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Ripensare il modello penitenziario: cosa fare (e non fare) per contrastare la tragedia dei suicidi nelle carceri italiane

26 Marzo 2024 6 min lettura

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Ripensare il modello penitenziario: cosa fare (e non fare) per contrastare la tragedia dei suicidi nelle carceri italiane

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Il 2024 nelle carceri italiane è iniziato con la storia drammatica di Matteo Concetti, un ragazzo di ventitre anni che si è tolto la vita nei primi giorni di gennaio nell’istituto di Ancona Montacuto. La madre, a cui il ragazzo aveva manifestato le sue intenzioni, aveva chiesto alle istituzioni di intervenire perché il figlio non fosse riportato nella cella di isolamento in cui si trovava in seguito all’aggressione a un agente.

Dopo Matteo Concetti altre 25 persone si sono suicidate nei penitenziari italiani. Un'altra, un ragazzo di ventidue anni, nel Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma. Ventisette persone in meno di tre mesi. L'ultima due giorni fa.

Secondo il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, “sono dati che devono allarmare perché con questa progressione, che speriamo non sia rispettata, si arriverà a delle sequenze tragiche, probabilmente mai viste nella storia penitenziaria degli ultimi 50 anni”. 

Perché in carcere 

I dati dei suicidi in carcere, e quelli delle morti per altre cause, sono raccolti da ormai più di vent’anni da Ristretti Orizzonti, la rivista dalla Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, nel dossier, costantemente aggiornato, Morire di carcere

«L’idea del dossier è nata perché venivamo a conoscenza di alcuni suicidi di cui non trovavamo traccia nei dati ufficiali - spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - Quindi abbiamo capito che dovevamo cercare di attivare tutte le fonti, come i familiari o il volontariato, cioè quella presenza che va oltre l'amministrazione».

Francesco Morelli, che coordina il lavoro di monitoraggio dall’inizio del progetto, spiega che tuttora i dati ufficiali e quelli di Ristretti Orizzonti non sempre corrispondono. Secondo l’amministrazione penitenziaria ad esempio la morte che avviene a causa di un prolungato sciopero della fame non è classificabile come un suicidio. 

Quelli di Morire di carcere, però, non sono solo dati, aggiunge Morelli, sono storie personali: «Nel sito del Ministero trovi solo i numeri e nemmeno l'età, nemmeno il sesso o la nazionalità, naturalmente non i nomi e cognomi e non le vicende». L’obiettivo del dossier è raccontare anche chi sono queste persone, qual è la loro esperienza detentiva, ricostruire le loro storie, capire che cosa è successo attraverso le notizie della stampa e grazie alle testimonianze di chi le conosceva.

«Il tema del suicidio - afferma Gonnella - riguarda italiani e stranieri, giudicabili e condannati, giovani e meno giovani, uomini e donne, detenuti al 41 bis e detenuti dentro per pochi euro rubati. Riguarda tutti e tutte e dunque riguarda la vita penitenziaria».

«Pur essendo ogni suicidio non generalizzabile, - aggiunge - perché ogni singola persona che fa un atto di quel genere lo fa in base alla sua biografia, alla sua storia, alla sua disperazione che non vanno generalizzate, è chiaro che numeri come questi portano a dire che l'allarme è un allarme di sistema, perché vuol dire che l'amministrazione, che ha un ruolo istituzionale di supervisione di quel periodo di vita della persona, non riesce a intercettare minimamente quella disperazione».

Se individuare una o più cause di un fenomeno così drammatico appare impossibile, è il sistema detentivo nel suo complesso a doversi interrogare, ma non solo, secondo quanto scrive l’ex Garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma, nell’introduzione al rapporto “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari”, pubblicato a gennaio 2023. 

Scrive Palma che le sole condizioni di detenzione non sono sufficienti a spiegare il fenomeno: «Troppo brevi sono state in molti casi le permanenze all’interno del carcere per supportare tale visione; troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte – spesso – è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno». 

Secondo Palma «è la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante».

Non solo la reclusione dunque, ma anche lo stigma che ne deriva. Una questione che coinvolge non solo chi di quel luogo ha diretta responsabilità ma anche la collettività esterna «che di quel simbolismo è produttore ed elemento consolidante».

