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Lo sfruttamento dei braccianti nei campi, la “riduzione in schiavitù” dei lavoratori

1 Maggio 2018 17 min lettura

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Lo sfruttamento dei braccianti nei campi, la “riduzione in schiavitù” dei lavoratori

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di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli

Il 20 luglio 2015 in Salento la temperatura sfiorava i 42 gradi. Abdullah Muhamed, un uomo sudanese di 47 anni, aveva iniziato a raccogliere pomodorini in un campo tra Nardò e Avetrana intorno alle 11 del mattino, quando il sole è più caldo. Era arrivato il giorno prima in Puglia da Caltanissetta, dove viveva con la moglie e i figli, e sarebbe dovuto rimanere lì fino a settembre, per poi tornare in Sicilia e spostarsi nuovamente in Calabria per la stagione degli agrumi.

Dopo qualche ora di lavoro senza pause, Muhamed si era lamentato un paio di volte per il caldo, poi si era accasciato a terra esanime per un malore. Altri due braccianti stranieri avevano provato a soccorrerlo, ma per lui non c’era stato niente da fare.

Muhamed non era stato sottoposto a nessuna visita medica prima di iniziare la raccolta e non aveva un contratto di lavoro, solo un accordo verbale con un altro uomo sudanese che lo aveva reclutato per lavorare al campo: un caporale, che faceva da intermediario per un imprenditore salentino. Stando a quanto ricostruito dai carabinieri, la paga era a cottimo, stabilita tra i sei e i sette euro per ogni cassone da riempire di pomodorini. Una cifra alla quale, però, andavano sottratti la quota per il caporale, il trasporto fino ai campi e il panino per il pranzo. In tasca, sostanzialmente, potevano rimanergli circa due euro per ogni ora di lavoro.

La moglie di Muhamed, in un’intervista a Repubblica, ha raccontato cosa ha visto quando è andata a riprendere le cose del marito, nel ghetto dell’ex falegnameria dove dormiva insieme agli altri braccianti: «Li fanno vivere peggio delle bestie. Mio marito dormiva su un materasso poggiato su un balcone, in mezzo alla sporcizia». Quando la donna è entrata nell’edificio ha sentito «un brivido, neanche gli animali vengono trattati così. In questa casa che non si può chiamare casa non c'è posto per l'umanità».

I pomodorini raccolti da Muhamed, secondo quanto accertato dalla Procura di Lecce, venivano consegnati ad alcune delle maggiori aziende italiane di trasformazione del pomodoro, titolari di marchi come Mutti, Conserve Italia (Cirio) e La Rosina. Per la morte del 47enne la pm ha chiesto il rinvio a giudizio con le accuse di omicidio colposo e caporalato per Mohamed Shaa Eldei (il caporale che fungeva da intermediario, anche lui sudanese) e Giuseppe Mariano, detto Pippi, imprenditore salentino titolare dell’azienda, già rinviato a giudizio insieme ad altri (ma poi assolto) nel 2011 nel processo Sabr sullo sfruttamento dei braccianti nei campi - la prima sentenza che ha riconosciuto in Italia la “riduzione in schiavitù” dei lavoratori.

Nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari della Procura di Lecce c’è scritto che Muhamed e gli altri braccianti “erano sottoposti a ritmi sfiancanti di 10-12 ore al giorno, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche usuranti, senza il riposo settimanale, senza il rispetto della normativa sulle pause, per poi immettere nel mercato corrente il prodotto con un maggiore guadagno per lo stesso titolare dell’azienda ”. I compensi, invece, “erano di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti”.

Stefania Crogi, al tempo segretaria generale Flai Cgil, ha denunciato in un comunicato diffuso subito dopo il decesso di Muhamed che l’uomo era «morto perché non poteva alzare la testa per chiedere aiuto, non poteva far valere i suoi diritti, non poteva pretendere un lavoro giusto e sicuro ed era nella condizione di non avere i soccorsi adeguati in tempi rapidi». Quella vicenda, dunque, non poteva «restare un fatto di cronaca estiva», ma era «un atto di accusa verso un mercato del lavoro agricolo colpito in modo forte dalla piaga dello sfruttamento».

