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Oltre Scurati: l’antifascismo non è un potere simbolico

25 Aprile 2024 15 min lettura

Oltre Scurati: l’antifascismo non è un potere simbolico

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La censura del monologo di Antonio Scurati sul delitto Matteotti e il 25 aprile, previsto all’interno del programma Chesarà (Rai 3), condotto da Serena Bortone, è un caso da manuale. Dentro ci troviamo il piglio del funzionario filogovernativo, la confusione comunicativa degli ambienti in cui è diffusa la mentalità dell’usi a obbedir tacendo, i probabili scleri in chat ufficiose che poi producono comunicati, tweet, status; ma troviamo anche la debolezza degli anticorpi democratici che dovrebbero attivarsi in casi del genere. Se la lottizzazione è un virus con cui abbiamo imparato a convivere, una sorta di influenza stagionale, oggi ci troviamo di fronte a un ceppo mutato molto più inquietante, e gli allarmi dei medici vengono perlopiù ignorati. 

Ne parlo oggi perché se c’è un giorno adatto per riflettere sull’antifascismo, è proprio il 25 aprile. Da tempo, dietro l’idea che sia un giorno “divisivo”, si operano tentativi di censura e rimozione. “Il 25 aprile è divisivo. Se sei fascista”, scrivevo nel 2019, contro una scusa grigia e fasulla ("diviso", per l'appunto) usata da alcuni rappresentanti istituzionali nel censurare celebrazioni e portare avanti un revisionismo pericoloso. Che è ben altra cosa dal dire “se non stai dalla nostra parte sei fascista”.

Tralasciando che quel titolo in alcuni casi è diventato per magia uno slogan decontestualizzato per campagne pubblicitarie (e quindi una scatola vuota in mano a copywriter pigri), va ribadito un principio che a partire dal caso Scurati è bene avere in mente. L’antifascismo è un valore fondativo. Dove sono presenti spinte autoritarie è una pratica di lotta politica, e per lottare bisogna essere disposti a farsi male, misurarsi col rischio tangibile. L’antifascismo non è un potere linguistico da esercitare, una tessera da esibire, o una religione dei morti; non è un passato mitico a uso e consumo dei nostri meccanismi proiettivi. Da questo punto di vista, in questa sede oggi sarò antifascista e divisivo. L’alternativa, altrimenti, è il classico “lavare i panni sporchi in famiglia”: da questo punto di vista, sarò antifascista orfano e figlio unico.  

La censura del monologo di Scurati

“Ho appreso ieri sera, con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato. Non sono riuscita ad ottenere spiegazioni plausibili. Ma devo prima di tutto a Scurati, con cui ovviamente ho appena parlato al telefono, e a voi telespettatori la spiegazione del perché stasera non vedranno lo scrittore in onda sul mio programma su Raitre. Il problema è che questa spiegazione non sono riuscita a ottenerla nemmeno io.”

Questo è il messaggio scritto il 20 aprile sui propri profili Facebook e Instagram da Serena Bortone, conduttrice del programma Chesarà. Il messaggio innesca un putiferio di reazioni.

Paolo Corsini, dirigente Rai e responsabile Approfondimenti, fa uscire una nota in cui sostiene che la mancata partecipazione di Scurati sia dovuta a una questione di soldi:

Credo sia opportuno non confondere aspetti editoriali con quelli di natura economica e contrattuale, sui quali sono in corso accertamenti a causa di cifre più elevate di quelle previste e altri aspetti promozionali da chiarire connessi al rapporto tra lo scrittore e altri editori concorrenti

Corsini, come dirigente Rai, fino a quel momento era noto soprattutto per la partecipazione ad Atreju, l’evento di Fratelli d’Italia, dove si era fatto scappare un “noi di Fratelli d’Italia”. 

Ma come ricostruito da Repubblica, che condivide la nota interna in cui viene comunicata l’annullata partecipazione per espliciti “motivi editoriali”, la versione di Corsini non sta in piedi. Inizialmente il vicedirettore degli Approfondimenti Giovanni Alibrandi avrebbe proposto una partecipazione gratuita, a fronte di una richiesta esigua per gli standard Rai (1800 euro). Ci si accorda poi per 1500, dopo che Alibrandi ha chiesto una partecipazione gratuita. Nel pomeriggio di venerdì appare però nel servizio telematico interno la notizia della cancellazione. 

