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Cecilia Sala, la strada in salita della diplomazia per liberarla

3 Gennaio 2025 11 min lettura

Cecilia Sala, la strada in salita della diplomazia per liberarla

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L’Iran almeno per il momento non fa sconti, neanche all’Italia, sulle condizioni dei suoi detenuti. Sono le ultime notizie che ci giungono indirettamente - tramite sue telefonate ai familiari - dalla stessa Cecilia Sala, la giornalista arrestata lo scorso 19 dicembre mentre lavorava con un regolare visto giornalistico in Iran. E da quasi due settimane detenuta in regime di isolamento ad Evin per un capo di imputazione alquanto generico, ma forse proprio per questo flessibile: una violazione delle leggi della Repubblica Islamica. 

In una cella lunga quanto la sua altezza, Cecilia Sala non ha un materasso, dorme per terra, su una delle due coperte che le sono state date, e ha molto freddo. Non vede nessuno dal 27 dicembre, quando ha incontrato l’ambasciatrice Paola Amidei, il cibo le viene passato da una fessura della porta – riporta il Corriere della Sera, riferendo di tre telefonate, ai genitori e al compagno, che le sono state concesse il primo gennaio. Inoltre, non ha ricevuto il pacco consegnato alle autorità carcerarie e contenente, fra l’altro, libri, indumenti e anche la mascherina con cui proteggere gli occhi dalla luce sempre accesa nella sua cella, anche di notte. Anzi, le sono stati tolti anche gli occhiali da vista.

La Farnesina ha reagito con toni più duri rispetto ai giorni scorsi: l’Italia chiede a Teheran “garanzie totali sulle condizioni di detenzione di Cecilia Sala”e la “liberazione immediata” della giornalista, ha dichiarato in una nota consegnata al governo iraniano dall’ambasciatrice a Teheran Paola Amadei. La nota verbale conteneva anche una ferma richiesta di chiarezza sulla possibilità di fornire generi di conforto e sulla garanzia che questi vengano consegnati effettivamente. “I tempi e le modalità di detenzione della cittadina italiana Cecilia Sala saranno un'indicazione univoca delle reali intenzioni e dell'atteggiamento del sistema iraniano nei confronti della Repubblica italiana”, hanno spiegato dalla Farnesina. Un vertice nel pomeriggio di ieri ha confermato la linea, ma ha anche risposto all’ambasciatore dell’Iran a Roma, Mohammad Reza Sabouri. Il quale, convocato per la prima volta dalla Farnesina, ha detto che alla giornalista sono state fornire tutte le agevolazioni necessaria, ma anche che dall’Italia si aspetta che "reciprocamente", oltre ad accelerare la liberazione del cittadino iraniano detenuto, vengano fornite le necessarie agevolazioni assistenziali di cui ha bisogno”. Il riferimento è a Mohammad Abedini Najafabadi, arrestato il 16 dicembre a Milano su richiesta delle autorità statunitensi, e che - ormai è conclamato - rappresenta la vera ragione della detenzione di Cecilia Sala. “Il Governo ribadisce - ha risposto Palazzo Chigi - che a tutti i detenuti è garantita parità di trattamento nel rispetto delle leggi italiane e delle convenzioni internazionali". 

Questi 15 giorni dall’arresto di Cecilia Sala – nel suo albergo di Teheran e alla vigilia del suo ritorno in Italia – non sono bastati dunque per assicurare la sua liberazione. E nemmeno l’angoscia di tutti per la sua detenzione, di cui si è fatto interprete il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, nel quale ha ricordato il valore della “libera informazione” in un tempo in cui molti giornalisti “rischiano la vita per documentare quel che accade nelle sciagurate guerre al confine dell’Europa, in Medio Oriente e altrove”.

