L’arresto della giornalista Cecilia Sala in Iran: i fatti, le ipotesi, la sfida per la diplomazia
|
Aggiornamento 30 dicembre 2024: In un'intervista a Repubblica un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha dichiarato che la detenzione della giornalista Cecilia Sala sarebbe una forma di rappresaglia per l'arresto, avvenuto il 16 dicembre all'aeroporto di Milano su mandato degli Stati Uniti, di Mohammad Abedini Najafabadi, un uomo d'affari svizzero-iraniano e presunto trafficante d'armi legato al regime iraniano.
“Purtroppo il regime iraniano continua a detenere ingiustamente cittadini di molti altri paesi, spesso usandoli come leva politica”, ha dichiarato il portavoce statunitense. “Non c'è alcuna giustificazione per questo, e dovrebbero essere rilasciati immediatamente. I giornalisti svolgono un lavoro cruciale nell'informare il pubblico, spesso in condizioni pericolose, e devono essere protetti”.
“Siamo a conoscenza dell'arresto in Iran della giornalista italiana Cecilia Sala”, ha aggiunto il Dipartimento di Stato americano. “Il suo arresto arriva dopo che un cittadino iraniano è stato arrestato in Italia il 16 dicembre per contrabbando di componenti di droni. Chiediamo ancora una volta il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri detenuti arbitrariamente in Iran senza giusta causa”.
Ancora sappiamo troppo poco delle ragioni dell’arresto di Cecilia Sala, per scriverne senza un ampio uso del condizionale. D’altronde, anche le fonti ufficiali Teheran hanno le bocche cucite. I fatti sono pochi, e le illazioni tante. E alcune, in particolare quelle che giungono da approcci pregiudizialmente faziosi, rischiano di nuocere alla causa della sua liberazione.
Per quanto giovane, Cecilia è un’ottima collega e ha imparato dalle sue esperienze all’estero – dall’Afghanistan all’Ucraina, fino allo stesso Iran in cui si era già recata - a muoversi con cautela e professionalità anche nei contesti più difficili. Nel suo ultimo podcast per Chora Media, un’intervista intitolata “Una conversazione sul patriarcato a Teheran”, tocca uno dei temi più spinosi che agitano la società iraniana e le autorità della Repubblica Islamica, ma lo fa in modo equilibrato. Interessante e ricco di informazioni anche il modo in cui parla del suo secondo incontro con Hossein Kanaani, uno dei fondatori dei Pasdaran, e del suo “album di famiglia dell’asse della Resistenza”.
“Dopo l’11 settembre 2001 – scrive - la Repubblica islamica e gli Stati Uniti avevano due avversari in comune — i talebani in Afghanistan e Saddam in Iraq — e per un periodo collaborarono. Da un lato c’era il diplomatico Ryan Crocker e dall’altro il generale più efficiente e famoso d’Iran, Qassem Suleimani. Suleimani consigliava gli obiettivi da colpire, Crocker passava un po’ di informazioni sulle cellule di al Qaida in Iran da stanare. Poi arriva un discorso famoso del presidente dell’epoca, George W. Bush, che parla di un “Asse del male” e ci mette dentro l’Iran. Suleimani si arrabbia e si offende. Crocker dice: non avevo idea che il presidente avrebbe detto quello che poi ha detto. Gli scambi finiscono e la Storia prende un’altra piega. Suleimani diventa l’architetto dell’Asse della resistenza — la galassia di milizie alleate di Teheran sparse per il Medio Oriente: da Hezbollah a Hamas agli houthi di Ansar Allah passando per Assad — che negli ultimi 14 mesi è stato smontato pezzo per pezzo quasi tutto. E gli amici di Kanaani sono quasi tutti morti”.
Cecilia Sala, come ha confermato il direttore di Chora Media Mario Calabresi, aveva ottenuto un regolare visto giornalistico di otto giorni, era assistita da uno dei fixer e traduttori approvati dall’ufficio Corrispondenti stranieri del ministero della Cultura, e dunque aveva concordato le sue interviste e i suoi movimenti - chiunque abbia lavorato come giornalista in Iran sa che le cose funzionano così, ma sa anche che questo non impedisce di rispettare i criteri del giornalismo professionale.