Una decina di giorni dopo la morte di Muhamed, i primi di agosto del 2015, sui giornali è arrivata la notizia di un’altra morte per caporalato in Puglia, avvenuta precedentemente e rimasta però celata per settimane. Intorno alle 8 del mattino del 13 luglio Paola Clemente, una bracciante italiana di 49 anni di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, si era accasciata nelle campagne di Andria, dove lavorava nell’acinellatura dell’uva: circa cinque ore di viaggio fra andata e ritorno per raggiungere un tendone dove la temperatura arriva fino a 40 gradi, e dove insieme ad altre donne diradava gli acini scartando i chicchi più piccoli.

Il marito ha raccontato che la moglie «andava via di casa alle 2 di notte. Prendeva l'autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno». Paola, ha aggiunto l’uomo, lavorava nei campi da sempre, recentemente nell’acinellatura: «Tolgono gli acini più piccoli per fare bello il grappolo. È necessario quindi che le braccianti salgano su una cassetta e tolgano l'acinino. Significa stare con le braccia tese e con la testa alzata per tutta la giornata. È un lavoro molto faticoso, ma non potevamo fare altrimenti».

Peppino De Leonardis, segretario della Flai Cgil, tra i primi a denunciare la vicenda e a farla uscire dall’ombra, ha definito sin da subito la morte di Paola Clemente «un terribile caso di caporalato»: il 13 luglio, ha spiegato a Repubblica, «era un lunedì e Paola è uscita di casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare a lavoro. È tornata in una cassa da morto. È stata sepolta il giorno dopo, senza autopsia e con il nulla osta del magistrato di turno. Il pm non si è recato sul posto perché, riferisce la polizia di Andria, il parere del medico legale è che si sia trattato di una morte naturale, forse un malore per il caldo eccessivo».

Dopo la morte di Paola, la Procura di Trani ha aperto un’inchiesta: le indagini hanno escluso l’iniziale ipotesi di omicidio colposo (poiché la donna era deceduta a causa di un infarto) ma hanno accertato lo sfruttamento lavorativo della quarantanovenne e di altri braccianti nella provincia di Brindisi-Andria-Trani. È stato chiesto il rinvio a giudizio per sei persone, accusate a vario titolo di aver gestito la rete del caporalato nella zona, reclutando braccianti agricoli attraverso un'agenzia interinale di Noicattaro, in provincia di Bari.

Secondo la Procura di Trani, le braccianti sfruttate nei campi percepivano ogni giorno 30 euro per 12 ore di lavoro: l’appuntamento era alle 3 e 30 del mattino per essere portate nei campi a bordo dei pullman, il rientro era alle 15 e 30. Il compenso, in base ai contratti di lavoro, sarebbe dovuto essere di circa 86 euro, circa tre volte di più rispetto a quello effettivamente percepito. La Guardia di Finanza e la Polizia hanno accertato che nelle buste paga non venivano calcolate tutte le giornate di lavoro effettive e neppure gli straordinari. In questo modo, in soli tre mesi, l’agenzia interinale che aveva reclutato le braccianti aveva evaso 48mila euro di contributi.

Le due morti nei campi dell’estate 2015, una dopo l’altra, hanno fatto smosso l’opinione pubblica. Quella di Paola, in particolare, ha svelato come lo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne italiane sia un fenomeno trasversale, che non riguarda solo gli stranieri.

