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La marcia dei 7mila verso l’America: “Non partiamo perché vogliamo, ci espelle la violenza e la povertà”

26 Ottobre 2018 13 min lettura

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La marcia dei 7mila verso l’America: “Non partiamo perché vogliamo, ci espelle la violenza e la povertà”

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Chi li ha visti, li ha descritti come un fiume di persone. Sono partiti due settimane fa da San Pedro Sula, in Honduras, per percorrere a piedi oltre 2500 chilometri, attraversare il Guatemala, superare il Messico e cercare di entrare negli Stati Uniti. Ora sono a Huixtla, nel sud del Messico, a 1800 km dagli Usa. Provengono da Honduras, El Salvador, Guatemala, il cosiddetto triangolo nord del Centro America, una delle aree più pericolose al mondo.

via Guardian

Molti di loro sono genitori con bambini piccoli che cercano una vita migliore lontano dalla violenza e dall’assenza di opportunità nei loro paesi d’origine. Secondo un rapporto pubblicato da Consejo Ciudadano para la Seguridad Publica y Justicia Penal, un think tank messicano che si occupa di statistiche sul crimine nei paesi occidentali, per due anni di fila, nel 2012 e nel 2013, San Pedro Sula è stata la città più violenta al mondo.

Le prime persone si sono radunate la sera dell’11 ottobre al terminal dei bus di San Pedro Sula. Circa una settimana prima, l’attivista ed ex parlamentare honduregno Bartolo Fuentes aveva postato su Facebook un volantino intitolato “Caminata del migrante” che dava appuntamento a tutti alla stazione degli autobus alle 8 di mattina del 12 ottobre.

Vamos a acompañar esta gente.Es una lástima que no hayan instituciones en Honduras que puedan apoyar para evitar que...

Pubblicato da Bartolo Fuentes su Giovedì 4 ottobre 2018

“Accorriamo ad accompagnare queste persone. Peccato che non ci siano istituzioni in Honduras che sostengano questa iniziativa per evitare che i migranti partano senza il rischio di cadere in pericolo. Sosteniamoli almeno mentre lasciano il paese. Denunciamo la situazione terribile che stiamo vivendo in Honduras: disoccupazione, insicurezza, povertà. E chi protesta viene inseguito o sparato”, scriveva Fuentes su Facebook. Oltre all’appuntamento alla stazione degli autobus, sul volantino c’era scritto: “Non partiamo perché vogliamo, ci espelle la violenza e la povertà”.

Considerato dal governo dell’Honduras la figura politica che si celava dietro l’organizzazione della carovana e il “volto mediatico dell’evento” per “mostrare l'Honduras come un paese fallito”, come ha detto in un’intervista l’ambasciatore honduregno in Messico, Alden Rivera Montes, al Washington Post Fuentes ha dichiarato di aver cercato solo di aiutare con quel post alcuni honduregni che già da tempo avevano programmato di abbandonare il paese e di essere entrato in contatto con almeno quattro gruppi di persone che su Whatsapp e altri social media si scambiavano messaggi per organizzarsi e partire insieme: «Queste persone di solito emigrano, di nascosto, da sole. Hanno deciso di viaggiare insieme per proteggersi l’un l’altro». Alcuni mesi prima, a marzo, c’era stata un’altra carovana che era riuscita ad arrivare fino in California e, per questo, gli honduregni in procinto di partire chiedevano a Fuentes come fare per riuscire a ripetere l’impresa. In quel caso, a centinaia di migranti era stato fornito un visto speciale dal governo messicano per attraversare il paese o fare richiesta di asilo. Alla fine, alcuni erano riusciti a ottenere un permesso per chiedere asilo negli Stati Uniti, altri erano rimasti in Messico, erano tornati indietro o avevano tentato di attraversare il confine illegalmente.

È difficile provare quale sia stato il ruolo di Fuentes nell’organizzazione della carovana. «Non c'è un organizzatore. Questo è un esodo di massa», ha dichiarato Alex Mensing, coordinatore dei progetti dell’Ong messicana “Pueblo Sin Fronteras”, che ha organizzato in passato altre carovane migratorie, molto più piccole.