Del resto poco è accaduto anche sull’altro fronte da cui dipende il futuro della collega, e cioè la detenzione di Abedini, ingegnere meccanico iraniano di 38 anni, con permesso di soggiorno svizzero, ora nel carcere milanese di Opera dopo essere stato trasferito da altri due carceri. Gli inquirenti di Boston ritengono che, tramite la sua società svizzera, abbia fornito tecnologia al Corpo dei Guardiani della rivoluzione per un attacco con droni che, il 28 gennaio scorso, aveva ucciso tre soldati americani in un avamposto militare in Giordania – Tower 22 – vicino al confine con la Siria dove si trova la base di Al Tanf. Quei militari erano in Giordania per supportare l'operazione Inherent Resolve: “missione della coalizione per garantire la sconfitta dell'ISIS”, si legge da fonti ufficiali americane. Le quali però, osserviamo per inciso, raramente ricordano che anche gli stessi Pasdaran – insieme a milizie filo-iraniane e alle forze curde – avevano contribuito con i loro boots on the ground alla sconfitta dei terroristi dello Stato Islamico in Siria e in Iraq. 

In particolare, la magistratura americana ritiene che Abedini abbia sostenuto i Pasdaran nell'acquisizione di componenti tecnologiche per il sistema di navigazione di quel modello di droni usato per l’attacco. Ancora per inciso, si osserva che le leggi che l’ingegnere iraniano avrebbe violato sono norme statunitensi, ossia l’Emergency Economic Powers Act (IEEPA) e le Iranian Transactions and Sanctions (ITSR). Il riferimento, in particolare nel secondo caso, è a normative che riguarderebbero l’Italia solo come sanzioni secondarie o extraterritoriali, tali cioè da colpire anche cittadini o imprese non statunitensi che abbiano relazioni economiche o finanziarie con l’Iran. Sanzioni in una parola “subite” dall’Europa, come è stata ugualmente subita la decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, nel maggio 2018, nonostante l’Iran lo rispettasse e l’Europa fosse pronta a onorarlo, dando vita a quegli accordi economici con Teheran che erano stati pianificati nei mesi precedenti.  

Quanto al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC, acronimo inglese per i cosiddetti Pasdaran), nel 2019 è stato inserito dalla prima amministrazione Trump nella lista delle organizzazioni terroristiche degli USA, ma non è mai entrato in quella della Unione Europea. Nonostante le richieste in tal senso giunte dal Parlamento europeo a partire dal gennaio 2023  – cui sono seguite quelle di paesi europei come Svezia e Germania -  la precedente Commissione non ha infatti ritenuto che ve ne fossero le condizioni giuridiche. Sul piano politico questo inserimento non farebbe che peggiorare i rapporti della Repubblica Islamica con l’Europa, mentre l’inclusione nella propria lista da parte degli USA - seguiti più di recente da altri paesi come il Canada -  non è apparentemente servita a ridimensionare il ruolo dei Pasdaran nella regione. 

Intanto la Procura generale di Milano ha respinto la domanda di arresti domiciliari per Abedini presentata dal suo legale, in quanto l’appartamento e il sostegno economico offerti dal Consolato dell’Iran a Milano, insieme a divieto di espatrio e obbligo di firma eventuali, non sarebbero garanzie sufficienti per evitare il pericolo di fuga. Alcune note trasmesse dalle autorità statunitensi avrebbero d’altronde sconsigliato la misura, anche alla luce del precedente costituito da Artem Uss, imprenditore russo vicino a Putin su cui pendeva una richiesta di estradizione negli USA, ma evaso dai domiciliari a Milano. Ora la palla passa alla Corte d’appello, ma si prevede che questa non decida prima del 14 gennaio. Più lunghi ancora i tempi della richiesta di estradizione, sui quali però l’ultima parola - dopo la decisione dei giudici milanesi - spetterà al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. 

La decisione definitiva, dunque, spetterebbe alla politica, in linea con la natura primariamente politica dell’arresto. L’italia sarebbe insomma chiamata a compiere una scelta legata alla propria sovranità nazionale, a tutela di una propria cittadina ingiustamente detenuta all’estero. Chissà se era anche a questo che pensava Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, quando, al termine di un incontro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, chiedeva per prima cosa “condizioni più dignitose di vita carceraria e poi decisioni importanti e di forza del nostro paese per ragionare sul rientro in Italia” . 

Ma sullo sfondo c’è anche la possibilità che gli USA lascino cadere la richiesta di estradizione per Abedini, come ipotizzato dal giornalista irano-americano Jason Rezaian, ex corrispondente del Washington Post detenuto per circa un anno e mezzo in Iran, di fatto come ostaggio, fino all’implementazione dell’accordo sul nucleare del 16 gennaio 2016 e uno scambio di prigionieri. Lo stesso Rezaian, ora direttore delle Iniziative per la libertà di stampa del suo giornale, ha diffuso un appello del Press Freedom Center del National Press Club di Washington per la liberazione di Cecilia Sala. 