"Vittime di una guerra silenziosa"

Abdullah Muhamed e Paola Clemente non sono stati gli unici a morire di lavoro nelle campagne del Sud Italia (né lo sono stati nel solo 2015). Come ha scritto Stefano Liberti su Internazionale, non si tratta di fatalità, ma di “vittime di una guerra silenziosa che si combatte contro i braccianti, pagati salari miseri, spesso a cottimo, e costretti a vivere – soprattutto se stranieri – in ghetti malsani privi di tutto. Dalla Puglia alla Basilicata, dalla Calabria alla Sicilia, sono centinaia gli insediamenti di fortuna in cui abitano stagionalmente i lavoratori agricoli: masserie abbandonate e in rovina, tendopoli costruite con legna e cartone, ex fabbriche in disuso. Il più noto di questi, il cosiddetto ‘Gran ghetto’ di Rignano Garganico, arriva a ospitare all’apice della raccolta di pomodori in estate, fino a mille persone”.

Altri ghetti sono disseminati in tutta Italia. In Calabria, ad esempio, ogni anno giungono quasi 3.000 lavoratori migranti nella Piana di Gioia Tauro per la stagione degli agrumi. Secondo i dati raccolti da Medici per i Diritti Umani (MEDU), i lavoratori in nero sono l’80%, nonostante nove migranti su dieci abbiano un regolare permesso di soggiorno. Lavorano a cottimo o a giornata, senza contratto né busta paga, con una retribuzione ben inferiore a quella sindacale, e in condizioni di vita disumane. Nelle campagne dell’Agro Pontino negli ultimi due anni si sono suicidati dieci braccianti Sikh sfruttati nei campi. Allo stesso tempo, in 150 sono riusciti a ribellarsi e a denunciare le condizioni di lavoro e le violenze subite nelle aziende agricole, grazie al sociologo Marco Omizzolo, che a sua volta però è stato oggetto di pesanti intimidazioni.

In Sicilia, nei campi di Vittoria, in provincia di Ragusa, circa cinquemila donne lavorano nelle serre, vivono segregate nelle campagne e sono sottoposte a violenze e a ogni tipo di molestia sessuale in un clima di omertà diffusa. Una situazione che è diffusa in altri paesi del Mediterraneo: un'inchiesta a cura di Stefania Prandi e Pascale Müller, pubblicata su BuzzFeed Germania, ha raccolto le testimonianze di abusi e i ricatti subiti dalle lavoratrici dei campi e delle serre in Spagna, Marocco e Italia. Il reportage ha chiamato in causa anche LIDL e il Global Gap, il più grande certificatore di cibo nel mondo, che ha annunciato di aprire un'inchiesta sugli abusi nella regione di Huelva.

Vergewaltigt auf Europas Feldern – Trailer

Exklusiv: Erntehelferinnen in Spanien, Marokko und Italien werden auf der Arbeit häufig sexuell missbraucht und misshandelt. Das hat eine BuzzFeed News Recherche aufgedeckt. Die Frauen ernten Erdbeeren und Tomaten, die wir täglich in deutschen Supermärkten kaufen können. ➡️➡️Hier geht es zum Artikel: https://www.buzzfeed.com/pascalemueller/vergewaltigt-auf-europas-feldern?utm_term=4ldqpgp&bffbdenews#4ldqpgpIn Kooperation mit Correctiv.

Pubblicato da BuzzFeed DE News su Lunedì 30 aprile 2018

Dall’ultimo rapporto su agro-mafie e caporalato pubblicato dalla Flai-Cgil nel 2016 emergono “circa 80 distretti agricoli (indistintamente da Nord a Sud) nel quale è possibile registrare grave sfruttamento e caporalato, seppur con diversi livelli di intensità”. Com’è facile immaginare, questo costituisce “un vero e proprio terreno di conquista per la criminalità mafiosa e non”: il rapporto quantifica che i fenomeni “delle agromafie e dell’infiltrazione mafiosa e criminale nella gestione del mercato del lavoro attraverso la pratica del caporalato” insieme muovono "un’economia illegale e sommersa tra i 14 e i 17,5 miliardi di euro in Italia".

