La grande truffa della cancel culture
18 min letturaQualche giorno fa il New York Times ha dato notizia di oltre 200 parole che, per effetto dell’amministrazione Trump, stanno sparendo da linee guida, documenti ufficiali, siti web, o che iniziano a essere fortemente limitate. Un vero e proprio elenco di parole proibite frutto degli ordini esecutivi della Casa Bianca. Tra queste parole troviamo “razziale”, “bias”, “ingiustizia”, “transgender”, “donne”, “disabilità”, “oppressione”, “sesso”, razzismo”.
La realtà politica è quindi andata lievemente in controtendenza rispetto a chi, da buon turista dei conflitti, si è prodigato a spiegarci le derive autoritarie del “politicamente corretto”, della “wokeness” e i pericoli della “cancel culture”. Gente che ci ha avvertito come l’uso dei pronomi in bio o lo schwa avrebbe finito con il distruggere la Civiltà Occidentale in base a una sorta di effetto domino.
Tra questi granelli di sabbia nella clessidra del tempo, troviamo gente che ha innalzato a “colti” e “lucidi” critici “dell’ideologia woke” figure come Jordan Peterson. Il quale in realtà è stato un vero e proprio acceleratore culturale delle pulsioni di estrema destra in giro per il mondo, avendo costruito la propria fortuna scagliandosi contro il “pericolo totalitario” di leggi che tutelano le persone LGBTQIA+ da discriminazioni.
E come dimenticare chi, solo un paio di mesi fa ci spiegava - ma serio, eh - che Elon Musk non aveva mai fatto due saluti nazisti di fila, perché da tradizione quel gesto “non parte con la mano sul cuore, implica tutta un’altra postura”? Peccato non abbia fatto anche il tutorial su YouTube per spiegare come si fa un saluto nazisticamente corretto.
Alle spalle delle Cassandre più permalose della storia recente, meticolose nel profetizzare la lanugine sull’ombelico, si erge una collezione di dinosauri fuori tempo massimo per l’estinzione, di cui forse ora leggeremo libri sulle follie del politicamente corretto per gustare l’effetto di involontaria comicità. Tra queste folte e fila, molti si esibiranno in una buffa danza rituale, che vede la testa finire sotto la sabbia mentre il resto del corpo si agita forsennatamente. Altri faranno semplicemente finta di nulla.
Ma, per carità, limitiamoci ad apprezzare l’ottima coordinazione motoria dei primi e archiviamo le polemiche. Dopodiché, prendiamo spunto da quanto accaduto negli ultimi 5 anni per spiegare come un certo tipo di dibattito non solo non ha aiutato a vedere o capire quello che stava arrivando, ma ha diretto lo sguardo sul lato sbagliato dell’edificio a rischio crollo, anche quando animato dalle migliori intenzioni.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Tre casi di "cancellazione" (tutti veri)
Partiamo da alcuni casi ipotetici, ispirati a fatti di cronaca che negli ultimi anni abbiamo più o meno associato a certo tipo di notizie e relativo vocabolario. Se i casi non vi convincono non preoccupatevi: usate episodi reali di cui avete letto in passato, svolgendo l’esercizio che andremo a vedere.
Primo caso. Un professore universitario viene licenziato da una facoltosa università americana dopo numerose proteste da parte degli studenti, che lo accusano di essere razzista per aver letto ad voce alta un insulto contenuto in un romanzo. Per giorni e settimane, le proteste hanno preso la forma di reclami, petizioni online, innumerevoli post sui social media, tra cui alcuni fortemente aggressivi. Sono intervenuti anche colleghi del professore, più che altro per dissociarsi da lui, per sposare le ragioni degli studenti che protestano.
Ecco la cancel culture in azione, dicono e scrivono molti commentatori, rilanciando dagli Stati Uniti all’Italia un ecosistema ben preciso di siti, canali YouTube, account social. Ecco la sinistra illiberale che mostra il suo vero volto, la sinistra che dall’America all’Europa vuole cancellare la storia, abbattere le statue, riscrivere il presente in base a gerarchie di vittimismo e quindi di oppressione. Non si può più dire niente, ecco il razzismo al contrario, la dittatura del politicamente corretto, eccetera e così via.
