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Il caso Rovelli e la società dell’avanspettacolo

15 Maggio 2023 8 min lettura

Il caso Rovelli e la società dell’avanspettacolo

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"Accountability" è un termine chiave dei processi democratici: indica “l'obbligo o la volontà di accettare la responsabilità o di rendere conto delle proprie azioni”. Nel linguaggio del potere anglofono, da grandi poteri derivano grandi responsabilità, e queste sono un fatto sociale di rilevanza pubblica; non un atteggiamento morale, o una sensibilità soggettiva. Più ci si allontana da questo principio, più il potere diventa impunità, e l’esercizio di una libertà diventa privilegio.

In Italiano "accountability" è difficile da tradurre, la parola che più si avvicina è forse “trasparenza”, che però non rende appieno le sfumature: la trasparenza è una caratteristica, non un processo che riguarda relazione tra individui. Questo già permette una prima stima di come "accountability" sia un concetto non perfettamente integrato nella nostra cultura. Nel linguaggio del potere nostrano, infatti, prendersi delle responsabilità è in un certo senso sinonimo di “esser fessi”. E nel vocabolario che indica i fessi, così come i comportamenti in cui l’imperativo è di non passare per fessi (i fessi stanno di solito in basso nelle gerarchie di potere), la lingua inglese proprio non sa starci appresso.

Così quando una persona in una posizione di potere prende una decisione sbagliata, o scellerata, o persino malevola, per costume e abitudine c’è in noi un’aspettativa. Ossia che quella persona farà tutto tranne riconoscere l’errore e pagare le conseguenze sul piano sociale. In Italia, si sa, nessuno si dimette mai.

Quello che ci aspettiamo, è solitamente una specie di teatrino dall’allestimento grottesco, di fronte al quale non è facile nemmeno capire quale atteggiamento avere. Dall’indignazione all’indifferenza, ogni sfumatura di reazione sembra giustificata e al tempo stesso fuori bersaglio. E così, nel frattempo, quell’allestimento, seppur fondamentalmente triste e al fondo ripugnante, conosce infinite repliche nel tempo, tanto da essere canone. Anzi, se si vuol far carriera conviene prima o poi imparare i mestieri che ruotano intorno alla sua messa in scena, nella speranza che non tocchi mai la parte del protagonista principale.

Solo così si spiega la figuraccia di Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori. Figuraccia per cui, non a caso, conviene scomodare una parola tedesca: “fremdschämen”, ossia l’imbarazzo che proviamo per qualcosa fatto da un’altra persona.

Non a caso, dicevamo, perché Levi riveste anche il ruolo di Commissario straordinario del governo per la Fiera del libro di Francoforte. L’Italia sarà ospite d’onore nel 2024: tra le varie iniziative previste, figura una lezione inaugurale del fisico Carlo Rovelli.

Lo stesso Rovelli, tuttavia, venerdì pomeriggio ha condiviso su Facebook il testo di una mail inviatagli da Levi, premettendo “L'Italia mi ha chiesto di rappresentarla alla cerimonia di apertura della Fiera del Libro di Francoforte, ma siccome ho osato criticare il ministro della Difesa, il mio intervento è stato cancellato”.

Il testo della mail è rappresentativo di tutta una cultura di potere grigia e odiosa. Troviamo infatti il sasso lanciato in una direzione che avrà per forza di cose conseguenze pubbliche, la mano nascosta dietro la cortesia formale, i giri di parole per non dire apertamente cosa non andava dell’intervento, l’amichettismo passivo-aggressivo che usa il lei mentre scarica il peso della reazione su chi subisce la decisione (“Spero, almeno, che possa contribuire a non farmi perdere la sua amicizia.”). 