Uno dei momenti più delicati è l’ingresso, i primi giorni. Secondo Morelli la ragione ha a che fare con la composizione della popolazione detenuta, fortemente mutata nel corso della storia recente. Una popolazione detenuta esito delle politiche degli ultimi decenni, composta da persone con dipendenze, o con disturbi psichici, o straniere. Persone che non avevano messo in conto l’esperienza del carcere nella loro vita.

«In quel caso l'impatto è drammatico - spiega Favero - ma per chi ha fatto una lunga carcerazione anche uscire fa paura. Ricordo un uomo che diceva: “Io in carcere ho imparato a fare il bravo detenuto, non ho imparato a vivere, a fare il cittadino”. E quindi chi esce lo fa senza sapere se riuscirà a trovare un suo posto nel mondo fuori. Nonostante sia il momento in cui si riconquista la libertà, è anche una fase delicatissima».

E poi c’è il trasferimento. Il carcere è un luogo in cui si perde la gestione del proprio tempo di vita. I momenti della giornata sono scanditi, rigidi: l’apertura delle porte la mattina, il pranzo, l’ora d’aria, le attività – quando ci sono – e poi la chiusura la sera, la cena. Tutto si svolge nella limitatezza dello spazio, degli incontri, degli scambi. E lo stravolgimento di quelle abitudini, spiega Morelli, può costituire per alcune persone un trauma molto forte.

«Perché il carcere, come tutte le istituzioni totali, rende le persone malate di abitudini - spiega - Ci si alza sempre alla stessa ora, ci si dicono addirittura più o meno le stesse parole. In carcere anche il linguaggio è limitato. La persona detenuta ha un suo tran tran che con il trasferimento viene sconvolto, deve incontrare persone nuove o dimostrare di essere un detenuto che non dà problemi per non finire in isolamento».

Ma il trasferimento per alcune persone significa anche allontanamento dagli affetti che vivono fuori, con la conseguenza che i colloqui si diradano, diminuiscono le occasioni per allontanarsi anche solo per un’ora e anche solo mentalmente da quello spazio.

Guardando i dati si nota che raramente le morti per suicidio sono inferiori a 50 per anno, in una strage silenziosa che solo di rado fa notizia. Poi ci sono stati anni particolarmente tragici, come il 2022, quando sono state 84 le persone recluse che si sono tolte la vita. Le restrizioni imposte dalla pandemia, che in un primo momento avevano generato terrore e rivolte negli istituti, con il bilancio catastrofico che ne conseguì, avevano poi permesso un aumento del numero delle telefonate a casa per le persone detenute, oltre che l’introduzione delle videochiamate. Ma nel 2022 la maggior parte degli istituti è tornata alla quotidianità pre pandemica, un colloquio alla settimana di un’ora e un numero limitato di telefonate.

Cosa fare

«Sicuramente ci sono delle cose da non fare» - prosegue Morelli - e che invece in molte occasioni sono considerate prassi. Come isolare la persona che minaccia il suicidio, che «viene portata in una cella chiamata “liscia”, ossia senza sbarre o oggetti, vale a dire in una situazione in cui diventa tecnicamente molto difficoltoso riuscire a realizzare il suicidio. Ma sappiamo che non è sufficiente. Come non lo è un’altra modalità, quella di creare sezioni ad hoc, a sorveglianza intensificata, dove gli agenti effettuano un controllo più frequente».

«L'unico modo per prevenire il suicidio è cambiare il modello penitenziario - sostiene Gonnella - aprirsi all'esterno, consentire le telefonate quotidiane ai detenuti comuni, riempire le carceri di vita vera».

E infatti proprio quando le attività diminuiscono, quando le carceri si svuotano di impegni per le persone detenute, il rischio del suicidio è più elevato, come dicono le notizie dei mesi di agosto e dicembre.

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«Lo sappiamo da trent’anni - prosegue Gonnella - e per impedirlo si dovrebbero costruire i servizi in base alle esigenze dell’utenza, così come si dovrebbe pensare a una preparazione al rilascio, fornire una spiegazione su quello che accade fuori, permettere la costruzione di un ponte con l’esterno. Perché le persone possono temere la solitudine, lo stigma, lo sguardo di riprovazione».

Se tra le cause di un fenomeno così tragico c’è il carcere come luogo a sé, isolato e isolante, la risposta non può che essere un dialogo con il mondo fuori. Un dialogo che deve partire da una presa di coscienza della società esterna rispetto a sé stessa e alla visione della detenzione.

Immagine in anteprima: Édouard Hue, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

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