Rispetto a questa posizione dominante, ci saranno vari atteggiamenti. Qualcuno dirà: ma ce ne deve davvero fregare di questa cosa? Altri diranno che si tratta di un caso di razzismo e che gli studenti avevano ragione, pur con qualche eccesso di troppo. Altri proporranno una declinazione di critica da sinistra, lamentando che per colpa delle “identity politics” si stanno perdendo di vista le battaglie importanti e soprattutto le istanze della classe lavoratrice.
Ci sarà poi chi proverà a tracciare un punto di vista medio tra gli estremi del discorso, in nome della razionalità e del buon senso. Ma tutti, in un modo o nell’altro ruoteranno intorno allo stesso vocabolario e allo stesso concetto centrale, o per affermazione o per negazione. L’episodio è quindi prima di tutto la conferma o la smentita di un fenomeno globale pre-esistente, che viene rafforzato da caratteristiche del caso specifico.
Immaginiamo ora un mondo dove non esiste l’espressione cancel culture. Come sarebbe stato trattato il caso? Come ne avreste parlato, se vi fosse toccato scriverne vivendo a Milano, o a Napoli o perché no a Sanfatucchio?
Prima di tutto non avreste potuto scartare l’ipotesi che il licenziamento fosse sensato. In secondo luogo avreste valutato concetti come “licenziamento senza giusta causa” o “libertà di insegnamento”, andando a verificare l’applicabilità. Avreste cercato di capire come funzionano i codici disciplinari di quella università, il contratto di un professore americano, la differenza tra una posizione “tenure” e una “non tenure”; avreste cercato familiarità con gli aspetti culturali, cosa è considerato razzismo e cosa no in quel contesto, e perché. Se impossibilitati a intervistare i diretti interessati, avreste cercato fonti il più vicino possibile al microcosmo in cui è avvenuto l’episodio: ad esempio il giornale universitario, o la cronaca locale, fonti da affiancare alle conversazioni online.
Avresto perciò trattato l’episodio prima di tutto come un caso di potenziali diritti lesi, eventuali abusi, e poi, secondariamente, come un caso di libertà di espressione. Questo anche perché, di solito, libertà di espressione e libertà accademica sono due concetti che spesso si sovrappongono nel discorso pubblico, ma non giuridico o disciplinare. O comunque non sono così identici, così come la tutela di tutti questi diritti cambia se casi del genere avvengono negli Stati Uniti, nel Regno Unito, nel Canada e così via. Molti strati più giù, forse, sareste forse andati a toccare il dilemma “quando si può usare la n-word”?
Secondo caso. Una nota multinazionale decide di rimuovere dalla propria piattaforma streaming l’episodio di un telefilm degli anni Novanta dove uno dei personaggi si esibisce nella blackface. Non ci sono state proteste o mobilitazioni contro la serie, ma si tratta di una decisione autonoma presa dalla piattaforma. Anche in questo caso parte un dibattito con parole simili: ecco la wokeness all’opera, il politicamente corretto, la cancel culture, oggi telefilm così non sarebbe più possibile farli, e così via.
Togliendo dal tavolo quelle formulette, come ne parleremmo invece? Probabilmente come di una decisione presa per motivi di PR o marketing. Una strategia di riduzione del danno: si tolgono contenuti che potrebbero creare problemi di immagine e quindi perdite di soldi, giocando d’anticipo. Qualcuno potrebbe far notare lo squilibrio di potere di cui godono le piattaforme. Potenzialmente si potrebbe porre la questione della censura, se la proprietà intellettuale e materiale, così come il potere di distribuire quei contenuti è nelle mani di un’azienda, e non esistono altre forme di archiviazione. Ultimo ma non meno importante, sarebbe necessario avere cognizione di cosa sia la blackface e del perché sia problematica.
