Le cause per il clima contro gli Stati possono costringere i governi e le aziende a cambiare
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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Aprile 2024 ha segnato una svolta potenzialmente epocale per le cause legali climatiche: per la prima volta un tribunale transnazionale specializzato in diritti umani ha sostenuto esplicitamente il diritto alla protezione del clima. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha dato ragione all’istanza presentata dalle KlimaSeniorinnen, un gruppo di donne svizzere over 64 anni che aveva intentato una causa contro il governo della Svizzera per le sue politiche climatiche ritenute inefficaci. Nello stesso giorno la CEDU ha respinto altre due istanze simili.
La vittoria delle KlimaSeniorinnen potrebbe creare un precedente: d’ora in avanti cittadini, associazioni o gruppi informali sanno che possono rivolgersi alla CEDU per chiedere conto delle politiche climatiche statali. È ormai chiaro che i tribunali stanno divenendo l’ennesimo fronte di battaglia sui cambiamenti climatici. Il numero di climate litigations è in costante aumento: azioni legali contro governi, istituzioni e imprese sono diffuse in tutto il mondo. E l’Italia non fa eccezione. Nel 2019 è stata lanciata Giudizio Universale, la prima causa legale nei confronti del nostro Stato, recentemente respinta dal Tribunale di Roma, mentre un anno fa veniva annunciata ‘La Giusta Causa’, l'iniziativa legale capitanata da Greenpeace e Re:Common contro ENI “per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui ENI ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone consapevole”.
Di cosa parliamo in questo round-up sul clima:
Le tre istanze esaminate della CEDU
La Svizzera non sta mettendo la propria popolazione anziana al sicuro dalle ondate di calore. Questo, in sostanza, il verdetto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’azione legale intentata più di 9 anni fa da KlimaSeniorinnen. Il gruppo rappresenta circa 2.400 donne over 64 preoccupate perché, ritengono, la loro età e il loro genere le rende particolarmente vulnerabili alle ondate di calore, e il loro governo non fa abbastanza per proteggerle. Posizione suffragata dalla sentenza della CEDU, che ha sancito l’inadeguatezza degli impegni climatici assunti dal governo svizzero, rilevando vere e proprie “lacune”: manca, ad esempio, una reale quantificazione delle emissioni di gas a effetto serra che si intende ridurre.
La CEDU si è pronunciata su altre due azioni legali climatiche, entrambe rigettate. La prima, presentata da un gruppo di sei giovani portoghesi, accusava i governi di 32 Stati europei di politiche climatiche troppo blande. I giovani, tra i 12 e i 24 anni, hanno lamentato gli effetti di incendi boschivi e ondate di calore, che impediscono loro di uscire di casa, giocare e andare a scuola, e che generano ansia climatica.
La loro istanza è stata respinta senza essere esaminata: viola il principio secondo cui la CEDU interviene solo dopo che l’intero iter giudiziario negli Stati nazionali è stato concluso. Secondo il gruppo, invece, l’urgenza della situazione e l’inattività degli Stati avrebbero dovuto consentire di bypassare questo iter. Altro elemento problematico è stata l’extraterritorialità dell’azione: non è possibile imporre determinate politiche agli Stati sulla base dei loro effetti su persone al di fuori del loro territorio o della loro giurisdizione.
La terza azione legale, anch’essa respinta, è stata intentata dall’eurodeputato Damien Carême, ex sindaco di Grande-Synthe, una cittadina costiera francese particolarmente esposta al rischio inondazioni. Mentre era sindaco, Carême ha accusato la Francia di aver violato il “diritto al rispetto della vita privata e familiare” e “il diritto alla vita”. La sua istanza è stata respinta perché, non vivendo più in Francia, non può ritenersi vittima delle violazioni che denuncia.
Secondo quanto riportato dal Guardian, la CEDU tende a respingere il 90% dei procedimenti come inammissibili ma, in questo caso, ha accelerato la valutazione sulle tre climate litigations perché ritenute particolarmente urgenti, posticipando altre sei decisioni riguardanti ulteriori cause climatiche.
Sempre più cause climatiche
Il dato certo è che le sentenze della CEDU hanno degli impatti sulle politiche nazionali degli Stati; queste in particolare potranno essere precedenti importanti per ulteriori casi in esame alla Corte di Strasburgo. Come l’azione legale lanciata da Greenpeace contro la Norvegia per fermare le nuove esplorazioni di petrolio e gas nel Mare di Barents: secondo la ONG i nuovi permessi di esplorazione in Artico sono in contrasto con gli impegni climatici dello Stato.