La mail è tanto fumosa nella sostanza quanto certa nelle conseguenze. L’editore di Rovelli, Adelphi, nel condannare l’episodio parla inizialmente di “autocensura” del presidente dell’AIE, modificando in seguito il testo su Facebook. Come fatto notare da più parti, infatti, la decisione di Levi arriva dal suo essere Commissario straordinario, carica per la quale risponde direttamente alla Presidenza del consiglio. Guido Crosetto, chiamato in causa da Rovelli e dal contesto dell’intervento durante il primo maggio, si sfila con astuzia parlando della decisione di “qualcuno” (“un amico” di Rovelli), dopo aver polemizzato via tweet in occasione dell’intervento di questi il primo maggio. Va ricordato, quando a Crosetto le parole colpiscono un punto debole, come per esempio l’inchiesta di Domani proprio sul suo ruolo come consulente di Leonardo, il tono cambia radicalmente, e si finisce a parlare di mandato agli avvocati.

La giornata di sabato, insomma, va avanti tra polemiche, attestati di stima verso Rovelli, critiche a Levi e al suo realismo più realista del Re. Lo stesso ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, chiede un ripensamento, così come l’Associazione italiana editori. Si arriva così all’inversione a U da parte di Levi. Il quale dichiara di non aver ricevuto alcuna pressione politica, di aver preso la decisione in qualità di Commissario straordinario. Rovelli, a quanto pare, ha deciso che andrà comunque a Francoforte: l’amicizia tra i due, insomma, sembra salva. Intanto, comprensibilmente, arrivano anche richieste di dimissioni.

Ora, questo dibattito non è nato per la decisione di Levi, poiché Levi stesso ha scelto di comunicarla via mail, senza nemmeno squadrare la pietra dello scandalo: il modo è sostanza, in casi del genere. Se Rovelli non avesse deciso di rendere pubblica tanto la decisione quanto la mail, non ci sarebbero state reazioni o inversioni di marcia. 

Proprio perché è una questione pubblica, proprio perché l’accountability vale anche per un personaggio pubblico e un intellettuale come Rovelli, e perché la libertà di espressione è qualcosa che si esercita e non una performance, mi preme sottolineare un aspetto della vicenda. Se il Rovelli fisico non è in discussione, il Rovelli intellettuale impegnato è invece una figura davvero piccola, ed è triste sia stato scelto per rappresentarci all’estero in un momento storico così delicato. 

Per un pubblico italiano, è normale che il primo pensiero sia stato “Rovelli censurato per aver attaccato Crosetto”, e non solo per l’imbeccata dello stesso Rovelli. Ma se pensiamo a una platea internazionale, è la prospettiva da tankie (ossia il veterocomunismo da 1956, quando si difendevano i carri armati in Ungheria) di Rovelli il problema. Le sue imbarazzanti, superficiali, qualunquiste posizioni sull’invasione dell’Ucraina iniziata nel febbraio 2022. L’antiamericanismo (o antioccidentalismo) travestito - male - da pacifismo, dove il diritto esiste solo come metà articolo 11 della Costituzione, o per poter dire, di fronte ai crimini di guerra russi, “e allora gli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq?” (la versione tankie di “e allora le foibe?”). Le false equivalenze tra Putin e Zelensky ("due maschioni tatuati di periferia") che fanno scomparire le posizioni univocamente illegittime del primo e i rispettivi popoli. L’idea malsana che, siccome c’è stata la seconda invasione dell’Iraq e l’Afghanistan, non si può fare la morale a Putin. Questi alcuni dei leit-motiv sciorinati nell’ultimo anno da Rovelli.

Immaginatevi se un delitto impunito nel passato diventasse la scusa per giustificare in tutto o in parte nel presente un omicida plurimo. Eppure c’è chi questo genere di discorsi lo chiama “geopolitica”, o “realismo”. Evidentemente è fesso chi, nelle Nazioni Unite, chiede conto agli Stati Uniti per Guantánamo: non ha ancora capito come funziona davvero il mondo. Eppure sono posizioni che un certo establishment intellettuale in Italia accompagna, solitamente in tivù o in prima serata, o quando presenta libri pubblicati con i principali editori, dalle lamentele sul fatto che non si può parlare di pace, che c’è una ferrea censura. Nutrendo prima di tutto il proprio ego, e quello di un pubblico che, rispecchiandosi nei propri beniamini, può sentirsi a posto con la coscienza, mentre ti spiega che “la pace si fa con il nemico”. In aggiunta a ciò, questo ruolo fa passare in secondo piano il merito delle posizioni, o il contesto più approfondito dell’invasione: come fai a chiedere conto delle scempiaggini dette, se devi scansare l’accusa di essere “censore” delle “voci libere”, dei “pensatori controcorrente”?  