Il doppio registro della Repubblica Islamica, la diplomazia del governo e l’autonomia degli apparati di sicurezza

La sorte di Cecilia Sala – che per fortuna, a differenza di Rezaian e di altri giornalisti arrestati in questi anni, ha la sola cittadinanza italiana - è dunque primariamente affidata alla capacità della nostra diplomazia di tirarla fuori dal carcere. La formulazione di un generico capo di accusa da parte di Teheran – quello di aver violato le leggi della Repubblica Islamica, e non la “legge islamica” come qualche organo di informazione impropriamente ha detto, come se la sharia fosse l’unica fonte del diritto in quel sistema istituzionale – potrebbe d’altra parte rivelare un approccio pragmatico e flessibile da parte di Teheran. Non ufficializzare i reati eventualmente contestabili alla nostra collega può infatti significare che le autorità vogliono tenersi le mani libere sia nel caso che sul piano diplomatico si trovi una soluzione, sia in quello contrario. 

Si sono fatte varie ipotesi su cosa possa aver dato fastidio nel suo operato mentre si trovava in Iran, dal video in cui si mostrava senza velo a Teheran (pubblicato in persiano da IndyPersian) al suo ultimo podcast per Stories su Chora Media, in cui intervistava una giovane comica iraniana che spopolava su Instagram con i suoi video, e il cui processo è ancora in corso. Ma resta il fatto che la vera questione è quella politico-diplomatica: la sorte dell’iraniano arrestato in Italia, l’eventuale flessibilità che gli USA potrebbero usare a favore del governo italiano o, infine, un’azione di quest’ultimo indipendente da Washington. 

Nel contempo è significativo come, proprio negli stessi giorni in cui Cecilia Sala lavorava a Teheran, si trovasse nella capitale iraniana anche il giornalista Francesco De Leo, che ha intervistato, prima della notizia dell'arresto della collega, il viceministro degli Esteri, Majid Takht-Ravanchi. La sua intervista, diffusa da Radio Radicale, faceva parte - riferisce l’Ansa -  di un reportage realizzato per la stessa radio sui primi mesi del nuovo governo di Masoud Pezeshkian. 

Nel colloquio con De Leo il vice-ministro degli Esteri confermava significativamente la linea dialogante del suo presidente e il suo interesse a ritrovare un accordo con l’Occidente sul programma nucleare di Teheran, con lo scopo di vedersi ridotte le sanzioni che concorrono nella crisi economica del paese. L’ascolto di quella registrazione è consigliabile a tutti, in quanto vi si ritrovano - insieme a interessanti posizioni sulla Siria post-Assad - gli stessi orientamenti ribaditi all’infinito dai moderato-riformisti in questi anni, quando il loro appello all’Europa sul rispetto dell’accordo multilaterale del 2015 non aveva trovato, dopo il ritiro statunitense, un ascolto fattuale. Chi scrive non si stancherà mai di sottolineare come la storia avrebbe potuto prendere una piega molto diversa se quel ritiro non fosse mai avvenuto e l’Europa avesse dato seguito ai propri impegni con Teheran. 

Il contesto attuale è ora molto più complicato, e l’ala dura antioccidentale, rafforzata proprio dal fatto che l’intesa sul nucleare era stata fatta abortire sul nascere, ha ora mano ancora più libera nel mettere i bastoni fra le ruote alle migliori intenzioni della diplomazia. Lo diceva bene nei giorni scorsi Nathalie Tocci, che dirige l’Istituto Affari Internazionali, quando osservava come in Iran vi siano diversi centri decisionali, da quello rappresentato appunto dal governo Pezeshkian agli apparati della sicurezza, interna ed esterna aggiungiamo noi: un mondo ben diverso – lo definiva - se non contrastante con quello rappresentato dal governo, interessato a perseguire relazioni migliori con  l’Europa. E un mondo, quello degli apparati di sicurezza e soprattutto della “seconda generazione” che ormai vi domina, al quale i rapporti diplomatici  interessano ben poco. E rispetto ai quali il governo italiano ha purtroppo poche leve, ha sottolineato ancora l’esperta di geopolica, per agire. 