Ad essere vittime di caporalato e sfruttamento del lavoro sono circa 430.000 persone (in aumento rispetto al report precedente), indistintamente italiani e stranieri. Più di 100.000 lavoratori si trovano in “condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa”. Le modalità dei caporali sono “mancata applicazione dei contratti, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno, inferiore del 50% di quanto previsto dai CCNL e CPL, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, lavoro a cottimo (esplicitamente escluso dalle norme di settore), fino ad alcune pratiche criminali quali la violenza, il ricatto, la sottrazione dei documenti, l’imposizione di un alloggio e forniture di beni di prima necessità, oltre all’imposizione del trasporto effettuato dai caporali stessi”.

Scriveva su Internazionale Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista scomparso pochi mesi fa che aveva seguito e approfondito le tematiche collegate al caporalato, che “poco più di dieci anni fa, girando per la Puglia, esattamente in quei paesi ai cui margini i ghetti cominciavano a sorgere, era facile sentirsi dire da sindaci, assessori, associazioni di categoria, perfino da qualche rappresentante delle forze dell’ordine, che il caporalato non esisteva. Che questo, casomai, riguardava solo poche mele marce”. Da allora “è cominciata la lotta contro il caporalato moderno”, e “a dieci anni di distanza si può dire che abbiamo cominciato a vincere la battaglia culturale”, perché “nessuno oggi potrebbe più lasciarsi scappare una affermazione del genere”.

La nuova legge sul caporalato e le critiche

Nel luglio del 2011, nelle campagne di Nardò centinaia di immigrati, impiegati come raccoglitori, avevano proclamato lo sciopero per chiedere paghe adeguate al lavoro, contratti regolari, assistenza sanitaria e condizioni di vita dignitose, raccontava Repubblica Bari.

Anche per via di questa manifestazione e sciopero, un mese dopo, “il caporalato, ossia l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, era stato inserito tra i reati perseguibili penalmente nel Codice penale, con un nuovo articolo, il 603-bis”, tramite il decreto legge del 13 agosto 2011 (articolo 12) del governo di centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi, spiega Il Post. Le pene prevedevano la reclusione da 5 a 8 anni e multe da mille a 2mila euro per ogni lavoratore reclutato. Nella legge, però, “la fattispecie del nuovo reato era piuttosto complicata: prevedeva l’individuazione di un’attività organizzata di intermediazione, non dava una definizione di ‘intermediazione’ e stabiliva una serie di specifiche condotte che costituivano lo sfruttamento”.

Cinque anni dopo, nell’ottobre del 2016, sotto il governo Renzi, il Parlamento (nell’ultima votazione del provvedimento alla Camera dei Deputati ci furono 336 voti favorevoli, zero contrari e 25 astenuti) approva una nuova legge (di 12 articoli) che riscrive l’articolo 603 bis. La principale novità del provvedimento, si legge sul sito del Ministero del Lavoro, “riguarda la riformulazione del reato di caporalato, che introduce la sanzionabilità del datore di lavoro nei casi in cui assume o impiega manodopera in condizioni di sfruttamento, anche attraverso intermediari, approfittando del loro stato di bisogno”.

La nuova formulazione prevede infatti l’introduzione di una fattispecie base punita con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro (per ciascun lavoratore reclutato) per il caporale che “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori” ma anche per quel datore di lavoro che “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Se poi vengono usate anche violenza o minaccia, la pena aumenta: da cinque a otto anni di reclusione e una multa da 1000 a 2000 euro per ciascun lavoratore reclutato). Vengono anche introdotte diverse altre misure, spiega il Servizio Studi della Camera: un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità, il possibile controllo giudiziario dell'azienda nel corso del procedimento penale per il reato di caporalato, l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, l'assegnazione al Fondo anti-tratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento e la destinazione delle risorse del Fondo anche alle vittime del reato di caporalato.