Terzo caso. Un politico americano descritto come fascista da autorevoli studiosi della materia, promotore anni addietro di un’insurrezione armata a seguito di un’elezione persa, si candida alle presidenziali. Attorno a lui gravitano organizzazioni fasciste, think-tank ultra-conservatori con un voluminoso programma volto a cancellare lo Stato di diritto, e un vero e proprio ecosistema informativo che rilancia teorie cospiratorie e disinformazione creando una vera e propria realtà parallela per milioni di cittadini. Il politico vince le elezioni, grazie anche all’appoggio diretto di oligarchi, e inizia ad attuare quanto promesso in campagna elettorale. Vengono così proibite per legge alcune parole, cancellate le immagini di minoranze dai siti governativi, e altro ancora.
Chi per anni ha denunciato i pericoli della cancel culture e della wokeness, ora parla degli eccessi della anti-wokeness, o di cancel culture di destra. Non è troppo diverso dalle varie linee guida imposte dalla pubblica amministrazione, no? La “destra woke” ha rimpiazzato la “sinistra woke”, scrive Thomas Chatterton Williams: uno che che nel 2020, in piena ondata di proteste dopo l’omicidio di George Floyd, è stato tra i principali responsabili della lettera di Harper’s Magazine sulla cancel culture, sulla cui problematicità si era già scritto a suo tempo.
M'era venuto un dubbio. Ho controllato per sfizio. E infatti.
— Matteo Pascoletti (@matteopascoletti.bsky.social) 25 febbraio 2025 alle ore 13:42
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Senza questo vocabolario, parleremmo invece di fascismo assalto alla democrazia liberale, dovremmo guardare ai pericoli che corre il Primo Emendamento, al rischio di una nuova segregazione. Se vivessimo negli Stati Uniti, valuteremmo di mobilitarci per organizzare forme di resistenza civile, capiremmo che i dibattiti da tè e pasticcini in giardino lasciano il tempo che trovano, quando l’elefante nella stanza ha iniziato a tirare giù tutto l’edificio.
Capito dove sta la fregatura?
Collateralismo
Partiamo dalla fine. Se di fronte a un’accelerazione autoritaria volta a distruggere lo Stato di diritto e a instaurare una dittatura il meglio che si riesce a esprimere è parlare in termini di Trump come nemesi della cancel culture, l’operazione non è solo linguistica. Siamo in presenza di un collateralismo ideologico. Il fascismo non è presentato come un fenomeno autonomo con una sua storia, produzione teorica, insiemi di pratiche, reti di relazioni, risorse, organizzazioni, interessi che si coagulano attorno a un culto del capo e a frame utili ad avanzare la causa normalizzandola.
Diventa invece, nel migliore di casi, il racconto di una deriva che esiste in funzione di un’altra deriva. Ne consegue che non bisogna mai risolvere il fascismo o le derive della destra conservatrice, ma “la sinistra”. Quest’ultima è vista come agglomerato in grado di influenzare la società al punto da far nascere e crescere i nuovi fascismi, e al tempo stesso è ritenuta incapace di influenzare la società quanto basta per vincere le elezioni. In pratica è il figlio sovraresponsabilizzato di una famiglia disfunzionale dove c’è almeno un elemento che andrebbe arrestato da tempo, come minimo.
Il fascismo incarnato dai Trump di turno è così presentato come una degenerazione della sinistra (la “wokeness”, la “cancel culture”, il “politicamente corretto”), cui la destra ha reagito elaborando una reazione di segno opposto (“anti-woke”, “cancel culture di destra”, “politicamente scorretto”). E così fascisti e suprematisti di tutto il mondo, i peggiori bigotti in attesa di sostenere qualunque spinta eversiva, potranno dirsi in pubblico “anti-woke”, salvo poi, a porte chiuse o quando i tempi saranno maturi dire quello che pensano davvero ad alta voce. È come se valutassimo il Ku Klux Klan una "organizzazione anti-Black Lives Matter”, o le leggi razziali fasciste una reazione agli eccessi degli ebrei di inizio Novecento. Non è un pensiero debole, o una fallacia logica, o un errore di analisi: è una giustificazione.