A livello europeo, l’onda delle climate litigations ha cominciato a gonfiarsi nel 2015 quando Urgenda, un’organizzazione olandese, ha deciso di citare in giudizio lo Stato per non aver fatto abbastanza per proteggere i suoi cittadini. L’Olanda è stata condannata a ridurre le proprie emissioni ma ci sono stati ulteriori effetti a lungo termine: il bilancio nazionale 2022 dello stato menziona esplicitamente le misure "Urgenda" tra le sue voci. La vittoria di Urgenda in sede nazionale è stata il detonatore di una serie di azioni legali che inseriscono l’Unione Europea in un contesto globale di mobilitazione. Cause simili sono state intentate in Germania, Belgio, Nepal e Colombia.
In tutto il mondo, in questo momento, ci sono 2.500 climate litigations; un rapporto del Sabin Center della Columbia University e del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) ha sottolineato che i contenziosi legali, indicati dal Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) come un incentivo a politiche climatiche virtuose, stanno influenzando la battaglia per il clima. Il report redatto da ONU e Columbia University ha censito 3.000 cause aperte da cittadini contro istituzioni o imprese. Queste azioni di denuncia legano il diritto al clima ai diritti umani, che il diritto internazionale e quelli nazionali dovrebbero tutelare: con politiche di mitigazione efficaci, bloccando nuove esplorazioni fossili, intervenendo su negazionismo e greenwashing aziendale, informando i cittadini con più rigore o imponendo a chi inquina di pagarne gli effetti. La percentuale di vittorie fa ben sperare: il 55% delle 549 azioni intentate negli Stati Uniti si è conclusa con una sentenza positiva.
Si tratta di cause che sono riuscite a bloccare progetti altamente inquinanti, come un’enorme miniera di carbone nel bacino di Galilea, in Australia, proposta da Waratah Coal: la Corte del Queensland ha accolto il ricorso degli attivisti di First Nation affermando che l’opera avrebbe avuto “impatti inaccettabili sui cambiamenti climatici”. Il risultato è stata la negazione dell’autorizzazione ambientale del progetto.
Gli effetti della diffusione delle azioni legali per il clima
Talvolta le azioni legali sollecitano le istituzioni a politiche più ambiziose: la causa intentata contro il governo della Corea del Sud ha visto la Commissione per i Diritti Umani presentare al tribunale un parere esplicito di condanna: gli scarsi obiettivi di riduzione delle emissioni del governo mettono in pericolo le generazioni future. Così, in Germania, la denuncia di una cordata di ONG ambientaliste ha portato a una sentenza della Corte Costituzionale che richiede la modifica in senso estensivo della legge sulla protezione del clima e sottolinea che un governo la cui azione non protegge le generazioni più giovani è un governo incostituzionale.
Le cause legali sono spesso voci di istanze sociali più diffuse: la causa irlandese, vinta nel 2020 presso la Corte Suprema, è stata accompagnata da una petizione che ha collezionato più di 12.000 firme.
Ogni vittoria legale diventa un esempio per gli altri: è il caso della ONG olandese Milieudefensie contro Shell. Nel 2021 il colosso petrolifero è stato condannato a ridurre le proprie emissioni del 45% rispetto al 2019. Il successo del caso ha portato la ONG a minacciare un’azione legale contro altre 29 multinazionali e, in alcuni casi, sono state le aziende stesse a rivedere i propri piani prima che il contenzioso approdasse nelle aule dei tribunali.
L’azione legale è stata di ispirazione per quella intentata da Greenpeace Italia e Re:Common contro ENI e Cassa Depositi e Prestiti. Allo stesso modo, i cittadini di una piccola isola indonesiana minacciata dall’innalzamento del livello del mare, hanno deciso di denunciare il produttore svizzero di cemento Holcim.
Alcune cause mirano a impedire che fondi pubblici (ma anche privati) finanzino progetti climalteranti. Il rapporto “Global trends in climate change litigation: 2023 snapshot” ne riporta 14 contro enti pubblici o istituzioni finanziarie e 12 contro soggetti privati.
Le cause contro le agenzie di credito all’esportazione (ECA) intervengono direttamente per evitare che i fondi pubblici alimentino in qualche modo il business delle fonti fossili. Si tratta di enti in grado di intervenire direttamente su diversi progetti attraverso assicurazioni, garanzie, prestiti a tassi bassi: in generale, riducono il rischio finanziario di chi investe in infrastrutture strategiche. Tra il 2019 e il 2022 le ECA hanno fornito flussi finanziari a progetti fossili sette volte superiori rispetto a quelli indirizzati a progetti basati sulle energie rinnovabili: 136 miliardi di dollari contro 19 miliardi di dollari.