Con gli ultimi articoli della legge, infine, si prevede, tra le altre cose, la modifica della normativa che istituisce presso l'INPS la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, con l’introduzione di ulteriori requisiti per le imprese che vi vogliono partecipare come ad esempio l’obbligo di applicare i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali e nuovi compiti per la cabina di regia che presiede questa rete, come il monitorare costantemente, su base trimestrale, l'andamento del mercato del lavoro agricolo. Inoltre, si lancia un piano di interventi contenente misure per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori che svolgono attività lavorativa stagionale di raccolta dei prodotti agricoli.

I giornalisti Fabio Ciconte e Stefano Liberti su Internazionale, lo stesso giorno dell’approvazione definitiva della legge, scrissero che era una “buona notizia” e che si trattava di un provvedimento “essenziale per depotenziare il fenomeno dello sfruttamento in agricoltura”, ma “certamente non sufficiente per eliminarlo in maniera definitiva”. La legge, infatti, per i due giornalisti, non risponderebbe alla domanda posta da tanti imprenditori agricoli: “Come possiamo mettere insieme squadre di braccianti stranieri in modo rapido e legale?”. Inoltre, la legge ha un approccio soprattutto repressivo, intervenendo quando il fatto è avvenuto e non agendo sulle cause del fenomeno, cioè sulla grande distribuzione che comprime “i costi riducendo a zero il margine di guadagno del produttore”: “Una filiera di cui conosciamo poco o niente, che vive nell’opacità e si autotutela schermandosi dietro codici etici e certificazioni tese a scaricare sul più piccolo responsabilità che invece vengono da lontano”.

Yvan Sagnet, uno dei protagonisti dello sciopero dei braccianti di Nardò di cinque anni prima e fondatore dell’associazione “No Cap”, che si batte contro il caporalato e per una distribuzione alternativa dei prodotti agroalimentari, ad esempio, aveva chiesto di introdurre oltre alla parte repressiva anche un elemento di prevenzione come ad esempio «tracciare le produzioni e le sue filiere» tramite un meccanismo di certificazione etica della filiera: «La battaglia deve essere incentrata sul consumatore perché abbiamo di fronte un modello economico che pensa solo al profitto e quindi si rivolge al consumatore. Noi dobbiamo educare il consumatore perché vogliamo far arrivare sulle tavole di casa prodotti che oltre all’aspetto biologico mettono anche al centro l’aspetto etico».

La legge era stata contestata da diversi agricoltori. Il Movimento per l'agricoltura, composto da aziende agricole, diversi mesi dopo l’approvazione, organizzò una manifestazione a Bari per affermare la loro contrarietà al provvedimento: "Non difendiamo chi ha sbagliato ma riteniamo che la legge contro il caporalato imponga condizioni insostenibili". Ad esempio, uno dei punti contrastati è l'adozione di misure cautelari per l'azienda agricola in cui è commesso il reato (e non solo per i caporali), riportava Repubblica Bari.

Dopo circa un anno dall’approvazione della legge, sono arrivate anche le prime considerazioni. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in un’intervista ad Avvenire aveva dichiarato che il provvedimento, in base ai primi segnali, «sta funzionando bene, per contrastare abusi inaccettabili sulle persone, per combattere chi bara e per difendere gli imprenditori onesti. Ce lo dicono magistrati e forze dell’ordine». Secondo i dati rilasciati nel novembre dello scorso anno dal Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, riguardanti il periodo dal primo maggio al 30 settembre 2017, la modifica all’articolo 603 bis aveva consentito “di agire con maggiore successo contro lo sfruttamento dei lavoratori”: “le indagini sono passate dalle 13 del 2015 alle 10 del 2016 alle 39 del 2017 (25 durante l’estate), che hanno portato a 25 arresti (13 soltanto durante l’estate) e 74 denunciati per 396 lavoratori sfruttati (203 quelli scoperti nei soli mesi estivi)”, scriveva Manuela Perrone su Il Sole 24 Ore.