Un’analisi che rivela quanto sia fuorviante continuare a pensare all’Iran come a un blocco unico di potere, se non a una “dittatura” facente capo a un presunto potere assoluto della Guida Ali Khamenei. In realtà quest’ultimo ha agito negli ultimi decenni come un elemento di equilibrio fra forze diverse e spesso in contrasto fra loro. Un uomo, Khamenei, vicino alle forze più tradizionaliste e “rivoluzionarie” del passato, ma al tempo stesso capace di dare il via libera prima all’accordo sul nucleare del 2015 (dal quale Teheran ha cominciato ad allontanarsi solo un anno dopo l’uscita unilaterale di Trump) e più di recente alla candidatura di un riformista, appunto Pezeshkian, per far uscire il paese dalla profonda crisi - economica, militare, di influenza nella regione e di consenso interno - in cui si trova.  

In Europa prevale la linea dura, guidata da Londra Parigi e Berlino

Ma se l’azione dei moderato-riformisti ci appare oggi indebolita - per quanto siano tornati all’offensiva nello scenario politico interno – è anche perché nulla è stato fatto dall’Europa per sostenerla, da quando la prima amministrazione Trump ha scelto la massima pressione. E purtroppo anche l’Italia ha perso – allineandosi gradualmente alla stessa linea dura – parte della capacità negoziale e di interlocuzione con Teheran che aveva solo fino a pochi anni fa. Basti pensare alla netta riduzione dei suoi investimenti e del suo interscambio con il paese e alla linea sempre più filo-statunitense e filo-israeliana del nostro governo. Fino allo spazio ripetutamente riservato dal nostro Parlamento a Maryam Rajavi, rappresentante dell’opposizione all’estero più invisa non solo ai vertici della Repubblica Islamica ma anche a molti suoi cittadini, e perfino ad altri settori importanti dell’opposizione della diaspora. Senza contare il fatto che, dopo la falsa partenza di alcuni anni fa del gruppo E4 dei paesi europei - che puntava a un’interlocuzione ad ampio spettro con Teheran -, l’Italia continua a essere esclusa dai colloqui condotti dal formato E3, ossia Gran Bretagna, Francia e Germania, cioè i governi al tavolo dei negoziati culminati con l’accordo del 2015. Colloqui che riprenderanno il 13 gennaio a Ginevra, formalmente ancora sul tema del programma nucleare iraniano, ma che vedrebbero sul tavolo anche altri temi connessi ad altre crisi che coinvolgono Teheran. 

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Nei mesi scorsi Londra, Parigi e Berlino hanno ulteriormente indurito la propria posizione nei confronti dell’Iran, anche alla luce della sua rafforzata cooperazione militare con la Russia di Putin in guerra con l’Ucraina. E in dicembre avevano annunciato di essere pronte a ricorrere al meccanismo dello “snapback”, cioè il ritorno delle sanzioni internazionali sul nucleare previsto - ma solo fino all’ottobre 2025 - dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che recepiva l’intesa del 2015. In novembre i tre avevano spinto per una mozione di censura dell’Aiea contro l’Iran, accusandolo di scarsa trasparenza, proprio quando il direttore generale della stessa Agenzia delle Nazioni Unite, Raphael Grossi, aveva incassato l’assenso di Teheran a limitare le proprie riserve di uranio arricchito al 60% - così limitando il rischio che tali riserve, sempre usate in questi anni come leva negoziale  con l’Occidente, potessero essere impiegate per fabbricare ordigni atomici. 

Insomma, i rapporti tra l’Europa e l’Iran sono tesi più che mai e l’Italia potrebbe non trovarsi  nella migliore posizione per influenzarne gli sviluppi. Tanto più dunque una pronta liberazione di Cecilia Sala - in cui tutti speriamo - sembra ora affidata alla capacità del nostro governo di muoversi con estrema cautela sui diversi livelli di uno scenario molto complicato, sia sul piano dei nostri rapporti bilaterali con Teheran e con Washington sia su quello delle crisi internazionali.

Immagine in anteprima via Facebook

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