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Se vogliamo capire la Storia dobbiamo ascoltare la natura

22 Settembre 2024 5 min lettura

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Se vogliamo capire la Storia dobbiamo ascoltare la natura

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Pubblichiamo un estratto dal libro Il gelso di Gerusalemme (Feltrinelli) di Paola Caridi (Cofondatrice e presidente di Lettera 22 e firma di Valigia Blu).

Raccontano, le piante, di quando gli uomini hanno per esempio deciso l’irrilevanza di un albero, l’hanno abbattuto, bruciato o, peggio ancora, gettato via in discarica assieme a un assemblaggio caotico di cose. Cose considerate inutili. In quel momento, nel momento in cui la storia umana si “libera” degli alberi, viene meno anche un brano importante della narrazione. Perché c’è una storia che è oltre il passaggio degli umani, a cui gli alberi assistono come testimoni, più spesso come vittime sacrificali, e che ci dice altre, diverse cose sulla terra che attraversiamo solo temporaneamente, come individui e collettività. Come specie.

Gli alberi hanno una loro cronologia. O, per meglio dire, ce l’avrebbero, se non intervenissero gli umani ad alterare il paesaggio, a immaginarne uno nuovo e a costruirlo ex novo attraverso quello che si chiama “paesaggio progettato”. Cosa direbbe la loro cronologia? Cosa potrebbe dire, per esempio, rispetto a una lettura della Storia che si è solamente (e malamente) definita attraverso il nostro tempo umano, talvolta tanto breve da coincidere con il tempo degli individui e delle generazioni, senza neanche considerare almeno una suddivisione temporale della Storia che sia globale, intraspecie, interconnessa?

Ho cominciato così, pochi anni fa, a essere attratta da altri protagonisti, stavolta nonumani, della storia contemporanea dell’Asia occidentale. Protagonisti altri in uno spazio geografico che, dunque, comprende Israele/Palestina e tutta quella fascia a oriente del Mediterraneo che è stata, soprattutto a cavallo tra XIX e XX secolo, riprogettata non solo nei confini dettati dalle potenze coloniali europee come gli imperi francese e britannico, ma anche attraverso un paesaggio su cui gli esseri umani hanno lavorato come se fosse una serra. Al pari di altre regioni, nel pianeta, anche lo spazio tra l’Asia orientale e il Mediterraneo è stato trattato come una terra in cui sperimentare nuovi modi di sfruttamento delle colonie, dei protettorati, delle aree di influenza.

Il gelso è diventato l’albero-angelo, l’albero che ha dettato alcune direzioni di lettura da una posizione non centrale, soprattutto nel rapporto tra piante e umani. Nella tradizione del Levante, per esempio, il gelso è in genere considerato un albero d’affezione, uno degli alberi del giardino tradizionale palestinese, uno di quelli che si guarda con tenerezza e fascino ma senza attribuirgli il ruolo e l’imponenza che si dà ad altri. Al leccio, all’ulivo, alla palma, al carrubo, ai sicomori. Forse anche perché, in una stagione dell’anno, sotto l’albero di gelso non si può stare tutti assieme a parlare, a riunirsi sotto l’ombra benevola delle foglie. Le more mature del gelso cadono in fretta, rendendo il terreno appiccicoso. “Sporcano,” diremmo noi umani. E forse l’ha detto anche l’ignoto che ha tagliato il gelso di Gerusalemme perché le more rosse sporcavano il biancore della pietra con cui era stato pavimentato il cortile di fronte alla casa di Musrara. Un palazzetto ora collocato nella parte israeliana di un grande quartiere palestinese nato nell’ultima parte dell’Ottocento, Musrara appunto, spaccato a causa della storia umana e separato, come due parti della stessa mela, dalla Linea Verde.

Non è solo una questione legata alla dovuta, rinnovata, ormai urgentissima attenzione al non-umano. E, di conseguenza, al disastroso impatto che gli esseri umani hanno avuto, in particolare, dall’industrializzazione in poi. Tutto sommato, da “solo” un paio di secoli. L’Asia occidentale è una sorta di prisma capace di descrivere l’intervento – coloniale, imperialista – che, nello specifico e soprattutto in questi ultimi due secoli, ha inciso sia sulla storia umana, e anche sulla storia tout court di una regione. E’  successo, forse con ancora più violenza, in altre parti del pianeta, certo: l’imperialismo e il colonialismo botanico hanno stravolto enormi regioni della Terra. Le piante sono diventate commodity, materie prime e merce, moneta sonante e parte a volte determinante dello sviluppo economico delle capitali coloniali. Sono state, insomma, colonne portanti del colonialismo, per i prodotti gestiti in genere come coltivazioni intensive e irraggiati in tutto il mondo attraverso le reti progettate e costruite in particolare in Europa. Tè, caffè, oppio e derivati, cotone, arance, gelsi per i bachi da seta sono le prime piante che vengono alla mente in un elenco lungo, lunghissimo di sfruttamento della natura a vantaggio della vita umana, costruita a immagine e somiglianza di un preciso sviluppo economico e di consumo.

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Lo sfruttamento “affinato” nel corso dei secoli non è stato, però, solo un affare. Non è stato un percorso che ha coinvolto unicamente economisti e botanici. Ha riguardato la stessa storia delle strutture di potere e dei processi decisionali, degli attori politici e diplomatici, di chi ha servito il sistema delle colonie da burocrate o da intermediario, di chi – contadino o proprietario terriero o colono – è stato parte dell’ingranaggio di una nuova fase (imposta) della terra e del paesaggio. Il gelso, o gli alberi-piazza come i lecci e i sicomori, oppure gli aranci trasformati in produttori di un bene preziosissimo, o gli ulivi, i carrubi, i mandorli e le palme sono stati testimoni di passaggi cruciali nella storia del mondo. E, nel caso dell’Asia occidentale – il vecchio Medio Oriente, definito tale da chi era a occidente e gestiva le colonie e i protettorati –, gli alberi sono stati, e sono ancora oggi, testimoni e vittime di processi che hanno stravolto l’ambiente, non solo quello naturale, non solo quello umano. Il paesaggio è stato usato di volta in volta come fondale, come il racconto ultimo di una terra più antica, come un semplice campo di sfruttamento, come un nuovo confine artificiale.

A guardare bene, a osservare con attenzione i dettagli del paesaggio in cui oggi siamo immersi, ci sono ancora le tracce di una storia che va ben oltre l’umano. Sono tracce spesso flebili, impercettibili. Altre volte sono le orme dell’assenza, di un paesaggio talmente stravolto – anche quando il nuovo è fatto di altri alberi al posto di quelli preesistenti – da apparire subito, per così dire, innaturale. È  lì, in queste tracce, che emerge la possibilità di un racconto che dica anche altro, oppure che riesca a spiegarci ciò che è stato, che è successo, e che non va. È  il racconto degli alberi, di quelli che ci sono o degli alberi assenti. 

Per provare a ritrovare la lingua perduta degli alberi.

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