Come risolvere il problema del caro affitti per gli studenti universitari
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Con la ripartenza dei corsi universitari in autunno si sono riaccese le proteste degli studenti fuorisede per il caro affitti. A fine settembre il sindacato studentesco Unione degli Universitari (UDU) ha organizzato una mobilitazione nazionale con presidi davanti alle Facoltà dei maggiori atenei italiani. Nei giorni scorsi, anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la celebrazione degli 800 anni dell'Università Federico II di Napoli, ha detto che «la questione alloggi per studenti fuori sede è di primaria importanza». Tuttavia il problema degli affitti troppo alti per studenti e lavoratori (di cui avevamo già parlato in questo articolo lo scorso maggio), non sembra ancora in via di risoluzione.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Due soluzioni potenzialmente inconcludenti
In generale, il problema attuale degli affitti elevati nelle grandi città è dovuto all’incidenza di fattori congiunturali e strutturali. Con i primi si intendono tutti quegli elementi temporanei – come l’ondata inflattiva che ha colpito l’Europa nell’ultimo anno e mezzo e il rincaro dei prezzi dell’energia (riflessi nel costo delle bollette) – che contribuiscono all’aumento degli affitti ma che non rappresentano la causa ultima del problema. Il caro bollette e l’inflazione sono solo concause. Il fattore strutturale è un altro, ed è la scarsa offerta di immobili a fronte di una domanda molto alta di studenti e lavoratori. Perciò, in questo articolo ci concentriamo solo sull’aspetto strutturale del caro affitti, tenendo però presente che alcuni fattori congiunturali, come quelli già citati, contribuiscono a esacerbare il problema. Ad ogni modo, se la causa principale del caro affitti è la scarsa offerta, la soluzione deve necessariamente mirare alle determinanti della bassa disponibilità di immobili.
Le proposte emerse finora dal dibattito pubblico, invece, sembrano andare in tutt’altra direzione, e rischiano di essere inconcludenti nel migliore dei casi o addirittura dannose nel peggiore. Tra queste ci soffermiamo in particolare su due: il tetto agli affitti e il reddito universitario. La prima proposta consiste nello stabilire per legge un prezzo massimo per gli affitti oltre il quale i proprietari non possono andare. Purtroppo questa misura potrebbe addirittura peggiorare la situazione, perché avrebbe il controverso effetto di generare ulteriore scarsità nell’offerta degli immobili. Una parte dei proprietari, non essendo obbligati a mettere in affitto le proprie case, potrebbe decidere di lasciare i propri immobili sfitti, in quanto giudica il prezzo imposto dal tetto non conveniente. Perciò gli affitti sarebbero sicuramente più bassi, perché si assesterebbero sulla cifra limite stabilita per legge, ma le case disponibili al nuovo prezzo sarebbero molte meno delle già poche presenti sul mercato. Inoltre, se anche la maggior parte dei proprietari fosse disposta a mettere in affitto le proprie case, non è escluso che il tetto incentivi i locatori a chiedere in nero la differenza fra il ‘vecchio’ prezzo e il massimo imposto per legge. Nel primo scenario la situazione di studenti e lavoratori peggiora, nel secondo rimane esattamente la stessa.
Lo stesso vale per la proposta di un reddito universitario per gli studenti. Dare un sussidio ha come effetto un aumento della domanda: se ho più soldi in tasca sono disposto a sborsare di più. Questo significa che con il reddito universitario il numero di studenti in grado di permettersi una casa in affitto ai prezzi attuali salirà. Di solito quando la domanda di un bene sale molto, nell’immediato i venditori possono solo aumentare il prezzo dei loro prodotti per far fronte alle maggiori richieste. Tuttavia, dopo un po’, aggiustano i volumi di produzione e riescono a portare maggiori quantità di quel bene sul mercato. Questo accade soprattutto per beni facilmente riproducibili, come diversi prodotti alimentari (gelati, pizze, pane). Il problema, però, è che quella degli immobili è un tipo di offerta molto rigida: la disponibilità di nuove case sul mercato si adatta molto lentamente a un aumento delle richieste, perché costruire nuovi immobili non è immediato come produrre più gelati. Concretamente questo significa che davanti a una maggiore domanda di case, non potendo esserci un corrispettivo aumento di immobili da dare in affitto, i proprietari si limiteranno ad aumentare i prezzi delle case già sul mercato. In questo modo, il reddito universitario finirebbe per essere interamente assorbito dai nuovi aumenti dei prezzi, col risultato di avere arricchito i proprietari di case e lasciato gli studenti nella situazione di partenza.
