Carcere per giornalisti: gli emendamenti che mettono a rischio la libertà di informazione
|
Il tema del carcere per i giornalisti è stato di recente oggetto di diversi interventi normativi, e non solo, per cui si rende necessario fare chiarezza.
Bisogna partire da un evento. Il 18 aprile scorso, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva dichiarato che il governo non stava affatto pensando di introdurre nuove norme in tema di carcere per i giornalisti, ma anzi voleva cancellare la disposizione che già lo prevedeva.
È vero che, con il disegno di legge n. 466, presentato in Senato nel gennaio 2023, a prima firma del senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni, attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato, si vuole eliminare il reato di diffamazione a mezzo stampa (art. 595, comma 3, del codice penale), che appunto dispone la reclusione (da sei mesi a tre anni).
Ma il carcere per i giornalisti è comunque previsto da emendamenti che la maggioranza di governo potrebbe sostenere.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Gli emendamenti ritirati
C’era già stato un tentativo di reintrodurre la pena della reclusione il 9 aprile scorso. Il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino aveva presentato al citato disegno di legge un emendamento che proponeva di punire anche con la reclusione chi, mediante «condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione», attribuisce a taluno a mezzo della stampa «fatti che sa essere anche in parte falsi», o addirittura «costituenti reato». Il senatore chiedeva pure di mantenere la pena della reclusione per il reato di diffamazione.
Berrino aveva poi ritirato gli emendamenti, probabilmente per le polemiche suscitate. E forse pure perché non era stato considerato che la Corte costituzionale nel 2021 (sentenza n. 150) aveva dichiarato incostituzionali le norme che punivano con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa, della radio o della televisione. “La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere” aveva affermato la Corte, “può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri”.
I nuovi emendamenti
C’è chi evidentemente reputa che il carcere per i giornalisti sia una sanzione necessaria e adeguata, come dimostrano due emendamenti al disegno di legge (C. 1717) in materia di rafforzamento della cybersicurezza nazionale e di reati informatici, attualmente all’esame delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia alla Camera. Gli emendamenti sono rispettivamente a prima firma di Enrico Costa, deputato di Azione, e di Tommaso Calderone, deputato di Forza Italia.
L’emendamento di Costa propone una norma (art. 615-sexies del codice penale) che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni “chiunque, conoscendone la provenienza illecita, diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazioni al pubblico, in tutto o in parte le informazioni” derivanti, tra l’altro, dall’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico.
L’emendamento di Calderone, invece, introducendo un comma ulteriore all’art. 648-ter del codice penale, prevede che le norme in tema di ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e autoriciclaggio (articoli 648, 648-bis, 648 ter e 648-ter-1 c.p.) “si applicano anche ai dati o programmi contenuti in un sistema informatico telematico sottratti illecitamente e alla loro utilizzazione, riproduzione, diffusione o divulgazione con qualsiasi mezzo”. La pena è la reclusione fino a tre anni.
Entrambi gli emendamenti sono formulati in maniera tale da punire il giornalista che pubblica notizie frutto di un reato commesso da altri, conoscendone la provenienza illecita. Leggendo le proposte, viene difficile non collegarle a episodi recenti di cronaca. In particolare, alla vicenda relativa a Pasquale Striano, il finanziere in servizio alla Direzione Nazionale Antimafia, accusato di accessi abusivi al registro delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos). Segnalazioni che, secondo le accuse, sarebbero state inoltrate ad alcuni giornalisti.
In un’intervista pubblicata il 26 aprile scorso, Calderone ha però spiegato che il suo emendamento “con i giornalisti non c’entra nulla” e che per questi ultimi “rimane l’esimente del diritto di cronaca”. Le cose non stanno esattamente in questo modo. Per capirlo bisogna invece fare riferimento a quanto spiega Costa. In un’intervista del 12 aprile scorso, il deputato di Azione ha detto che la previsione di reati per i giornalisti si è resa necessaria “dopo la bizzarra posizione della Cassazione che invece ha considerato il diritto di cronaca come un’immunità anche di fronte a informazioni acquisite attraverso condotte delittuose”.
Serve chiarire in che cosa consista tale “immunità” e quale sarebbe l’orientamento della Corte di cassazione a cui Costa fa riferimento.
Cosa dice la Corte europea dei diritti dell’Uomo
La libertà di informazione (art. 21 Cost.) è uno dei cardini degli ordinamenti democratici. Perciò l’attività giornalistica gode di un particolare regime giuridico che, nel bilanciamento con vari diritti costituzionalmente tutelati, fa prevalere la libertà di stampa purché siano rispettate talune condizioni: che la notizia sia vera o verosimile; che sussista un interesse pubblico alla sua conoscenza; che essa sia presentata in modo continente, cioè misurato. In questi casi, il diritto di cronaca può costituire una scriminante – cioè una causa di giustificazione – per gli eventuali reati commessi con la pubblicazione della notizia, escludendo la punibilità del giornalista. Negli ultimi anni ha cominciato ad affermarsi un orientamento giurisprudenziale secondo cui la scriminante “copre” anche eventuali atti illeciti commessi per riuscire a procurarsi informazioni.
