condotte nel Regno Unito nell’ambito del progetto TABLET, hanno identificato sia benefici dell’uso precoce di dispositivi touchscreen sullo sviluppo motorio, sia un effetto negativo sul sonno (in media 15,6 minuti in meno di sonno ma nessun effetto sul numero di risvegli notturni). I ricercatori hanno anche osservato una tendenza dei genitori a sopravvalutare i benefici educativi dell’uso dei dispositivi digitali nei bambini più piccoli e a predisporre indiscriminatamente app educative e non educative.

Insomma, lo studio degli effetti dei dispositivi digitali è ancora agli inizi ma già possiamo distinguere i metodi più rigorosi, le trappole e le future linee di ricerca.

Di certo c'è che, con il progresso tecnologico e la loro diffusione, i dispositivi digitali sono diventati ormai parte essenziale della nostra vita quotidiana. Nell’affrontare l’accesso dalle più tenere età a quelle più avanzate, il problema non è più la restrizione dell'uso dei dispositivi digitali ma la sua estensione anche a chi non può permetterseli. Si tratta di una quota di popolazione non irrilevante se, nel 2018, secondo i dati ISTAT, il 12.6% di chi aveva meno di 17 anni (1.260.000 bambine/i e ragazze/i) viveva in condizioni di povertà assoluta.

Se per i ricercatori la priorità si sposta d’ora in avanti all’analisi approfondita degli effetti di come questi dispositivi vengono utilizzati, con la collaborazione, però, anche delle aziende che sviluppano app, videogiochi e reti sociali digitali, per le istituzioni pubbliche la priorità diventa la diffusione capillare dell’educazione digitale, in modo da guidare, a seconda delle età, l’equa esposizione ai dispositivi, la scelta consapevole dei contenuti e l’interazione responsabile con le nuove tecnologie.

L’educazione digitale è un problema a tutte le età se si considera che, secondo i dati ISTAT, “nel 2016 soltanto il 28,3% degli utenti di Internet segnala competenze digitali elevate; la maggioranza ha competenze di base (35,1%) o basse (33,3%). Un gruppo ristretto di internauti non ha alcuna competenza digitale (3,3%, pari a 1.035.000 individui)”.

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Infine, le famiglie devono essere informate sulle app da selezionare per i loro piccoli e gli insegnanti devono essere formati sulle app fruibili alle diverse età e sulle regole delle interazioni digitali.

Il diritto all’informazione e il diritto al gioco sono universali, le nuove tecnologie sono uno strumento per poterli garantire a tutti.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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