Incentivare i proprietari a mettere sul mercato gli immobili sfitti
Il tetto agli affitti e il reddito per gli studenti non sono quindi misure efficaci, la soluzione va cercata altrove. Ci sono diverse strade che il legislatore può intraprendere. Nessuna di queste, da sola, è la via maestra, ed è più probabile che sia necessario implementare un mix di strategie diverse. Tutte, però, devono agire dal lato dell’offerta di immobili. Come suggerisce Massimo Taddei su Domani, una prima mossa potrebbe essere quella di incentivare i proprietari a mettere sul mercato immobili attualmente sfitti. L’incentivo può essere di natura fiscale. Ad esempio, il governo potrebbe aumentare l’IMU sugli immobili sfitti, oppure diminuirla per gli immobili affittati. Allo stesso tempo, si potrebbero rendere i contratti di affitto più sicuri per i proprietari, cambiando la regolamentazione sulla morosità e sulla risoluzione anticipata del contratto per altri inadempimenti. La rigidità dei contratti di locazione è infatti una delle cause della scarsa offerta di immobili: aumentare le garanzie dei locatori può spingere questi ultimi a prendersi ‘rischi’ maggiori con nuovi inquilini, fermo restando che esiste un tema di morosità incolpevole di cui va sempre tenuto conto (qui un nostro articolo di approfondimento con cenni sul fondo per la morosità incolpevole e il blocco degli sfratti del decreto Cura Italia di aprile 2020).
Interventi sulla cedolare secca
Un’altra iniziativa, sempre di natura fiscale, potrebbe essere quella di limitare la cedolare secca ai soli contratti di affitto a canone concordato. La cedolare secca è un regime di tassazione sostitutivo dell’Irpef per i redditi da locazione. Attualmente, si applica sia agli alloggi affittati a canoni di mercato sia a quelli affittati a canone concordato, cioè con un canone più basso rispetto alla media di mercato. La cedolare secca stabilisce un’aliquota del 21% per i canoni di mercato e del 10% per i canoni concordati, e per entrambi prevede l’esenzione dal versamento dell’imposta di registro e di bollo per la registrazione. Si tratta quindi di un regime vantaggioso soprattutto per proprietari con redditi alti che non godono di particolari detrazioni fiscali con la tassazione ordinaria. Riservare la cedolare secca ai soli contratti a canone concordato potrebbe incentivare una maggiore diffusione di questi ultimi, perché a quel punto il regime fiscale sostitutivo non si applicherebbe più agli affitti con canone di mercato. Gli affitti a canone concordato assolvono una funzione sociale importante perché risultano più accessibili per studenti e lavoratori a basso reddito.
Più immobili per gli studenti universitari
Quelle di natura fiscale sono tutte soluzioni applicabili dal decisore politico nel breve periodo, ma da sole non bastano. Occorre agire anche su medio e lungo termine. Una parte dei fondi del PNRR prevede, ad esempio, la costruzione di nuovi alloggi universitari: circa 60mila entro il 2026. Ma ci sono delle criticità. Come spiegato in un altro articolo, i decreti di attuazione del PNRR non hanno ancora fissato una quota di alloggi da riservare a studenti meritevoli in stato di necessità economica; e inoltre per queste residenze non sono state stabilite per ora delle tariffe agevolate (come per quelle offerte dagli enti regionali di diritto allo studio, ad esempio). Se non verranno sciolti questi nodi, gli studenti rischiano di vedersi costruire degli immobili egualmente inaccessibili per le loro tasche.
Ci sono però altre iniziative, oltre al PNRR, per aumentare l’offerta di case. Una di queste passa attraverso l’incentivo ai frazionamenti degli attuali appartamenti (pubblici e privati) e la realizzazione di alloggi più piccoli con sale comuni. Questo tipo di costruzione favorirebbe l’offerta di appartamenti a basso costo, perché di minore metratura, e allo stesso tempo non condannerebbe gli studenti a spazi personali eccessivamente angusti. Di contorno va potenziato il trasporto pubblico extraurbano, in modo da consentire agli studenti e ai lavoratori della stessa provincia, ma fuori comune, di potersi recare all’università del proprio capoluogo senza affittare per forza un appartamento o una stanza (si stima che questi siano circa 100mila sul totale dei fuori sede).
L'annosa questione degli affitti brevi
Ci sono poi due ulteriori nodi da sciogliere: la proliferazione degli affitti brevi e la collocazione degli edifici universitari. Con il primo si intende la diffusione crescente, soprattutto nelle località turistiche, di appartamenti affittabili solo per periodi molto brevi (giorni o settimane) tramite piattaforme private come Airbnb. Questa pratica, di solito più redditizia per i proprietari, ha come effetto collaterale quello di abbassare ulteriormente l’offerta di immobili per gli affitti lunghi nelle grandi città – e cioè il tipo di affitti che interessa a studenti e lavoratori.