Edith Cruz, ad esempio, ha raccontato sempre al Washington Post, di aver saputo della marcia scorrendo il suo feed su Facebook. Stava scorrendo i post sul suo telefono quando ha visto un post sulla carovana su una pagina di notizie della sua comunità che diceva: “Una valanga di honduregni si prepara a partire in una roulotte negli Stati Uniti. Condividi questo!”

En vivo desde San Pedro Sula. Avalancha de hondureños se preparan para salir en caravana para Estados Unidos. ¡Comparte!

Pubblicato da NB su Venerdì 12 ottobre 2018

Erano passate appena tre ore ed Edith – che aveva aperto una piccola impresa che vendeva tortillas insieme al cugino ed era stata minacciata di morte se non avesse consegnato la metà dei profitti – aveva già preparato la borsa ed era pronta a partire.

La storia di Edith non è isolata. Sono tante le persone che hanno raccontato di meditare la partenza e di aver deciso in poco tempo dopo aver letto un messaggio su WhatsApp o un post su Facebook. Jose Mejia, 16 anni, di Ocotepeque in Honduras, ha spiegato di aver saputo della carovana da un suo amico, che ha bussato alla sua porta alle 4 del mattino dicendogli semplicemente “Stiamo andando”: «Ho fatto le valigie in 30 minuti». «Quando sono arrivato al terminal degli autobus, c'erano 30 persone. Poche ore dopo, ce n’erano già centinaia», dice Jose Vijin, proveniente dall’Honduras nord-occidentale.

La copertura di giornali e televisioni, i messaggi sui social network, il passaparola tra amici, vicini e conoscenti ha fatto sì che al momento della partenza già più di 2mila persone fossero pronte a emigrare e tante altre fossero disposte ad aggregarsi lungo il tragitto. Come Irma Rosales che, subito dopo aver visto le immagini della carovana in televisione, ha acquistato un biglietto dell’autobus in El Salvador per raggiungere il gruppo in Guatemala la scorsa settimana o Edilberto Fuentes, fuggito dall’Honduras per andare negli Stati Uniti ma rimasto bloccato per mesi nel Messico meridionale perché senza il denaro sufficiente per pagare un trafficante che gli consentisse di concludere il suo viaggio: «Stavo aspettando un modo per arrivare a nord, e poi ho sentito della carovana».

Carovane di questo tipo, spiegano Kevin Sieff e Joshua Partlow sul Washington Post, sono diventate più frequenti ultimamente perché affidarsi a un trafficante che organizzi un viaggio illegale verso gli Stati Uniti è troppo costoso (si parla di una spesa di oltre 10mila dollari) e viaggiare da soli espone al rischio di essere rapinati, rapiti, aggrediti o stuprati.

E così il nucleo originario si è via via ingrandito. Lungo il tragitto si sono aggiunte più di 5mila persone che procedono per piccoli gruppi a distanza di qualche ora o, addirittura, di giorni l’uno dall’altro.

via Washington Post

Percorrendo 40 chilometri al giorno, la carovana per ora è riuscita ad attraversare il Guatemala – andando da est a ovest e da sud verso nord per evitare le zone più pericolose – e a raggiungere Ciudad Hidalgo, dove i migranti hanno provato a entrare in Messico. Nonostante i tentativi da parte della polizia di frontiera messicana di bloccare il loro passaggio e il ministro degli Esteri messicano avesse detto che non sarebbe entrato nessuno senza i documenti e i visti necessari, quasi tutti i migranti sono riusciti a entrare in Messico.

Ora, dopo quasi 800 chilometri di percorso, i migranti sono più di 7mila, anche se ancora lontani dagli Stati Uniti e con tutto il Messico da attraversare. Martedì scorso erano a Huixtla, nel Chapas, dove hanno ricevuto aiuti dagli abitanti del posto (che hanno dato loro panini e acqua e lasciato scarpe nuove e vestiti sul ciglio della strada), si sono fermati per riposare, lavare i loro vestiti in secchi d’acqua, inviare messaggi alle loro famiglie da alcuni Internet café.