Orlando aveva anche aggiunto di aver osservato «una responsabilizzazione di tutta la filiera, dopo alcune resistenze di pezzi dell’associazionismo delle imprese agricole. Ora sta comprendendo che lo sfruttamento dei lavoratori è una delle forme attraverso le quali si crea concorrenza sleale, oltre che illegalità e abusi inaccettabili sulle persone». Anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e quello dell’Agricoltura, Maurizio Martina, avevano parlato di un “rafforzamento nella lotta al caporalato” e di “risultati importanti”.

Dall’altra parte, però, Giovanni Mininni della Flai Cgil, su Redattore Sociale, aveva denunciato, dopo un viaggio sui campi, ritardi e in alcuni casi anche una certa immobilità nell’applicazione delle nuove norme. Inoltre, in diversi casi anche le condizioni di vita e di sfruttamento dei braccianti agricoli continuavano a essere critiche, come anche documentato dal rapporto “Terraingiusta” di Medici per i diritti umani (MEDU) dell’ottobre 2017 in Puglia e Basilicata:

In Basilicata “l’unico centro di accoglienza aperto a Palazzo San Gervasio ha una capienza di 250 posti a fronte di circa 700 persone presenti presso gli insediamenti precari in disastrose condizioni igienico-sanitarie. (...) Nella vicina zona della Capitanata, in Puglia, la situazione appare ancor più grave: dopo lo sgombero del “Gran Ghetto” di Rignano Garganico, almeno 1500 migranti si son riversati presso la pista in disuso dell’ex aeroporto militare di Borgo Mezzanone, dando origine ad un nuovo ghetto, che per molti costituisce l’unica sistemazione alloggiativa possibile. Baracche costruite con materiali di risulta, rischi per la salute e per la sicurezza, lontananza dai centri abitati e dai servizi, assenza di prospettive di inclusione sociale, rappresentano le principali criticità riscontrate, esasperate dalla lontananza della politica e delle istituzioni locali e nazionali”.

Mininni confermava poi che nell’ultimo anno non erano mancate le azioni repressive contro caporalato e sfruttamento, ma aggiungeva anche che «la rete del lavoro agricolo di qualità non decolla» con un basso numero di aziende iscritte rispetto al totale di quelle operanti nel settore: «Sarebbe dovuta già esserci la sezione territoriale della rete del lavoro di qualità che deve trovare come punto focale sul territorio la Commissione Cisoa (Cassa Integrazione Salariale Operai Agricoli) e i Centri per l'Impiego per sperimentare nuove modalità di collocamento e di trasporto per togliere spazio vitale all’opera dei caporali. Tuttavia, lo stato su questo punto è assolutamente latitante».

Inoltre, in un lungo articolo su Left titolato “Caporalato, la rivoluzione mancata”, veniva sottolineato il rischio che la Rete diventasse un ombrello dietro al quale si riparano aziende sospette perché per “iscriversi è sufficiente dichiarare di non avere ricevuto multe o condanne in materia di lavoro e fiscale, di essere in regola col versamento dei contributi, e poco più” ma una volta dentro “le aziende ricevono, per legge, meno attenzioni da ministero del Lavoro e Inps, rispetto alle già rare verifiche di un Ispettorato del lavoro nazionale che è in affanno in molte zone d’Italia”.

Nel marzo dello scorso anno, Alessandro Leogrande aveva elencato una serie di motivi per i quali molte volte le misure legislative finivano per scontrarsi con “un muro di gomma”: il primo è che “la battaglia può essere condotta solo con l’accordo, il più esteso possibile, di tutte le parti sociali interessate” mentre invece “le  associazioni dei produttori continuano a frenare la piena attuazione della legge sul caporalato, sostenendo che danneggi i loro interessi”; il secondo motivo riguarda “la struttura stessa della filiera raccolta-trasformazione-distribuzione dei prodotti agricoli” perché “è, in massima parte, controllata dalla grande distribuzione organizzata (gdo) che serve poi le catene di supermercati e ipermercati, e che determina un abbassamento dei costi nella parte iniziale del processo. Se non si incide sull’organizzazione dell’intera filiera, il caporalato sarà sempre la risorsa ultima di quei produttori in crisi che si vedono o si dicono costretti a comprimere i costi”; infine “la fragilità dei braccianti stranieri” in quanto “la dipendenza dal caporale è più forte laddove non si riesce a intravedere un’alternativa”.

