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La campagna contro la musica trap non ha solide basi scientifiche

29 Marzo 2025 15 min lettura

La campagna contro la musica trap non ha solide basi scientifiche

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di Niccolò Parri*, Tiziana Metitieri

Recentemente alcuni pediatri hanno diffuso un allarme sui potenziali effetti dei contenuti violenti dei testi di cantanti rap/trap. Questi, secondo quanto affermato sulle pagine social dei colleghi e sull'ANSA che ha ripreso prontamente la notizia, avrebbe un effetto sui bambini che “potrebbero assorbire inconsapevolmente valori che non sempre sono positivi”. Sarebbe pertanto necessario “promuovere un ascolto consapevole e proteggere i più giovani da messaggi che possono influire negativamente sul loro sviluppo emotivo e comportamentale”.

Questa notizia ha creato un nuovo allarme. Dopo i videogiochi, adesso anche la musica (o almeno qualche artista) avrebbe un impatto negativo sullo sviluppo dei bambini. L’iniziativa ha promosso l’hashtag #solocanzonibelle che si contrappone alle “barre dei rapper più famosi”, “perché [noi] siamo (anche) quello che ascoltiamo”.

La premessa è che la musica ha

un ruolo educativo e può influenzare profondamente chi la ascolta, specialmente i più piccoli. I bambini assorbono tutto ciò che li circonda, anche messaggi che rischiano di condizionarli in modi che nemmeno immaginiamo". Secondo alcuni pediatri, “molte delle canzoni rap/trap, ascoltate da bambini e adolescenti, possono lasciare un impatto negativo sul loro sviluppo emotivo e sociale. La violenza normalizzata nei testi o il perpetuarsi di stereotipi maschilisti possono diventare modelli che i giovani interiorizzano e replicano, compromettendo la loro visione del mondo e dei rapporti umani” (fonte ANSA).

Un video presente sui principali social si propone di stimolare una riflessione sull’importanza di selezionare con attenzione la musica a cui i bambini sono esposti. Quindi, vedendo il video di colleghi che cantano o recitano parole di Nannini, Mannoia e Battiato, contrapposti a frasi di rapper o trapper, fa intuire o almeno ipotizzare che si dovrebbe censurare la musica oggi popolare tra le fasce di età più giovani a favore delle canzoni preferite da un gruppo selezionato di persone adulte che ascoltano esclusivamente cantautrici e cantautori italiani dal secolo scorso. Il messaggio appare superficiale perché non si può escludere che queste canzoni facciano già parte delle playlist di ragazzi e ragazze assieme a quelle di artiste e artisti che raccontano il loro mondo con le parole e i ritmi di oggi, così come non lascia intendere che tante persone adulte preferiscano ascoltare rap, rock, trap e heavy metal.

Inoltre, un approccio del genere trascura sia la storia delle reazioni scomposte alle innovazioni musicali sia una lettura critica delle evidenze scientifiche.

La musica, i testi e le accuse di violenza nel secolo scorso

La storia della musica è piena di momenti in cui i testi con contenuti violenti, presunti o espliciti, hanno sollevato discussioni pubbliche. Quando negli anni '70/80 si ascoltavano Tozzi, Rettore o Cutugno, a Londra si formavano gli Iron Maiden, gruppo musicale heavy metal che da solo ha venduto oltre 100 milioni di copie di dischi, iniziando la carriera quando non esistevano Internet e lo streaming. L’industria trap potrebbe essere disposta a tutto per avvicinarsi a questi numeri. Oltre che per l’ottima musica prodotta, gli Iron Maiden si sono distinti tra l’altro per la presenza in copertina di tutti i loro album della loro mascotte Eddie (Eddie The Head, creatura ideata dall'illustratore Derek Riggs).  

Eddie compare in su vari album come zombie o in altre forma e in diverse pose o azioni violente, scabrose, impensabili. Eccone una selezione, seguendo la discografia completa presente sul sito internet dei musicisti:

  • Sanctuary, Eddie ha appena ucciso una donna, la quale si rivela essere una parodia del primo ministro Margaret Thatcher;
  • Women in Uniform, in primo piano c'è un'altra parodia di Margaret Thatcher, stavolta vestita da poliziotta mentre in secondo piano c'è Eddie che cammina per strada con due prostitute;
  • Killers, Eddie sorride con in mano un'accetta sanguinante mentre le mani della vittima sono aggrappate alla sua maglia;
  • The number of the beast, Eddie che tiene come burattino un diavolo che tiene a sua volta un burattino di Eddie e nell'altra mano ha un'alta fiamma;
  • Seventh Son of a Seventh Son, Eddie compare con un corpo scarnificato dallo sterno in giù, in mano regge il proprio utero (contenente un feto) la cui placenta fuoriesce da quel poco che resta della sua carne.