In fuga da violenza e povertà

Edith Cruz aveva deciso di abbandonare l’Honduras a causa del pizzo che era costretta a pagare a una banda che controllava l’area dove aveva aperto la sua piccola attività commerciale insieme al cugino.

https://twitter.com/DARPANASA1/status/1055049780949381121

Anche Miriam Carranza, parrucchiera è fuggita insieme al marito, operaio edile, e sua figlia di 7 anni, Ashley, dopo che una gang locale ha chiesto loro di pagare puntualmente una “tassa di guerra” che, col passare del tempo, è diventata superiore al loro stipendio. «Hanno detto che avrebbero ucciso mia figlia se non avessimo pagato», dice Miriam al Guardian. E così è arrivata la decisione di «lanciare il proprio sacco sulla carovana» di migranti che era partita alla volta del Messico perché «partire in gruppo era più sicuro che viaggiare da soli. L'Honduras non è un paese in cui si può vivere in pace».

Per Gerson Martinez, 22 anni, la carovana è stata l’alternativa alla criminalità. Disoccuppato, era stato avvicinato da una banda che lo voleva costringere a nascondere armi nel suo appartamento. Invece di unirsi ai criminali, la fuga verso gli Stati Uniti per dare una possibilità soprattutto a suo figlio Axel: «Se mi fossi unito, avrei segnato anche il destino di mio figlio. Anche lui, in futuro, sarebbe stato costretto a unirsi a loro".

Aida Acevedo, 26 anni, racconta, mimando con un indice il gesto di un coltello che taglia la gola, di essere stata vittima di diversi tentativi di estorsione, di aver avuto solo 24 ore di tempo per pagare prima di essere uccisa e di aver deciso per questo motivo di tentare la fortuna negli Usa.

Sono tanti i migranti dell’Honduras che descrivono storie simili di estorsioni e minacce di morte, spiega David Agren sul Guardian. Denunciare questi crimini alla polizia è rischioso e in un paese segnato dalla corruzione e dominato dalla criminalità organizzata, trasferirsi in un altro paese diventa l’unica strada percorribile.

https://twitter.com/JoeEEnglish/status/786878718358716416

Mentre centinaia di migliaia di migranti siriani e africani rischiano la vita attraversando il Mar Mediterraneo in fuga da conflitti e violenze, qualcosa di molto simile sta accadendo alle porte degli Stati Uniti, dove migliaia di persone si trovano nel bel mezzo di una guerra non dichiarata, ma sempre più brutale, tra gruppi criminali e forze dell’ordine, scrive Nina Lakhani, reporter freelance dal Centro America per il Guardian. Questo mix tossico, riferisce Amnesty International in un comunicato pubblicato due anni fa, ha generato una delle crisi di migranti tra le meno visibili al mondo.

Si stima che circa 80mila persone provenienti da El Salvador, Guatemala e Honduras, per lo più famiglie e minori non accompagnati, abbiano richiesto quest’anno asilo all'estero, secondo l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il 658% in più dal 2011.

«Quel che è scioccante è l'assoluta mancanza di protezione da parte dei governi», aveva detto il segretario generale di Amnesty, Salil Shetty.

via Guardian

 

Durante gli anni '80, i tre paesi conosciuti come il triangolo settentrionale sono stati interessati da guerre civili tra dittature militari sostenute dagli Stati Uniti e gruppi di guerriglieri di sinistra. Anche dopo la fine delle ostilità, la pace non è mai arrivata nella regione: le amnistie che hanno permesso ai criminali di guerra di sfuggire alla giustizia alimentando una nuova ondata di violenza e corruzione.

In El Salvador, le persone fuggono (e muoiono) allo stesso ritmo di quando hanno combattuto la guerra civile, durata 12 anni, quando ci sono stati 1 milione di sfollati con la forza e 75mila morti. Solo nel 2017, in un paese di 6 milioni di abitanti, sono state uccise più di 6mila persone e almeno 23mila bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola a causa delle violenze.