Anche ipotizzando che sia stata arrestata per non aver sempre rispettato l’obbligo del velo – come del resto è costume ormai diffuso in Iran, nonostante la nuova severissima legge contro chi non lo rispetta, e della quale il presidente Masoud Pezeshkian ha chiesto e ottenuto la sospensione dal Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale – se la sarebbe, da straniera, cavata con poco: forse un fermo di qualche ora, mi conferma una collega iraniana, e poi libera di nuovo.
E invece no, Cecilia è detenuta nel carcere di Evin dal 19 dicembre, dopo essere stata prelevata dal suo albergo da alcuni agenti, e ora è costretta in un duro regime di isolamento. Le sono state concesse solo poche telefonate ai familiari e, nella giornata del 27 dicembre, la nostra ambasciatrice, Paola Amadei, le ha potuto fare una visita consolare per verificare le sue condizioni. Cecilia sta bene, ma è provata. E per questo le siamo tutti vicini, e ci auguriamo che arrivi presto la sua scarcerazione. C’è un precedente che incoraggia: quello di Alessia Piperno, la blogger arrestata nell’ottobre 2022 durante le proteste di ‘Donna Vita Libertà’. Anche lei detenuta nel carcere di Evin, è stata liberata grazie alla nostra diplomazia 45 giorni dopo. Sembrano e sono tanti, purtroppo, ma per altri stranieri arrestati insieme a lei la detenzione è durata molto di più. Per ora è difficile fare ipotesi, considerato soprattutto che non sono ancora state formalizzate le accuse contro di lei. Non resta che contare di nuovo sulla nostra diplomazia.
La diplomazia al lavoro, ma la strada potrebbe essere in salita
Dopo la diffusione della notizia dell’arresto, seguita a un periodo in cui il nostro governo cercava di risolvere il caso dietro le quinte, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha chiesto “discrezione e riservatezza”. Il suo collega alla Difesa, Guido Crosetto, aveva detto ancora di più: “Le trattative con l'Iran non si risolvono, purtroppo, con il coinvolgimento dell'opinione pubblica occidentale e con la forza dello sdegno popolare, ma solo con un'azione politica e diplomatica di alto livello”. Da qui l’interrogativo: mobilitare o escludere la pubblica opinione? È vero che il caso di Giulio Regeni assassinato in Egitto sarebbe già chiuso senza l’attenzione dell’opinione pubblica, ma il problema è che tipo di informazione debba alimentare questa stessa attenzione. Finora nell’informazione sull’Iran ha sempre prevalso una sorta di coazione a ripetere della demonizzazione a priori, con una scarsa attenzione alle dinamiche politiche interne al sistema della Repubblica Islamica. La quale è tutt’altro che monolitica, e vede spesso il contrapporsi di componenti con agende politiche – con la Guida Ali Khamenei spesso a fare da perno di bilanciamento.
Stiamo parlando, da una parte, di un gruppo di conservatori fondamentalisti che osteggiano ogni forma di compromesso con l’Occidente, dall’altra di una componente moderato-riformista che cerca un approccio negoziale, se non altro allo scopo di allentare il peso di quel regime sanzionatorio imposto dalla prima presidenza Trump, e mai rimosso da quella dell’uscente Biden.
Le ultime elezioni presidenziali in Iran hanno segnato, con la vittoria di Pezeshkian, un prevalere della seconda, favorito da un elettorato ridotto ai minimi termini, ma che nel secondo turno ha offerto un minimo di credito al candidato riformista per scongiurare la vittoria dell’oltranzista Saeed Jalili.