— Elon Musk (@elonmusk) April 28, 2022
Questo collateralismo non può che dilagare, inquadrando ogni abuso come un eccesso di reazione a una sinistra anche solo immaginaria. Jeff Bezos censura editoriali o pretende di imporre un’agenda filogovernativa mettendo a repentaglio l’indipendenza e la credibilità del giornale, tanto da provocare dimissioni per protesta? Niente di tutto ciò. In realtà “chiude le porte agli opinionisti troppo di sinistra”. Avete presente tutti quegli editoriali del Washington Post dove si faceva l’apologia dell’esproprio proletario, no?
Jeff Bezos chiude le porte agli opinionisti troppo di sinistra al WaPo: «Scriveremo ogni giorno in sostegno e in difesa di due pilastri: le libertà personali e il libero mercato... i punti di vista contrari a questi pilastri saranno lasciati alla pubblicazione da parte di altri». https://t.co/sohTG3foyC
— Paolo Mossetti (@paolomossetti) February 26, 2025
Conseguenza del collateralismo è il sospetto che adombra tutto ciò che rimanda a un impegno politico proveniente da quei gruppi solitamente marginalizzati. “Attivista” è un’etichetta negativa che indica un difetto di obiettività: non esistono persone LGBTQIA+ con delle competenze, esistono organizzazioni, anzi “lobby” colpevoli di voler influenzare il mondo e corrompere minori.
Più spesso, sul versante opposto, vediamo invece presentate come neutre organizzazioni che tali non sono. “ESCLUSIVO: Ecco la nonna arrestata in Scozia dalla polizia del linguaggio”, titola Free Press, in un articolo che, tra l’altro, sostiene come nel suo discorso di Monaco JD Vance avesse ragione nel denunciare la censura in Europa, proprio citando la Scozia come esempio. Peccato che la donna faccia parte di un gruppo di attivisti antiabortisti, sostenuti da organizzazioni religiose americane, che da anni molestano donne e personale medico fuori da cliniche e ospedali.
Insomma, giornalismo che diventa funzionale alle pratiche di astroturfing, creando finti movimenti dal basso e sostenendo sia la propaganda di un governo, sia l’azione di gruppi ultraconservatori. Il tutto su un sito fondato da Bari Weiss, altra figura nota a chi nel 2020 ha seguito la lettera contro la cancel culture di Harper’s Magazine. E che nel 2025 può contare per la sua media company sul sostegno di miliardari come Paul Marshall, che nel Regno Unito possiede GB News, UnHerd e lo Spectator.
Neutralizzazione simbolica
Un altro effetto di questo dibattito è la neutralizzazione dei rapporti di forze e degli obiettivi degli attori in campo, sostituiti da una “guerra simbolica”, come le cosiddette culture wars. Le leggi non sono l’esito di queste guerre, che preparano loro il terreno, ma qualcosa che accade nel tempo. Gli attori in campo non contano, se non come espressione di uno dei due eserciti.
Ecco che il gruppo esagitato di studenti marxisti di un’università vale quanto il think tank ultraconservatore che finanzia iniziative negli stessi atenei. Si finge che intellettuali come Judith Butler, tra le più importanti intellettuali nel campo degli studi di genere e accusata di essere tra le promotrici della fantomatica “ideologia gender”, abbiano lo stesso peso politico e potere di influenza di think tank ultraconservatori che finanziano università prestigiose, e che possono far chiudere programmi di studi con la semplice minaccia di togliere fondi.
La conflittualità più o meno esasperata è un problema che attraversa sempre il dibattito politico, laddove prevale il settarismo, la visione del “noi vs loro”; ma una democrazia liberale ha leggi e norme che regolano i conflitti. Quando però solo una delle due parti è davvero in guerra con l’altra per eliminarla, il rischio è di far credere che entrambe stiano conducendo lo stesso gioco, e che quindi, alla fine, se vince chi ha come obiettivo conquistare lo stadio spezzando le gambe agli avversari, diremo che è semplicemente stato più spregiudicato. O che l’avversario era troppo debole.