Sono alcuni esempi di violenza esplicita sbattuta in copertina, quando le copertine dei dischi contavano, eccome. Che dire poi dei messaggi occulti dei Led Zeppelin? Uno dei brani più famosi, Stairway To Heaven, celerebbe invocazioni a Satana, secondo le dicerie dell’epoca. Il verso “There’s a feeling I get [...]” diventerebbe «I’ve got to live for Satan» quando ascoltato al contrario. Fu il Parents Music Resource Center (Centro d'Informazione Musicale per Genitori), una associazione genitoriale statunitense fondata con lo scopo di valutare sotto il profilo morale ed educativo il contenuto che i prodotti discografici veicolavano, ad accusare a partire dal 1985 decine di gruppi musicali tra cui proprio gli Zeppelin, di diffondere messaggi satanici.

Trent’anni fa moriva Frank Zappa, genio musicale dalla mente acuta. Uno dei più sottili critici sociali che a differenza dei suoi predecessori è stato capace di fondere più generi musicali e satira. Stupiva con le sue canzoni anarco-sessuali e creava scandalo raccontando di diavoli che mangiano il seno alle signorine e storie di banditi che amano praticare un clistere alle loro vittime prima di rapinarle (The Illinois enema bandit).

Tuttavia, Zappa non ha fatto l’occhiolino alla pornografia per il successo. Negli anni Ottanta Zappa si distinse per la sua opposizione alla censura musicale e rimane alla cronaca la sua audizione al Congresso statunitense per protestare contro ogni genere di censura (promossa dal Parents Music Resource Center): il suo discorso fu molto pungente e polemico. Zappa fece una premessa, appellandosi al primo emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà d’espressione. Un po’ come l’articolo 21 della Costituzione Italiana che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Durante l'audizione Zappa, nell'intento di denunciare con sarcasmo quanto proponeva il Parents Music Resource Center in materia di controlli, con riguardo alla richiesta censoria, paragonò l'associazione a chi «si propone di eliminare la forfora tramite la decapitazione». Un intervento che fece scalpore, ma da quel momento il mondo intero respirò un po’ di libertà in più.

Nessuno è obbligato a portare il pop, il rap, il trap, il rock o l’heavy metal nelle proprie case e playlist. Chiunque è libero di ascoltare e acquistare diversi tipi di musica senza dover temere per la salute futura propria e della propria prole.

Se si crede che censurare il trap, rap o testi violenti aiuti davvero, bisognerebbe analizzare meglio la questione perché scientificamente si rischia di incorrere facilmente in distorsioni. Il nesso di causa-effetto non è facilmente dimostrabile. L’esposizione a testi violenti/copertine violente non ha dimostrato finora di essere causa di comportamenti violenti. Affermare che chiunque ascolti i testi violenti diventerà violento, o come sostengono i colleghi , che questi testi potranno influire fortemente sullo sviluppo dei bambini equivale a ipersemplificare e a ridurre a un unico fattore (il testo trap di quell’artista) la complessità di comportamenti che invece sono il risultato delle interazioni tra molteplici fattori neurobiologici, psicologici, culturali, sociali ed economici e del loro variare nel tempo.

Questo insieme di fattori costruisce il contesto nel quale si scelgono determinati generi musicali. Descrivere, narrare o ascoltare la violenza non significa essere pro, significa solo far capire che c'è violenza e bisogna guardarsi dalla violenza, sapendo, in certi casi anche reagire ad essa.

Ed ecco l’hip-hop. Spesso ritenuto in gran parte responsabile della violenza urbana nelle comunità americane, è stato sottoposto a un attento scrutinio per la sua influenza e il suo impatto sulla gioventù di colore per decenni. È comprensibile criticare alcuni aspetti del genere per la sua volgarità, misoginia o per la rappresentazione negativa della comunità nera per quanto riguarda gli artisti americani, o la rappresentazione negativa degli artisti stessi per quanto riguarda quelli nostrani.