Il problema è ben noto agli amministratori locali. Lo scorso aprile gli assessori di undici città (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Verona, Padova, Parma, Lodi, Bergamo), in occasione di un workshop a Bologna, hanno redatto un manifesto con una lista di cinque proposte al governo per una politica nazionale sulla casa. Tra queste veniva richiesta una legge di regolamentazione per governare gli impatti degli affitti brevi turistici, che a detta del manifesto starebbero progressivamente incidendo sull’intero sistema abitativo. Al riguardo, uno studio sul fenomeno dell’overtourism nelle città italiane dell’Università La Sapienza di Roma calcola che nel 2019 il 29% delle case nel centro storico di Firenze veniva messo in affitto tramite la piattaforma Airbnb. A Bologna, Venezia e Roma i numeri erano rispettivamente del 32%, del 21% e del 17%. Questi dati vanno però usati con cautela perché risentono dell’anno di riferimento e del modo in cui viene calcolata l’area del centro storico in ogni città; inoltre le percentuali non sono uniformi e rispecchiano una certa variabilità tra i capoluoghi. È difficile quindi esprimere una valutazione univoca sul fenomeno degli affitti brevi in Italia, ma sicuramente ha un suo peso.
Che fare al riguardo? Una bozza della legge di bilancio fa trapelare una possibile strategia del governo: aumentare l’aliquota della cedolare secca dal 21% al 26% per gli affitti brevi (p. 16, articolo 18). Anche se dai calcoli del Sole24Ore non si direbbe una misura molto efficace: l’affitto breve rende di più anche con l’aliquota della cedolare secca al 26%. Tuttavia all’estero si sperimentano anche altre misure ‘Airbnb’, come le restrizioni per zone e i limiti ai pernottamenti. New York è forse l’esempio più noto di questa lotta. Da tempo nella città di New York è vietato affittare una casa per un periodo minore di 30 giorni con piattaforme private, a meno che all’interno dell’abitazione non sia presente anche il locatore. Inoltre, non è possibile avere più di due affittuari alla volta. Da settembre 2023, però, le restrizioni sono aumentate e ai locatori viene prima richiesto di iscriversi a un registro per affitti brevi della città. Prima di riscuotere le tariffe associate ai soggiorni, le piattaforme private come Airbnb dovranno assicurarsi che la domanda di iscrizione del locatore al registro in questione sia già andata a buon fine. I proprietari che usano Airbnb senza essere iscritti al registro, o che violano altre regole, possono essere multati fino a 5.000 dollari, mentre le piattaforme incorrono in multe fino a 1.500 dollari se coinvolte in transazioni per affitti illegali.
Dove collocare le strutture universitarie
Infine, rimane la questione del collocamento delle strutture universitarie. Si tratta forse del vero elefante nella stanza di cui si discute ancora troppo poco. La maggior parte dei poli universitari italiani si trova infatti in pieno centro urbano, e se vogliamo è proprio questa la prima causa dell’intero problema affitti. Nessuna legge o precetto naturale stabilisce che le università italiane debbano stare ancora nel centro storico delle grandi città. Le moderne esigenze dell’università di massa, di un’istruzione che non rimane appannaggio esclusivo di una ristretta élite di famiglie benestanti, richiede in prospettiva uno spostamento delle Facoltà universitarie al di fuori dei centri urbani. Basti pensare che, stando ai dati più recenti del MIUR, nell’anno accademico 2021/22 si è iscritto all’università un totale di 1.609.292 studenti. Di questi, lavoce.info stima che il numero di fuorisede si aggiri attorno ai 900.000 studenti. Sono numeri molto alti che inevitabilmente si scontrano con la reale disponibilità di case nel centro storico delle grandi città. Questo vuol dire che nel lungo periodo sarà necessario porsi il problema di decentrare le università, costruendo dei campus lontani dai centri urbani con alloggi e strutture dedicate. Si tratta di una soluzione ineludibile, che anche altri paesi – Stati Uniti per primi – hanno ormai adottato da tempo. A onor del vero, va detto che alcuni atenei italiani hanno già intrapreso questa strada. Si pensi ad esempio al polo delle scienze sociali dell’Università di Firenze, costruito nel 2002 fuori dal centro urbano, nel quartiere di Novoli. Lo stesso vale per l’Università di Tor Vergata a Roma, situata nell’omonimo quartiere della periferia, o per la sede distaccata di Matera dell’Università degli Studi della Basilicata di Potenza. Si tratta, però, di una piccola minoranza di atenei: il processo di decentramento delle università italiane è ancora in una fase aurorale.
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