Delle sue promesse elettorali Pezeshkian ha potuto realizzare ben poco: a fermarlo l’approfondirsi della crisi economica interna e il pesante ridimensionamento della potenza militare di Teheran inflitto da Israele sia nei due attacchi diretti in territorio iraniano, sia con le massicce offensive contro Hamas a Gaza, contro Hezbollah in Libano e ora contro gli Houthi di Ansar Allah in Yemen. Ma sono stati soprattutto la caduta del presidente Bashar Al Assad in Siria, l’8 dicembre scorso, e l’arrivo al potere di Hayat Taḥrīr al-Shām (HTS) a Damasco – gruppo jihadista nato come costola di Al Qaeda, ma il cui leader ha ora dismesso la mimetica per presentarsi al mondo in giacca e cravatta – a lasciare scoperti i fianchi della Repubblica Islamica, e tagliare i canali dei rifornimenti di armi che passavano per il territorio siriano.
Di fronte al grave indebolimento di quella deterrenza rappresentata dalle milizie alleate nella regione, la dirigenza della Repubblica Islamica si è ora divisa tra chi propende per la linea dura anche con l’eventuale ricorso alla deterrenza nucleare – quella militarizzazione del programma atomico iraniano che mai finora si era compiuta – e chi invece sta lavorando in sordina per un accordo con gli Usa della nuova amministrazione Trump. Sul piano interno, la stessa contrapposizione si registra tra chi insiste sulla repressione del dissenso e chi, come il governo di Pezeskhian, è consapevole che, in una fase critica come quella attuale, la Repubblica Islamica non può permettersi ulteriori perdite di consenso popolare.
Dopo Assad tocca all’Iran?
Non che l’arresto di Cecilia Sala abbia una relazione diretta con queste dinamiche generali. Ma è evidente che, se la nostra diplomazia è chiamata a lavorare con urgenza per la sua liberazione, avrebbe tutto l’interesse a veder prevalere non l’ala dura del sistema su quella dialogante. Purtroppo però in questi ultimi anni abbiamo visto l’Italia perdere molto del suo credito presso il governo iraniano. Già condannata ad avere scarsa incidenza operativa per essersi auto-esclusa dalla squadra dei governi europei (gli E3, ossia Gran Bretagna, Francia e Germania) che negoziarono l’accordo sul nucleare del 2015, ha anche perso molto dell’influenza sul governo di Teheran un tempo favorita da una significativa presenza della nostra imprenditoria nel paese. Inoltre, non sembra esservi traccia di una nostra presenza anche in quel nuovo round del tavolo negoziale tra gli stessi governi dell’E3 e l’Iran previsto da fonti informate a Ginevra nel prossimo gennaio, e in cui l’oggetto della discussione si sarebbe nel frattempo ampliato dal nucleare agli altri temi più spinosi che contrappongono l’Occidente all’Iran.
Il possibile legame con l’arresto a Milano del cittadino svizzero-iraniano ricercato dagli USA
Tutto questo avrebbe naturalmente un peso anche se avesse fondamento l’ipotesi – da molti accreditata sulla stampa - che Cecilia Sala sia diventata un oggetto di scambio per il rilascio, da parte italiana, di Mohammad Abedini-Najafabadi, il cittadino svizzero-iraniano fermato il 16 dicembre allo scalo di Malpensa su richiesta della magistratura statunitense.
L’uomo, per il quale si attende una procedura di estradizione, è accusato dal tribunale di Boston di associazione a delinquere finalizzata alla violazione dell’International Emergency Economic Power Act, e per la fornitura di supporto materiale a un’organizzazione terroristica straniera. Secondo l’accusa, in pratica, avrebbe creato una società di comodo tramite cui sarebbero passati anche i droni impiegati dai pasdaran nell’attacco del 28 gennaio scorso contro una postazione militare in Giordania, in cui morirono tre soldati USA.