Qual è la situazione oggi?

Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Ispettorato del lavoro, uscito nel febbraio di questo anno e che si rifà al 2017, in base alle ispezioni effettuate (oltre 7mila), in Italia il 50% dei braccianti agricoli è irregolare (un dato in linea con il 2016). Per Ivana Galli, segretaria nazionale Flai-Cgil, questi dati sono allarmanti e ”ci dicono come il contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura sia elemento fondamentale per un settore che è ancora fortemente aggredito da tali fenomeni".

Nel rapporto si legge anche che “sono stati adottati 360 provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale”, l’87% dei quali revocati “a seguito di intervenuta regolarizzazione”. Un dato che per Galli mostra come “con le nuove norme non ci si è fermati alla sola azione repressiva ma anche a percorsi di regolarizzazione”.

Per quest'anno il documento di programmazione dell’attività di vigilanza dell’Ispettorato del lavoro prevede fra le priorità la lotta al caporalato “attraverso un’opportuna attività di intelligence, le forme di controllo e di repressione delle condotte illegali, al fine di individuare e perseguire tempestivamente i responsabili degli illeciti che traggono profitto da tali deprecabili forme di sfruttamento”.

Nonostante alcuni miglioramenti, dunque, l’emergenza legata allo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura è tutt’altro che finita, scrive Sonia Ricci su Repubblica, che racconta anche però come siano nate realtà associative che si ribellano a certe dinamiche oppressive:

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I migranti africani vivono ancora come bestie nel ghetto di San Ferdinando, in condizioni igienico-sanitarie pessime. In quei territori, nella Piana di Gioia Tauro, da alcuni anni opera una delle prime esperienze di rivalsa dei braccianti: Sos Rosarno. Un progetto nato dalle assemblee all’ex Snia di Roma, in via Prenestina, con i ragazzi africani che lì avevano trovato ospitalità. Nei mesi successivi alla rivolta hanno cercato di creare un “altro mercato” e ci sono riusciti grazie al sodalizio con una decina di produttori calabresi. Oggi arance e olio vengono vendute a un prezzo giusto e alcuni di quei ragazzi sono tornati a Rosarno per lavorare con contratti regolari.

Ricci prosegue raccontando altre realtà come “Fuori Mercato” che “riunisce produttori agricoli, attivisti, migranti e italiani che dalla Sicilia alla periferia industriale di Milano” si sono dati regole comuni di autogestione, produzioni contadine e “rispetto delle condizioni di lavoro” o come la storia di “Sfrutta Zero” con “migliaia di vasetti” di salsa di pomodoro che dalla Puglia - tra Nardò e Bari - arrivano fino al Trentino grazie a una “comunità di tipo cooperativo e mutualistico, in grado di sottrarsi alle multinazionali delle conserve”. C`'è poi anche la rete di “Funky Tomato” in Basilicata e Campania nata nel 2015 “che si impegna a redistribuire il lavoro e combattere lo sfruttamento agricolo”: “Si acquista tramite pre-finanziamento a partire da maggio quando viene avviata la campagna d’acquisto e le conserve arrivano a metà agosto, con i pomodori provenienti dalla zona del Vesuvio, Sarno e Oppido lucano. L’anno scorso ne sono state prodotte 150mila. Di questa filiera fanno parte tante piccole aziende agricole che accettano di produrre secondo i criteri di agricoltura organica, capacità produttiva e tutela del lavoro”.

Foto via Giornalemio

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