Negli Stati Uniti per esempio, la radicalizzazione a destra del Partito Repubblicano è una costante iniziata negli anni Settanta, con una accelerazione iniziata all’incirca dopo l’11 settembre. Il Partito Democratico, nello stesso arco di tempo, è diventato leggermente più liberal. Nulla del programma di Kamala Harris lasciava del resto immaginare un incubo di segno opposto rispetto all’America di Trump, in caso di vittoria.
Questa neutralizzazione si lega e si rafforza con un difetto diffuso nella copertura giornalistica: la pretesa di dare copertura simmetrica a realtà asimmetriche, in nome di una presunta obiettività. Senza di essa, la radicalizzazione di una parte politica andrebbe raccontata come “guerra alla democrazia”.
Quando però la realtà politica diventa di per sé troppo estrema anche per questa neutralizzazione simbolica la modalità di racconto mostra i suoi limiti, e il vocabolario di cui si nutre risulta straniante, se non persino ridicolo. Ecco perciò che l’arresto dello studente e attivista palestinese Mahmoud Khalil non è inquadrabile come “cancel culture di destra” o “anti-wokeness”, o come “crisi della libertà di espressione nei campus universitari”: non è arruolabile in quel palinsesto narrativo e dagli schieramenti che ha prodotto nel tempo, a meno che non si voglia sconfinare nel ridicolo. I simboli finora usati non hanno sufficiente capacità di neutralizzazione verso un caso da manuale di fascismo applicato. Proprio ora che ci sarebbe bisogno di un serio dibattito a trecentosessanta gradi sulla libertà di espressione e di insegnamento nei campus universitari, molti campioni della libertà di espressione hanno d’improvviso di meglio da fare. Oppure, sotto sotto, applaudono.
Ma date tempo al tempo, e vedrete che si riuscirà a glorificare anche questi arresti e a trasformarli in dibattiti, con delle modalità che sono proprie della propaganda dei regimi autoritari, Come scrive il politologo Anton Shekhovtsov, “qualunque simulazione o falsità le élite oligarchiche escogitino per mantenere il controllo, la sosterranno incessantemente con risorse sufficienti a renderla un convincente sostituto della realtà”. Se si riesce a farlo con i saluti nazisti, figuriamoci con arresti e deportazioni arbitrarie.
Indifferenziazione nello spazio e nel tempo
Se simboli e idee sono più importanti degli elementi concreti e specifici, i contesti locali e la prospettiva storica non contano, né è richiesto di conoscerli per produrre queste storie, o fruirne. Perciò se nella newsletter di un museo in Toscana viene usato un asterisco per non indicare il genere, il licenziamento dei dipendenti responsabili può stare nella stessa conversazione della legislazione anti-LGBTQIA+ in Stati come Florida e Texas, poiché tutto sta nell’asse “woke/anti-woke”. Il “politicamente corretto” è una pandemia che può diffondersi e colpire ovunque.
La negazione della prospettiva storica impedisce di collocare i fenomeni nel tempo, la tradizione da cui provengono, l’espressione di una cultura che può essere trasmessa e appresa; è così sostituita da un astrattismo globale che guarda ai fenomeni dall’alto verso il basso. Il passato non è una dimensione cui siamo legati con rapporti di continuità o responsabilità. Piuttosto è un’epoca da guardare con nostalgia, persino mitizzandola come una dimensione di grandezza perduta. Ciò non solo favorisce il rabbioso bisogno di un rinnovamento (Make Qualcosa Great Again), ma ostacola la comprensione delle pratiche di lotta politica impiegate nel presente.