Allarmata, un’ora più tardi, la capostruttura del programma, Ilaria Mencarelli, invia una mail alla redazione per ufficializzare la scaletta in cui il nome di Scurati c’è ancora, ma a titolo gratuito. Una mail pro forma, spiegano fonti Rai, nella speranza di sbloccare la situazione senza provocare incidenti, cosa fatta presente anche a Corsini con un carteggio interno (esistente e perciò documentabile), ma rimasto senza risposta. Sino al mattino dopo, quando il post di Bortone scatena il putiferio.

Come fatto notare dall’USiGRai, l’idea che si possa cancellare la partecipazione di un premio Strega per somme del genere è semplicemente ridicola: "Dalla direzione Approfondimenti che ha buttato oltre 6 milioni di euro su un progetto fallimentare come Avanti popolo e ha tagliato le repliche di Report che invece sono a costo zero le motivazioni economiche per escludere Scurati sono chiaramente delle scuse per nascondere la verità che è una sola: si voleva silenziare Scurati e il suo monologo sul 25 Aprile”. La stessa USiGRai denuncerà di lì a poco il “controllo sull’informazione asfissiante” esercitato nell’azienda, proclamando 5 giorni di sciopero.

Il monologo viene poi diffuso, tra ANSA ed “effetto Streisand”, facendo ritorcere il tentativo di censura contro i suoi promotori. Interviene persino la presidente Giorgia Meloni, con un post su Facebook caratterizzato da una cifra politica basilare in lei: il rancore. Meloni interviene dopo una telefonata con i vertici Rai, ingerenza per la quale è stato presentato un esposto alla Commissione Europea. Nella telefonata Meloni si è lamentata perché bisognava farne “una questione di soldi”, riporta La Stampa.

Il post di Meloni fa tre cose: 1) reitera la versione già sbugiardata del mancato accordo sul compenso; 2) pone sé stessa come storica vittima di persecuzione (sono io quella che è sempre stata censurata;) 3) prende di mira la sinistra e lo scrittore Scurati (“trasformato in un bersaglio” denuncia lui stesso), indicando quindi i nemici del caso, contrapposti alla gente comune che fatica ad arrivare a fine mese.

Il motivo della cancellazione è evidente. Una volta visionato il testo definitivo, ha creato imbarazzo che Scurati nominasse apertamente la presidente del Consiglio e l’incapacità di “ripudiare il suo passato neofascista”, optando “per il revisionismo”:

Dopo aver evitato l'argomento in campagna elettorale la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l'esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola "antifascismo" in occasione del 25 aprile 2023). 

“Dietro le quinte”, scrive il Corriere, ha agito anche il timore di una violazione della par condicio: ma se così fosse, partecipare a titolo gratuito non sarebbe stata comunque una violazione? 

Siccome in questi casi si scatena un dibattito molto rumoroso, dove o si minimizza o si dilata la pericolosità del caso, conviene mettere alcuni punti fermi. Casi del genere non sono una rarità, come denunciato dalla stessa USiGRai. Goffo o eclatante che sia, un caso così eclatante non ha prodotto finora dimissioni. L’Ad Rai Sergio Rossi, dopo aver parlato di una Rai vittima di una “guerra politica” ha respinto le accuse di censura e fatto aprire un’istruttoria. In commissione Vigilanza Rai, a maggioranza si è votato contro l'audizione di Serena Bortone e Paolo Corsini. In tutto questo, nessuno si è mai preso la piena titolarità di una decisione, dicendo per esempio “ai sensi della tal regola, in base al tal regolamento, ho deciso così”. 

Immaginiamo perciò le trasmissioni Rai per il 25 aprile 2025. Che cosa accadrà per quella data? Se oggi non ci saranno conseguenze effettive, tra un anno un funzionario solerte, memore del caso del 2024, quando si tratterà di scegliere quale scrittore o scrittrice invitare opterà per qualcuno più innocuo di Scurati. Magari con un bel monologo sugli eccidi compiuti dai partigiani. Nel frattempo, chi nell’azienda ha alimentato le voci di censura sarà stato messo in riga, in un modo o nell’altro. 

Del resto, quanti leader politici dell’opposizione hanno dichiarato, a margine dell’episodio che ha coinvolto Scurati “quando saremo al governo uno dei nostri primi impegni sarà mettere la Rai in mano ai cittadini”? E quanti, se pronunciassero una frase del genere, risulterebbero credibili? 