La sentenza che ha fatto da apripista è quella della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) del 1999 (Fressoz et Roire c. Francia), relativa all’applicazione dell’art. 10 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo (CEDU), che tutela la libertà di espressione, e quindi la libertà di stampa. Il caso riguardava il direttore e un giornalista che per la pubblicazione di un articolo avevano utilizzato documenti ottenuti da un terzo su cui gravava un obbligo di segreto.
La Corte ha reputato che la fase di procacciamento delle notizie sia strettamente legata a quella della loro pubblicazione, costituendone il presupposto, tanto da configurare un’unica attività svolta nell’esercizio del diritto di cronaca. Per cui solo estendo la causa di giustificazione anche all’attività funzionale alla pubblicazione delle notizie, si realizza un’effettiva ed efficace tutela della libertà di stampa. Di conseguenza, se il giornalista, commettendo il reato di ricettazione, si sia procurato informazioni d’interesse pubblico e le abbia poi divulgate, la scriminante del diritto di cronaca ne esclude la punibilità qualora l’interesse d’informare la collettività prevalga sui doveri e sulle responsabilità che gravano sul giornalista stesso.
Cosa dice la Corte di Cassazione
Fino al 2019, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la scriminante del diritto di cronaca operasse “solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima” (sentenza n. 27984/2016). Nel 2019, riguardo a un caso di ricettazione, la Corte ha deciso – sulla scia della Corte EDU - che la non punibilità del giornalista può operare per gli illeciti commessi non solo con la pubblicazione della notizia, ma anche nella fase della sua acquisizione qualora, a seguito di bilanciamento tra il diritto di cronaca e altri coinvolti, il primo pesi più dei secondi (n. 38277/19).
Lo stesso principio è stato ribadito nel 2022 (n. 49113) sempre per un caso di ricettazione. Ma nel 2023 una nuova pronuncia (n. 36407) è tornata ad affermare che la scriminante del diritto di cronaca non giustifica le condotte illecite poste in essere dal giornalista per procacciarsi la notizia.
Quindi, sono stati aperti dei varchi per l’applicazione della scriminante in ipotesi di ricettazione. Di certo, la causa di giustificazione non opera ad esempio nel caso in cui il giornalista acquisisca la notizia con minacce, violazioni di domicilio o istigazione a una condotta criminosa
Gli emendamenti e la giustificazione del diritto di cronaca
Le citate pronunce dei tribunali rendono palese come l’emendamento Calderone andrebbe di fatto a incidere sui giornalisti, i quali resterebbero comunque “coperti” dal diritto di cronaca. Se tale emendamento, o quello del collega di Azione, diventasse legge, il diritto di cronaca non potrebbe più funzionare da causa di giustificazione in caso di pubblicazione di notizie rivenienti da ricettazione o altre attività previste dall’emendamento Calderone; oppure acquisite mediante accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, secondo l’emendamento Costa.
In questi casi, ai giudici sarebbe preclusa la possibilità di operare un bilanciamento tra diritto all’informazione e altri diritti, valutando di volta in volta, in concreto, quale debba prevalere. Il bilanciamento sarebbe operato dal legislatore in modo preventivo, generale e astratto, sacrificando il diritto all’informazione in ogni caso, quindi anche nei casi di notizie vere e di rilevante interesse pubblico.
In altre parole, i tribunali nazionali non potrebbero più affermare - come la Cassazione nelle pronunce citate - che la scriminante del diritto di cronaca può estendersi anche alla fase precedente rispetto alla pubblicazione della notizia, quando l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia stessa prevalga su interessi diversi. Resterebbe il ricorso alla CEDU, che potrebbe sfociare nella necessità che la legge sia modificata in conformità alla pronuncia della Corte stessa.
La nuova normativa avrebbe un’ulteriore conseguenza. Come rilevato dalla Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI), ai giornalisti si chiederebbe “non solo di verificare se una notizia è vera, come prevede la legge ordinistica, ma di vestire anche i panni degli investigatori per accertarsi che a monte non ci sia un reato”. In altre parole, ad essi spetterebbe valutare se la persona da cui acquisiscono informazioni abbia o meno commesso un illecito nel procurarsele, pretendendo che essi svolgano un accertamento per il quale servono tre gradi di giudizio.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, nel corso di una conferenza stampa, ha detto che sugli emendamenti in questione “la valutazione definitiva è ancora sospesa”. Comunque vada a finire, è palese che, proprio nel momento in cui, con il Media Freedom Act, l’Unione Europea vuole proteggere i giornalisti e i media da ingerenze politiche o economiche, i giornalisti italiani sono oggetto di una stretta legislativa particolarmente rilevante.
Per la libertà di stampa non è una buona notizia.
Immagine in anteprima via Ansa