L’uomo, interrogato a Milano, ha respinto le accuse e secondo il suo avvocato la sua situazione sarebbe “meno grave di quanto possa sembrare”. A respingere le accuse, a Boston, anche Mahdi Sadeghi, arrestato negli USA per la stessa vicenda. Se davvero vi fosse una relazione tra l’arresto di Cecilia Sala a Teheran e quello di Abedini a Milano, potrebbe anche la sua vicenda infine ricadere in quella “diplomazia degli ostaggi” alla quale Teheran ha fatto più volte ricorso per riguadagnare assertività, a danno di persone innocenti, sul piano delle relazioni internazionali. Una pratica che conosce molto bene il giornalista Jason Rezaian, detenuto per 544 giorni in Iran (dove lavorava come corrispondente del Washington Post) con le accuse di “spionaggio” e propaganda contro il sistema”, e liberato lo stesso giorno dell’implementazione dell’accordo sul nucleare, il 16 gennaio 2016.
Ma è una pratica che conoscono soprattutto gli iraniani con doppia nazionalità, una circostanza che per fortuna non riguarderebbe Cecilia Sala. “Il governo in Iran – ha scritto Rezaian su X - continua a prendere ostaggi, in particolare giornalisti, e da una lista crescente di paesi. Ehi Italia, fai tutto il necessario per riportare a casa Cecilia Sala al più presto”.
Un’altra considerazione: se davvero valesse l’ipotesi di uno scambio tra Cecilia Sala e il cittadino arrestato a Milano, l’Italia si troverebbe a vedere una propria cittadina subire anche le conseguenze di una legislazione statunitense che non rientra nella propria normativa, ma che sarebbe costretta a subire come tutte le sanzioni secondarie, o extraterritoriali, inflitte da Washington a Teheran ma tali da condizionare, e paralizzare soprattutto sul piano economico, anche i Paesi europei.
Ci sarebbe dunque da augurarsi che – fosse davvero questo il caso – Roma abbia la capacità di tutelare gli interessi di una propria cittadina anche con la collaborazione del suo potente partner statunitense.
Quando si condanna Teheran senza indicare una road map
Infine, un interrogativo sull’articolo del direttore Claudio Cerasa, apparso oggi sul Foglio - per il quale la collega collabora da freelance -, e intitolato “Il giornalismo non è un crimine. Riportiamo a casa Cecilia Sala”.
“Non è il momento di ricordare l'irresponsabilità di chi ha provato a considerare un regime islamista in grado di diventare moderato, non è il momento di ricordare quante occasioni l'opinione pubblica ha perso per provare a smascherare gli orrori del regime iraniano (…)- . L'Iran vuole utilizzare la vita di Cecilia per mostrare quanto è forte il regime. Facciamogli vedere noi quanto siamo forti facendo tutto il possibile per non far sparire per un solo giorno la sua storia dalle pagine dei nostri giornali, facendo tutto il possibile per ricordare alle autorità competenti quanto sia pericoloso cavillare intorno a un attentato alla libertà di stampa e facendo tutto il necessario per riportarla a casa”.
Ho letto e riletto queste parole, e non ho capito dove il collega vuole andare a parare. Se orrori vi sono stati – e tuttora purtroppo vi sono da parte del “regime” iraniano – non mi sembra che l’attenzione della stampa sia mancata. E dunque, chi sarebbero gli irresponsabili che avrebbero considerato la possibilità che un regime islamista diventasse moderato? Cosa si intende per “pericoloso cavillare”? Cosa immagina che il nostro governo “concretamente” debba fare per riportare a casa la nostra collega? Rispetto l’ansia profonda che Cerasa deve umanamente provare per Cecilia Sala, ma mi sembra che nel suo ragionamento manchi l’enunciato principale: tramite quali vie ottenere il risultato? Come in tanti altri casi di condanna della Repubblica Islamica cui non fa mai seguito un’esplicita road map per una soluzione dei problemi elencati, anche in queste parole manca un passaggio: in cosa dovrebbe “concretamente” consistere l’azione che dovrebbe garantire che la libertà di stampa, insieme a tutti gli altri diritti negati agli iraniani, possa essere tutelata? Gli scenari più verosimili, con Israele che ora sarebbe pronto a bombardare i siti nucleari iraniani, sono due: la guerra o la diplomazia. E noi, da che parte stiamo?
Immagine in anteprima: Diego Figone via International Journalism Festival