Caso Sarah Scazzi a ‘Chi l’ha visto?’, l’orrore della diretta
2 min letturaEsiste e deve esistere un punto in cui chi svolge certi lavori, come l’insegnante, il medico o il giornalista, si rende conto che i regolamenti, le autorizzazioni e la burocrazia non risolvono una volta per tutte e a priori il problema dell’etica, il problema del compiere scelte che, inevitabilmente, incarneranno un valore morale piuttosto che un altro. Esiste e deve esistere, perché altrimenti qualunque nefandezza potrebbe trovare una propria logica assolutoria, perché una società che è passata in mezzo secolo da “obbedivo agli ordini” a “ho seguito le regole”, è una società che in ogni scelta uccide qualcosa o qualcuno. È una società dell’assurdo che si autodistrugge mentre si illude di avere una logica.
Ho questo in mente e sulla pelle, mentre scorrono davanti ai miei occhi le immagini della puntata di ieri sera di Chi l’ha visto?, dedicata alla scomparsa di Sarah Scazzi. A muovermi non è certo la volontà di insegnare a Federica Sciarelli o allo staff della trasmissione come debbano svolgere il loro lavoro: non ho né le competenze né la presunzione per farlo. A muovermi è la volontà di trasmettere, a loro futuro vantaggio, tutto il disagio e il senso di gratuità crudele di fronte ad un’informazione che è al servizio del racconto grondante pathos, e non della verità. Quale valore aggiunto avrebbe dovuto avere, nei piani della trasmissione, la presenza della madre di Sarah Scazzi? Quale contributo concreto avrebbe dovuto apportare la diretta sulla sua angoscia, sulla tensione che vive chi, ad ogni voce, ad ogni condizionale, mentalmente sposta i piatti della bilancia verso “ritrovata” o “scomparsa”, verso “viva” o “morta”. Non era possibile, dopo il primo lancio di agenzia, mandare la pubblicità e parlare con la dovuta delicatezza con la donna, spiegando che forse non era il caso di continuare la diretta e interrompendo il collegamento? Chi vive una prolungata tensione per l’incertezza sulla sorte di un congiunto (chi scrive parla per esperienza personale), ha bisogno innanzi tutto che i professionisti attorno a lui mostrino lucidità; ha bisogno, nella devastante incertezza che vive, di poter guardare a simili figure come ad un punto fermo, di fronte ad un ignoto che infuria come un mare in tempesta in mezzo al quale si è per forza di cose impreparati: chi pensa il contrario forse è convinto che una madre sappia per grazia divina come affrontare la scomparsa di una figlia e la pressione dei media, o che sia obbligata a saperlo. Non ha certo bisogno di speculazioni, di mungitori di angoscia o di giurie che al posto della camera di consiglio hanno una poltrona e uno schermo.
Auspico che, chi ha commesso un simile errore, porga le doverose scuse. Facciamo in modo, per una volta, che la professionalità coincida con la capacità di porre rimedio ad una scelta deprecabile e con l'impegno ad evitare simili dirette, che nulla hanno da spartire con l'idea di servizio pubblico.
Matteo Pascoletti
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