La reazione delle imprese
Anche il greenwashing è spesso oggetto di azioni legali: in seguito a una causa l’azienda lattiero-casearia Aria Foods ha dovuto eliminare la dicitura “impatto climatico zero” dalle proprie confezioni in Svezia, mentre l’Austrian Airlines è stata condannata a diffondere dai propri canali un messaggio in cui informa il pubblico che gli annunci che promettono voli a zero emissioni di CO2 sono fuorvianti.
In generale, alle imprese è richiesta maggiore chiarezza nella propria comunicazione. Chi non si adegua teme di accusare il colpo: una relazione di BP sulle informazioni finanziarie relative all’attivismo climatico menziona le azioni legali come possibile causa della riduzione della liquidità finanziaria e dei rating di credito.
Trema anche il settore assicurativo: alle Hawaii la società di combustibili fossili Aloha Petroleum ha denunciato il suo assicuratore perché ha rifiutato di coprire i rischi climatici.
Uno passaggio importante è stato determinato dall’affermazione della nozione di giustizia climatica: sono sempre di più le comunità che si appellano contro le istituzioni perché danneggiate in maniera sproporzionata anche dai piani di transizione ecologica. Come nel caso del Mexican Center for Environmental Law, che ha denunciato il governo messicano per gli impatti dei piani di transizione del settore energetico su comunità e lavoratori.
Come sottolineato dal report di UNEP e Sabin Center, le imprese stanno preparando la reazione. La sentenza della Queensland Land Court sulla miniera di Warath ha visto un’azione legale dell’azienda contro il governo australiano in base a un accordo di libero scambio con Singapore. Anche le Nazioni Unite hanno evidenziato come queste cause siano potenzialmente catastrofiche perché rallentano il contrasto ai cambiamenti climatici e hanno potenziali “enormi impatti sui diritti umani”.
In Italia i tribunali si dichiarano non competenti in materia di cause climatiche
Anche in Italia ci sono state delle climate litigations. Nel 2019 è stata lanciata Giudizio Universale, la prima causa legale contro lo Stato per i cambiamenti climatici. L’azione chiedeva al Tribunale di Roma di riconoscere come insufficienti le politiche climatiche nazionali e, di conseguenza, la violazione dei diritti umani dei suoi cittadini. A marzo 2024, la Corte si è pronunciata definendo la causa inammissibile. Il tribunale ha deciso di non entrare nel merito delle argomentazioni legali, delle prove scientifiche e dei dati portati dai ricorrenti, ritenendo di non avere la legittimità di valutare le scelte politiche dei governi. In netta controtendenza con quanto avviene in Europa e nel resto del mondo, i giudici hanno affermato che in Italia non esistono tribunali in grado di esprimersi su cause di questo genere.
Le istituzioni giudiziarie del nostro paese, dunque, stanno scegliendo di non scegliere. Questo, nonostante il fatto che siamo particolarmente esposti al rischio climatico. Le Osservazioni del Rapporto Copernicus-Omm sottolineano che l’Europa è il continente che si sta scaldando di più. L’intensificarsi di fenomeni legati ai cambiamenti climatici vede l’area del Mediterraneo particolarmente esposta. Tra il 2003 e il 2020 ci sono state 378 vittime di eventi legati direttamente ai cambiamenti climatici: è a rischio più del 90% dei Comuni; sono esposte più di 8 milioni di persone. Nel primo semestre dello scorso anno abbiamo avuto più di 50 eventi estremi in più rispetto al 2022; in tutto, sono stati 368, e hanno portato alla morte di 31 persone. Negli ultimi 10 anni quasi l’80% degli stati di emergenza era connesso a fenomeni climatici.
Se negli altri paesi, dove non possono i governi, arrivano i tribunali, quanto accaduto da noi suona come una beffa. Come sottolineato dal team legale che cura Giudizio Universale, la sentenza svizzera può essere un precedente importante per invertire la tendenza: “Ricorderà ai tribunali e al governo italiani - scrivono i legali in una nota - che, al contrario, la richiesta da parte della società civile di protezione dei diritti fondamentali minacciati dall’emergenza climatica provocata dalle politiche climatiche insufficienti è giustiziabile”. E anzi, sottolineano, proprio il caso italiano fornisce una diversa lettura degli esiti della causa portoghese presso la CEDU, respinta perché aveva bypassato le istituzioni nazionali: “Il caso italiano ne costituisce un esempio - scrivono, riferendosi alla lentezza delle politiche nazionali - in quanto sono state attivate le vie di ricorso a livello nazionale in Italia, ma il tribunale domestico dopo quasi tre anni ha deciso che le richieste di tutela dei diritti fondamentali legate al cambiamento climatico non sono giustiziabili in Italia".
Immagine in anteprima: frame video Greenpeace via YouTube