Il problema dell'antifascismo simbolico 

Occorre mettere mano anche all’altra faccia del problema: la debolezza dei nostri anticorpi democratici. L’abitudine a vivere la dimensione politica per simboli, in un mondo dove la produzione di quei simboli è controllata da altri, e non per principi universali, comunità e spazi da preservare. Come simbolo, o dispositivo retorico, l'antifascismo può essere messo alla prova da una semplice frase: "sì, sono fascista, e allora?" E una frase simile è una sfida, una parola che è al tempo stesso azione. Prende uno spazio e lo fa proprio, e se tutto attorno resta come prima, la sfida è vinta, lo spazio rimodellato. Ecco perché lontano dalla prassi simboli e retorica mostrano i propri limiti.

E, parlando di prassi, quanti scrittori o intellettuali hanno sposato le mobilitazioni della redazione dell’AGI, o della redazione di Repubblica, o della stessa USiGRai in queste settimane? Quanti hanno preso posizione sugli attacchi e le querele contro Domani? Quante posizioni “scomode”, quanti gesti di rottura si è disposti a compiere, quanto si è in grado di rinunciare al quieto vivere, di fronte agli sconvolgimenti che accadono nel mondo e che in qualche modo ci chiamano in causa? Quanto si è disposti a mettere la propria piattaforma tra il repressore e il represso? Chi è disposto a partecipare ad atti di disobbedienza civile? 

Mancano associazioni forti o sindacati con un ruolo centrale come accade in altri contesti, pensiamo per esempio a PEN International o alla Writers’ Guild nel Regno Unito. In Italia scrittori e intellettuali riescono a difendersi in casi come quello di Scurati per la capacità di mobilitare le proprie reti di conoscenze, o perché si ha un agente letterario abile a montare il caso. Manca una comunità di pratiche che faccia valere lo Stato di diritto a prescindere dal colore politico e dal peso specifico. Manca l’abitudine a trovare collante tra varie categorie, o al di fuori delle proprie parrocchie. Così, oltre ai problemi di censura, le querele a giornalisti riguardano i giornalisti, e le inchieste per cui magari vengono intimiditi a colpi di avvocati sono altra roba rispetto ai nobili e alti dibattiti intellettuali che prediligono i massimi sistemi, le dispute senza attrito.

Questo rafforza le differenze di classe: chi ha soldi, conoscenze e un certo grado di potere può difendersi, tutti gli altri saranno costretti all’autocensura, o a impiegare le proprie energie in condizioni impari, ingegnandosi, sperando di farsi cooptare. La difesa di un diritto diviene così possibile nella misura in cui si riesce a esercitare un privilegio, a farsi simbolo di qualcosa. Questa contraddizione a sinistra non è mai stata problematizzata come dovrebbe, e può essere facilmente usata da chi porta avanti un discorso egemonico reazionario. Nel momento in cui si attacca qualcuno in vista, lo si può additare tanto più questi riesce a difendersi in base a quei meccanismi sopra descritti: perciò si perde anche quando si vince. Perché rientrato il pericolo, le reti attivate tornano a fare quel che facevano prima. “Ma se tutto è tornato come prima, dove era poi tutto questo fascismo?” domanda qualcuno, tra malizia e diffidenza.

Ecco allora che gli allarmi su censure e nuovi fascismi si depotenziano anche per questa falla di sistema, mentre non ci si accorge della lenta erosione, o della propria insignificanza al di fuori di quelle cerchie, rispetto a un mondo ben più vasto e terribile. L’unico modo per spezzare questo cerchio è di sedimentare un insieme di pratiche che non passano certo per il potere di bollare gli avversari come “fascisti” e sé stessi come “antifascisti”; occorre vivificare quest’ultima parola nell’esperienza e nell’empatia, più che nelle scelte linguistiche.

Parlando di antifascismi, non mi pare che gli attacchi portati avanti dalla stampa di estrema destra e neofascista contro Valentina Mira abbiano sollevato chissà quali difese o reazioni. Ho visto più difese per shitstorm che per le minacce ricevute da Mira. Come mai? E sì che il libro di Mira, Dalla stessa parte mi troverai, parla della strage di Acca Larenzia e della storia di Mario Scrocca. Un tema divenuto centrale nel revisionismo dell’estrema destra sugli Anni di piombo, e sul bisogno di presentare la propria parte politica come vittima di torti da riparare. Poi però per i saluti romani nelle commemorazioni ad Acca Larenzia ci si indigna senza problemi.

Certo, gli Scurati vanno difesi in caso di censura. Così come va difeso chi è colpito da querela temeraria, uno dei principali problemi della libertà di espressione in Italia, qualcosa di ben più feroce della semplice censura. E che in vari casi vede scrittori, accademici o giornalisti in tribunale per denunce presentate da esponenti del governo, o mentre erano in carica, o prima di giurare (querele che, nel secondo caso, potrebbero benissimo venir ritirate). I casi più recenti riguardano Luciano Canfora e Donatella Di Cesare. Ma queste persone vanno difese come fossero persone comuni. Vanno difese per affermare un principio universale, non perché siano eroi di cui non possiamo fare a meno, e quindi eccezioni.