Ad esempio, molte delle tecniche di protesta nonviolenta e disobbedienza civile censite negli anni Settanta dal sociologo americano Gene Sharp sono attualmente impiegate da attivisti in tutto il mondo, ma non sono raccontate come tali. Il cosiddetto “no-platforming”, nel Regno Unito, affonda le radici nella tradizione antifascista britannica e nel bisogno di ovviare a legislazioni carenti nell’arginare il proliferare dei movimenti fascisti nel dopoguerra. Tutti questi metodi hanno una componente di conflittualità, provocano un certo livello di disagio o distruzione, attraverso forme di contestazione, boicottaggio od ostracismo.
Ci possono essere degli abusi nell’uso di queste tattiche: ad esempio possono essere impiegate per cause veniali, o controproducenti. Oppure chi le utilizza si spinge troppo oltre, mettendo a repentaglio l’incolumità delle persone. Ma nel dibattito sulla “cancellazione” questa prospettiva interna alla storia delle pratiche e dei movimenti è assente. Si raccontano piuttosto gli usi barbari di una massa caotica che minaccia l’ordine costituito e le buone norme del vivere civile.
Questo è un peccato poiché proprio in tempi così difficili ci sarebbe bisogno di fare un serio lavoro di divulgazione e formazione, rendendo queste pratiche il più possibile mainstream e accessibili anche solo come lettura dei conflitti, fuori e dentro movimenti e associazioni.
Studiare la storia dei conflitti politici permette anche di vedere come certi tormentoni abbiano dei precedenti, e non siano figli quindi della corruzione degli ultimi decenni. La branca della medicina che si occupa delle persone transgender esiste da almeno un secolo, quando ancora non esisteva il “pericolo gender”, mentre esisteva già chi voleva cancellare le persone LGBTQIA+, e non per modo di dire.
Nel Regno Unito prima della “sinistra woke” c’è stata la “sinistra loony” (balorda) degli anni Ottanta. Più o meno nello stesso periodo, la Sezione 28, la legislazione che vietava la “promozione dell’omosessualità”, veniva sostenuta contro la “mafia gay” e per proteggere i minori. Anche per questo motivo nel Regno Unito uno slogan molto diffuso nel mondo LGBTQIA+ recita “la transfobia è omofobia riciclata”.
L’indifferenziazione locale e storica, infine, abbassa il livello di informazioni necessarie per produrre un articolo. E quindi anche la qualità generale delle notizie, alimentando un’industria dell’informazione e dell’editoria al ribasso, dove già prevale il lavoro freelance, di solito pagato poco e in ritardo. Fattori che incidono sulla libertà di espressione, come ricorda Reporter Senza Frontiere a proposito dell’Italia e del ricorso al precariato.
La prima questione di classe, dunque, dovrebbe vedere protagonista proprio chi alimenta questo tipo di informazione e dibattito, di cui finisce per essere vittima senza tutele. Partecipare a questo tipo di racconto della realtà nuoce a chi col proprio lavoro alimenta un’industria che non ha il potere di cambiare, e che già inizia a sostituirlo con il lavoro automatizzato nella produzione di contenuti.
Distrazione e depoliticizzazione
Se pensate che la sinistra dovrebbe occuparsi di questione di classe, una soluzione semplice c’è: occupatevi di questioni di classe (se qualcosa ve lo impedisce, allora è quello il problema che dovete affrontare). Iscrivetevi a un partito, o a un sindacato, raccontate storie che illuminino quella prospettiva, contribuite a reti che aiutino a diffonderle, lavorate perché siano economicamente sostenibili e prendetevi cura della vostra salute mentale. Nessuno salva nessuno quando è in burnout.
Problematizzate le strutture di potere senza darle per scontate, non isolatevi ma andate verso una collettività che possa in qualche modo esercitare una pressione o anche solo rendervi meno vulnerabili e più tutelati. Lavorate sulle pratiche e sulle parole in funzione delle pratiche; le parole che usate, così come quelle che non usate, sono la premessa di nuove pratiche, o di norme che le regoleranno. O che potrebbero abolirle del tutto.