Se vi sembra eccessivo, rispondete a queste domande: qual è la posizione dei Rovelli sui rapporti delle missioni OSCE in Ucraina? Qual è la posizione sul mandato di cattura internazionale per la deportazione di minori ucraini che la Russia sta portando avanti dal 2014, e che ha intensificato dopo l’invasione su larga scala? Come si collocano i Rovelli rispetto alla Convezione sul genocidio, allo Statuto di Roma, alla Convenzione di Ginevra? Vanno fatte rispettare? Se sì, come? Cosa ne pensano i Rovelli degli anarchici che combattono in Ucraina? E del manifesto femminista “Il diritto a resistere”? Quali dovrebbero essere le condizioni discusse per la pace? Chi dovrebbe poi garantirla e in base a quali norme? Cosa ne pensano i Rovelli della situazione in Cecenia, Moldova, Georgia e Bielorussia? E della Siria? Perché i Rovelli non manifestano per chiedere a curdi e Turchia di fare la pace, visto che “la pace si fa col nemico”? 

Qualunque intellettuale che parli pubblicamente su questi temi, e che a domande di questo tipo non sa dare una risposta di spessore, circostanziata e competente, è adatto al limite a rappresentare sé stesso. Oppure un paese dove filosofi, scrittori, giornalisti e attivisti possono pubblicamente negare o sminuire le responsabilità per il massacro di Bucha, e poi far finta di nulla nei mesi a venire, quando le prove diventano incontrovertibili, perché sanno che non dovranno fare i conti con alcuna accountability. Non per altro, ma fuori da una certa sfera di influenze, privilegi e gatekeeping (ossia la “selezione all’ingresso” nelle gerarchie sociali), certe posizioni diventano facilmente oggetto di domande da parte di giornalisti, o di critiche nel merito, senza sconti dagli “amici”. Specie se uno scrittore ucraino magari invitato anche lui alla Fiera di Francoforte nel 2024 cerca su Google “Carlo Rovelli”.

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Proprio per il ruolo che ricopre, Levi avrebbe potuto semplicemente rendere pubblica tanto la sua decisione quanto le motivazioni; giusta o sbagliata che fosse, era nelle sue facoltà prendere quella decisione. Se una persona chiamata a rappresentare un paese prende delle posizioni considerate indifendibili, mettere in discussione quel ruolo di rappresentanza non solo è lecito, ma si crea un'aspettativa in tal senso; esiste un punto oltre cui si tira una linea. La libertà di espressione non è immunità a qualunque conseguenza. Evidentemente dire bestialità sull’Ucraina è considerato lecito in Italia, o persino giusto. C’è consenso attorno a ciò, anche se il consenso di solito è la moneta spesa dai demagoghi.

Per le modalità scelte, per la goffa retromarcia, per l’evidente incapacità di mettere in conto le possibili conseguenze, di fatto abbiamo invece assistito a un penoso tentativo di censura. Da questo punto di vista, Levi ha perso ogni credibilità sia come Commissario straordinario, sia come presidente dell’AIE. E, ovviamente, ha regalato la possibilità di giocare la carta del martire a chi, nel dibattito pubblico, monopolizza spazi in chiave autoreferenziale su temi quanto mai cruciali. 

Ma se c’è un tempo per ogni cosa, state tranquilli che questa regola non sembra valere per l’Italia: è sempre e comunque tempo per essere tutti amici, almeno formalmente, anche quando ci si straccia le vesti contro il “pensiero unico”. Se Levi non si dimette da Commissario straordinario, c’è da sperare che da qui alla Fiera del 2024 i giornalisti che saranno là si dimentichino di tutta la faccenda. Sennò sai che magra figura, alla prima domanda rivolta a un Rovelli o a un Levi, mentre son seduti uno accanto all’altro in conferenza stampa, come nulla fosse.

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