La maggior parte sogna di arrivare negli Usa, ma i più finiscono per fermarsi in Messico. A Tapachula, nel Chiapas, la più grande città vicino al confine con il Guatemala, i rifugi che un tempo servivano ai migranti transitori che speravano di trovare lavoro negli Stati Uniti sono ora pieni di persone pronte a chiedere asilo in Messico. «Prima, le persone lasciavano la casa in cerca di una vita migliore. Ora fuggono da un giorno all'altro per salvare le loro vite», racconta al Guardian Olga Sánchez Martínez, fondatrice del rifugio “Jesus the Good Shepherd”.

Come Janet Machado, 48 anni, fuggita da La Ceiba, nel nord dell’Honduras, dopo che Gabriela, la sua figlia più piccola, è stata vittima a gennaio di un’aggressione che l’ha lasciata paralizzata, mentre andava a comprare tortillas al negozio all’angolo di casa. Dopo una discussione con un compagno di classe, Gabriela, 14 anni, è stata raggiunta dal padre del ragazzo, che l’ha ferita alla spalla sinistra con un colpo di arma da fuoco a distanza ravvicinata e presa a calci mentre era a terra priva di sensi. Il proiettile ha danneggiato il midollo ed è rimasto bloccato nei polmoni.

Janet è arrivata in Messico dall’Honduras viaggiando insieme ai suoi due figli entrambi sulla sedia a rotelle e il nipote di 2 anni, Donovan. Il figlio maggiore, Eric, 30 anni, ha subito una grave forma di disabilità dopo essere stato colpito da piccolo da meningite. Dopo quattro mesi di soggiorno in un affollato rifugio a Tapachula, le è stato riconosciuto lo status di rifugiata. Ora spera di arrivare negli Stati Uniti per unirsi alla madre di Donovan che lavora come addetta alle pulizie in Texas. «La sicurezza in Honduras sta peggiorando e non puoi fidarti delle autorità. Tutti sanno chi ha sparato a mia figlia, ma è ancora libero. Anche se lo arrestano, le cose per noi potrebbero peggiorare. Non possiamo tornare indietro», ha detto Janet al Guardian.

Nei primi sei mesi del 2018, l'agenzia messicana per i rifugiati, Comar, ha ricevuto oltre 3mila richieste di asilo, con un incremento del 150% rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma, nonostante un aumento significativo del numero di domande approvate nell’ultimo anno, secondo gli attivisti sono ancora troppe le richieste di asilo che vengono respinte o che hanno tempi di valutazioni molto lunghi.

Molto spesso, spiega Perrine Leclerc, direttrice dell’Unhcr a Tapachula, le richieste di asilo vengono respinte sulla base del fatto che i migranti provenienti da Honduras, Guatemala ed El Salvador possono cambiare città all’interno del proprio paese. Queste decisioni, secondo Leclerc, violano i protocolli nazionali e internazionali perché «il trasferimento interno come alternativa sicura all'asilo dovrebbe essere usato solo in circostanze molto specifiche e non in piccoli paesi come quelli dell'America centrale dove la violenza è generalizzata».

Solo in Honduras nel 2017 sono state uccise più di 8mila persone su una popolazione di 8,5 milioni di abitanti. Nell’ultimo anno, oltre 100mila famiglie sono state fermate al confine meridionale degli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante gli avvertimenti dell’Onu, Usa, Messico e i paesi del triangolo settentrionale non hanno riconosciuto il forte incremento di violenze ed emigrazioni.

«Le persone fuggono dall'America Centrale per salvare la propria vita e quella dei propri figli, bisognosi di aiuto. Eppure la principale politica del Messico è di detenerli e impedir loro di raggiungere gli Stati Uniti, invece di offrire protezione», ha detto Fermina Rodríguez, del “Centro per i diritti umani Fray Matías” a Tapachula.