Altrimenti state occupando un ruolo su un palcoscenico il cui principale effetto è mantenere in piedi una struttura, un assetto sociale, o problematizzare in una direzione ben specifica. Declinazioni attive di impotenza, mentre viene ridotto il potere di azione di chi vuole uscire da quella impotenza. E il vostro ruolo, nel tempo, diventa quello del compare nel gioco delle tre carte, che dice a chi sta puntando “eh, ma se metti i soldi lì ovvio che perdi”.
A cosa serve alimentare un dibattito che non produce un incremento di capacità di azione, una redistribuzione di potere, né di essere al servizio di chi idealmente dovrebbe trarne beneficio, e questo perché c’è prima di tutto uno scollamento tra parole del dibattito e pratiche politiche? A meno che non siate dei saggi eremiti, la teoria scollegata dalla prassi produce depoliticizzazione, e questo si riflette nel nostro sguardo.
Andando in ordine sparso, è davvero curioso come, per spiegare tutta una serie di fenomeni, negli ultimi anni siano state davvero scarse le parole spese per parlare dell’agenda politica e dei problemi posti da organizzazioni, personalità, canali di informazioni nel campo di destra di queste “guerre culturali”. Solo per citare alcuni nomi: Heritage Foundation, Turning Point, Fox News, GB News, Cato Institute, Rupert Murdoch, Peter Thiel, Andrew Tate, Alliance Defending Freedom, Tommy Robinson, World Congress of Families, Moms of Liberty, Proud Boys, Nigel Farage.
Sarebbe stato utile mettere in campo più capacità nell’analizzare, mostrare, rendere intelligibili quelle strutture di potere che investono ingenti quantità di denaro per colpire gruppi specifici di persone e, attraverso di loro, diritti fondamentali. Ciò avrebbe reso molto più onesto un discorso alla: “non badiamo a difendere quei gruppi, pensiamo ad altro, sennò si perdono le elezioni”. Magari si sarebbe smesso di usare come alibi discorsi alla “Chiediamoci come mai la gente crede agli Haitiani che mangiano cani e gatti” o pensare che il fact-checking sia nel bene o nel male responsabile delle sorti del mondo, facendone ora un feticcio, ora un capro espiatorio.
Questo è il grande tavolo truccato da cui è bene alzarsi, o che al limite conviene iniziare a rovesciare. Perché ci sono organizzazioni specifiche che producono o alimentano certi tavoli al solo scopo di restare fuori dai radar, oppure si siedono fingendo di giocare lo stesso gioco di chi vorrebbero eliminare. Come pensate che si mantengano al potere gli Orbán nel cuore dell’Europa? E come potete pensare, mentre scrivete di certi temi, che questa domanda non riguardi l’essenza stessa del vostro lavoro e dei vostri diritti?
Quando leggo l’ennesima intervista o articolo che dice, all’atto pratico, “la sinistra ha scelto i diritti civili al posto dei diritti sociali”, di solito ho due pensieri: il primo è: “non è che un partito politico nel programma deve scegliere o salario minimo o legge sulla cittadinanza, può mettere entrambi”.
Il secondo pensiero, più elaborato, consiste nell’immaginare di avere questa persona davanti, e di avere con me due elenchi. Da una parte tutti i cosiddetti “diritti civili”, dall’altra i tutti i “diritti sociali”. Poi chiederei a questa persona: tra questi, a quali dovrebbe rinunciare la sinistra? Fatta quella scelta, chiederei: di quelli cancellati, quali ti colpiscono direttamente?
Perché alla fine il terminale di queste discussioni o si innesta sullo Stato di diritto, i corpi intermedi, il piano legislativo, oppure procede su un binario parallelo, in una sorta di simulazione postmoderna che serra sempre più la sua morsa. Se non si è riusciti a fermare il pericolo in tempo negli Stati Uniti, il minimo dovrebbe essere non commettere gli estessi errori di sempre mentre si cerca di fermarlo in Europa.
(Immagine anteprima via Flickr)