C’è anzi una debolezza di pensiero diffusa in troppi nostri intellettuali, oggi, di fronte a eventi sconvolgenti come le guerre che divampano nel mondo, dall’Ucraina alla Palestina, passando per Siria, Yemen, Sudan. Prevale il posizionamento a costo zero, quando va bene. Oppure prevalgono posizioni di una piccolezza disarmante, letture vecchie di decenni. Lo scrivo con amarezza, avendo in mente le pochissime eccezioni che mi aiutano a non sprofondare nel pessimismo radicale. 

Lo stesso Scurati, commentando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, non ha saputo andare oltre la retorica dello scontro di civiltà: “Noi siamo quelli che non mozzano le teste dei nemici, non ne stuprano le donne, non ne uccidono i figli bambini. Soltanto dopo secoli e millenni di ferocia belluina, noi europei ci siamo riconosciuti in queste affermazioni identitarie”. Questo è il massimo che in un momento storico così critico e terribile una firma di punta di uno dei principali quotidiani italiani ha prodotto. Non è triste? 

Luciano Canfora sull’Ucraina ha le posizioni di un veterocomunista rimasto all’adda venì Baffone. Oltre a un libro con Francesco Borgonovo, fine intellettuale di estrema destra per cui “la sostituzione etnica è un fatto” mentre non lo è l’origine antropica del cambiamento climatico, sul tema Canfora ha firmato la prefazione a un libercolo la cui versione originale è stata consigliata niente meno che dalle autorità russe. Di fronte a una domanda sul massacro di Bucha, a ridosso dell’episodio per cui è stato querelato, se ne è uscito con la variante comunista di “E allora le foibe?”: “e allora il bombardamento della Nato a Belgrado?”. La sua stessa frase oggetto di querela, di base, è offensiva verso il popolo ucraino, e la spiegazione addotta da Canfora regge nella misura in cui uno ci vuole credere, mettendo da parte i miti sull’Ucraina nazifascista e diritti di chi viene aggredito da una potenza straniera. Quanto a Donatella Di Cesare, già abbiamo scritto in passato sulla pochezza di alcune sue uscite che ne ridimensionano la figura; inutile tornarci. Ognuno si scelga gli intellettuali che vuole, ci mancherebbe: anche questo è un sintomo di libertà. Ma se devo capire la Russia di Putin, preferisco farmela spiegare da Masha Gessen, o Anna Politkovskaja. 

Eppure, bisogna saper tracciare la linea tra frasi sciocche, deprecabili, o ripugnanti da una parte, di cui è giusto chiedere conto a livello di pubblica opinione, e querele temerarie dall'altra; altrimenti è bene farsi un giro ogni qual volta si parla di libertà di espressione. È ridicola l'idea che i membri di un governo e di una maggioranza debbano ricorrere alla querela per diffamazione per tutelarsi e far valere i propri diritti, come se dovessero difendersi da chissà quale minaccia, in particolare in un paese dove ci sono parlamentari che possiedono giornali il cui unico scopo è menare a mezzo stampa chi non si allinea. O che usano l'immunità come scudo per attaccare e aizzare, o per proteggersi dalle denunce per diffamazione. Poco importa se la querela è stata fatta prima o dopo l’essere andati al governo: le querele si possono ritirare. Nel caso di Di Cesare, inoltre, la querela riguarda l’aver commentato le affermazioni di Lollobrigida sulla “sostituzione etnica”, che è definita “mito neo-nazista” dal sito del governo stesso. Una condanna sarebbe impugnata per normalizzare ancora di più quella teoria cospirazionista. 

I Canfora e le Di Cesare vanno difesi perché l'Italia ha un problema strutturale di SLAPP (o querela temeraria); se scrivete e non vi siete mai beccati una querela, non è perché siete più intelligenti di loro. Una SLAPP non dipende dall’aver esagerato, o dall’aver espresso un giudizio “sbagliato”. Non è così che funziona la legge, non è così che ragiona chi ne abusa, non è così che funziona questa destra, che ha come elemento identitario il bisogno rancoroso di “pareggiare i conti”. Nei casi in questione, poi, le querele servono a poter dire: "la parola fascismo non è appannaggio 'vostro', decidiamo noi come e quando usarla. Voi questa parola non avete più diritto di usarla, specie per farci vergognare dei nostri ideali, mentre noi possiamo commemorare i fascisti in mostre a loro dedicate, intestare loro vie e piazze, alla faccia vostra, cari comunistelli”. 