Le accuse (e le bugie) di Trump

In una serie di dichiarazioni su Twitter, il presidente statunitense, Donald Trump, ha accusato la carovana di essere un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti, perché i migranti avrebbero attaccato le forze di polizia in Messico, in mezzo a loro si sarebbero infiltrati anche potenziali terroristi mediorientali e sarebbero stati pagati dai Democratici (e da Soros) che vorrebbero i confini aperti.

Tuttavia, come mostra un lungo lavoro di verifica del sito Snopes, le affermazioni del presidente degli Stati Uniti non hanno trovato riscontro. Trump, scrive Independent, avrebbe rilasciato queste dichiarazioni false e fuorvianti nel tentativo di fare della carovana una materia di campagna elettorale e attrarre consensi verso i Repubblicani in vista delle elezioni di medio termine del 6 novembre.

Incalzato dai giornalisti, Trump ha dovuto ammettere di non avere prove a sostegno della presenza di potenziali terroristi mediorientali tra i migranti provenienti dall’Honduras. Dietro le sue dichiarazioni c’è stata probabilmente, spiega Snopes, la sovrapposizione di due storie completamente separate tra di loro: l’annuncio nei primi giorni di ottobre da parte del presidente del Guatemala, Jimmy Morales, di aver arrestato 100 persone collegate all’Isis e la partenza, avvenuta molti giorni dopo, della carovana dall’Honduras. La notizia falsa della presenza di pericolosi terroristi vicini all’Isis all’interno della carovana è stata diffusa dall’organizzazione di estrema destra Judicial Watch e poi ripresa da Trump che su Twitter ha parlato di “sconosciuti mediorientali tra i migranti che viaggiavano verso nord”.

Anche le affermazioni sui presunti finanziamenti da parte dei Democratici e di Soros alla carovana si sono rivelate prive di fondamento. In particolare, rispetto a Soros, Trump ha fatto riferimento a un video pubblicato dal deputato repubblicano della Florida, Matt Gaetz, che mostra alcune persone in Guatemala ricevere del denaro.  Gaetz sostiene senza alcuna prova che il denaro proverrebbe dal miliardario George Soros, mentre Trump dice che proveniva dai democratici.

Il video, scrive Snopes, mostra un gruppo di migranti, già accodato alla carovana, in procinto di salire su un autobus con una banconota guatemalteca (del valore di pochi dollari) tra le mani, che spesso abitanti del posto o Ong danno a chi parte per pagare beni di prima necessità come cibo e acqua.

In un tweet di risposta a Gaetz, Open Society Foundation ha dichiarato di non aver nulla a che fare con la carovana.

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Nonostante le affermazioni di Trump, la carovana prosegue per la sua strada. Le minacce del presidente degli Stati Uniti di tagliare gli aiuti ai paesi latino-americani fino a quando non verrà fermata la carovana hanno avuto un impatto minimo sui manifestanti. Su un cartello portato da alcuni migranti si poteva leggere: “Emigrare non è un crimine. Siamo liberi, senza confini”. «Dio è colui che deciderà se ce la facciamo, Trump non ha questo potere», ha dichiarato una delle persone in viaggio al Guardian.

L’esodo delle migliaia di donne, uomini e bambini, che hanno deciso di percorrere gli oltre 2500 chilometri che li separano dall’Honduras agli Stati Uniti, è il simbolo del momento storico che stiamo vivendo, in cui gran parte delle persone sono sradicate dai posti dove sono nate e cresciute per andare a vivere altrove. Un fenomeno che riguarda l’Europa come l’America, l’Africa come l’Oriente. “Sono persone coraggiose, intraprendenti e determinate a migliorarsi”, scrive il Guardian in un editoriale. “Potrebbero diventare il tipo di cittadini di cui ogni paese ha bisogno e ogni politico dovrebbe essere orgoglioso”. E invece contro di loro si alzano muri perché sono visti come poveri che devono vivere in paesi poveri e non come persone che, come scrive Agus Morales nel libro “Non siamo rifugiati”, “lottano, piangono, si arrabbiano, non si arrendono, ci riprovano, ci riprovano, ci riprovano”.

Foto in anteprima Afp via The National

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