Da parte di Meloni e della sua area politica, inoltre, le querele servono a creare l’idea che non si debba offendere il capo del governo, che cioè sia un reato il “vilipendio della premier”, così come lo è offendere il Presidente della Repubblica. Mentre lei è a Palazzo Chigi, sfilano le immagini di chi va in tribunale per aver osato mancarle di rispetto.

Non basta celebrare il 25 aprile o reclamare la parola “antifascismo”, mentre avanzano i revisionismi e le manipolazioni dei simboli. A proposito dei quali, guardando in casa propria, faccio fatica a capire come mai l'ANPI negli ultimi anni abbia scoperto per i suoi manifesti i simboli di pace, le folle sorridenti con la Costituzione, e via via messo da parte partigiani e partigiane armate. Possiamo nasconderci dietro la sindrome da accerchiamento, i “gnegnegne, polemica di destra”, oppure far funzionare occhi e memoria, per un dibattito interno sui vertici che andrebbe fatto da tempo e non a porte chiuse. Anche perché poi a serrare troppo le fila uno finisce per sbagliare persino le bandiere, mettendo quella ungherese al posto di quella italiana. 

Con anticorpi democratici così deboli, date qualche anno di egemonia a questa destra e vedrete come la parola “antifascismo” sarà così svuotata di senso che le sue élite potranno appropriarsene, ridefinendo come “fascisti” i nemici funzionali al nuovo discorso egemonico. Il tutto con la complicità dei “moderati” e dei “riformisti”. Intanto, i più docili tra i mediocri faranno convegni sul pericolo della “antifa culture”. Se c’è qualcosa che il “politicamente corretto”, la “wokeness” e la “cancel culture” avrebbero dovuto insegnare, è proprio questa capacità da parte del potere di snaturare un’espressione per usarla contro chi l’ha creata.

Insomma, c’è da guardare dentro i propri ranghi, individuare i rami da potare per salvare l'albero, prima che qualcuno usi quei rami incancreniti come scusa per sollevare la scure e abbatterla sul tronco. Come si seleziona cosa tagliare e cosa preservare, come si semina per far germogliare il nuovo? Guardando al presente oltre i confini delle proprie bolle, cercando le pratiche che funzionano, creando reti che siano il più possibile allargate e internazionali, solidali e reciproche nei gesti, nelle relazioni instaurate, estendendo il raggio delle conversazioni, illuminando le opacità. Cedendo spazi e potere a chi sta indietro, moltiplicando le forze e le energie creative. Smettendo di pensare che “sinistra” e “antifascismo” siano un fatto di purezza. Abbandonando l’antimperialismo a senso unico, l’idea che il nemico del mio nemico possa essere mio alleato di rivoluzione: una zavorra che avremmo dovuto mollare almeno dal 2011, dallo scoppio della guerra in Siria.

Se si ritiene una pratica di lotta antifascista lo scrivere articoli per dire “tizio è fascista”, o “tizio non è antifascista”, o andare in televisione a dire “è giusto menare i neonazisti”, bisogna mettere in conto che tutto questo sarà sfidato, e che i modi per vincere queste sfide sono noti da un bel pezzo; e quindi bisogna partire pronti a difendersi, con sapienza strategica e tattica degna dei migliori scacchisti. Altrimenti dove non arriva l’autocensura ci penserà la censura; dove non basta la censura ci penserà l’avvocato, o si faranno nuove leggi. O peggio. O basteranno le leggi che già ci sono, se uno non è particolarmente furbo. Il livello dello scontro si sta alzando, e chi lo porta avanti cerca al tempo stesso il dialogo con quelle figure più concilianti, che fungeranno prima di tutto da foglia di fico mentre si colpiscono gli altri. L’unico scudo che si può far valere, oltre alla capacità di auto-organizzazione dal basso, è lo Stato di diritto. Leggi ordinarie, Costituzione, Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Uno scudo che oggi è sotto attacco anche per cedimento della classe politica espressa dalla sinistra - pensiamo solo alla spirale repressiva in atto nella Germania del cancelliere Scholz. Di fronte a ciò, pensare “ma io sono dalla parte dei buoni!”, non è antifascismo, ma narcisismo. E se devo scegliere tra un intellettuale irrisolto e un bravo avvocato, come compagno di lotta preferisco il secondo.

Immagine in anteprima: frame video La7 via YouTube 

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