Nonostante questo, attribuire la colpa esclusivamente alla musica per la violenza è, nel migliore dei casi, problematico e, nel peggiore, illogico. Quando l'hip-hop è emerso nel mainstream alla fine degli anni '70, raramente rifletteva o promuoveva la cultura delle gang, il traffico di droga o la violenza insensata. Le canzoni dei primi artisti parlavano del divertimento, feste, abiti, o di chi fosse il miglior MC. Quando gli artisti parlavano di criminalità in quell'epoca, molti cercavano di dissuadere le persone dalla violenza. Nonostante la mancanza di glorificazione della violenza nella prima era della musica hip-hop, la violenza legata alle gang e al traffico di droga raggiunse livelli record in molte città urbane proprio in quegli anni. Storicamente, ciò avvenne prima ancora che il genere hip-hop esistesse nel mainstream. Chi era da incolpare per la violenza allora? Di certo non Stevie Wonder, o i Jackson 5 che andavano forte nella prima metà degli anni Settanta.

Sebbene la musica hip-hop possa contribuire a normalizzare comportamenti pericolosi, questi comportamenti esistevano ben prima della nascita del genere stesso e sono solo una parte della sua espressione. Mentre molti analizzano l’impatto dell’hip-hop sui giovani, tendono a ignorare le circostanze e gli ambienti che hanno reso i ragazzi vulnerabili fin dall’inizio. Dare la colpa alla musica per la violenza è spesso conveniente, poiché riflette il livello di volontaria ignoranza spesso trasmesso ai giovani, ma racconta una storia unilaterale.

Questo approccio punta il dito contro la musica che riflette la cultura disfunzionale, anziché contro il sistema che ha creato quella stessa cultura disfunzionale. Ci sono una miriade di fattori e responsabilità dietro la violenza. Si può portare attenzione alla povertà, al contesto sociale, alla mancanza di risorse comunitarie e ai sistemi educativi carenti. Attribuire esclusivamente la causa della violenza a un certo genere di è scorretto perché ignora e sminuisce i problemi che affliggono alcuni giovani e le famiglie e le reali responsabilità. Sono individuali e contestuali i diversi fattori che influiscono sulle capacità decisionali, sulla rabbia e sulla capacità di mantenere il controllo emotivo. Se la musica violenta scomparisse domani, non esistono prove che suggeriscano che la violenza diminuirebbe o cesserebbe di esistere.

Le evidenze scientifiche: musica, i testi e violenza

Le preoccupazioni eccessive verso la musica popolare sono state riproposte ciclicamente con il jazz, il rock‘n’roll, l’heavy metal, il rap e, da ultimo, con la musica trap. Per ogni ciclo possono essere ricostruite alcune fasi ricorrenti che caratterizzano le reazioni ai cambiamenti nella cultura popolare in modo particolare se interessano le fasce di età più giovani, dalla fanciullezza all’adolescenza.

La radio, i fumetti, i videogiochi, i cartoni animati giapponesi come Goldrake, le serie televisive come Squid Game, gli smartphone, i social media e la musica popolare nelle sue diverse forme hanno in comune l’aver scatenato quello che in ambito psicologico è stato definito come il “ciclo di Sisifo del panico verso la tecnologia” (Orben, 2020) e, per estensione, verso i mutamenti nelle pratiche del tempo libero e nella cultura popolare.

“Perché nessuno pensa ai bambini?” Dai videogiochi a Squid Game, oltre il sensazionalismo mediatico

Seguendo questo ciclo, le preoccupazioni della società verso un determinato cambiamento che riguarda i più giovani si diffondono e catturano l’attenzione dei media che, per avere pareri autorevoli, interpellano alcuni intellettuali e specialisti (non necessariamente esperti del tema) i quali si avvalgono di pubblicazioni scientifiche che tendono a semplificare e amplificare le preoccupazioni fino a portare alla creazione del panico morale.

Le preoccupazioni così trasformate non fanno riferimento alla qualità e alle caratteristiche specifiche del cambiamento in questione (ad esempio, gli aspetti musicologici) ma alla minaccia che esso rappresenta per le norme sociali e per i valori condivisi dalla comunità. L’intervento di esperti e rappresentanti politici si aggiunge a convalidare il panico e apre a soluzioni radicali (univocamente il divieto) che mostrano l’interessamento verso le preoccupazioni della società e così la rassicurano. Il clamore tende a protrarsi per un periodo durante il quale possono verificarsi audizioni nelle aule parlamentari, citazioni in giudizio, restrizioni per poi estinguersi spontaneamente.

Ogni ciclo del panico morale è dunque autolimitante e si riattiva all’affacciarsi di una nuova preoccupazione della società per un’innovazione culturale. Nel suo picco ci sono delle distorsioni che viziano l’integrità della comunicazione scientifica, escludendo i casi di conflitti di interesse non dichiarato (ad esempio, la vendita di libri, corsi, ecc.). Da un lato, per convalidare il panico morale gli esperti tendono a fare una selezione autoconfermativa delle pubblicazioni scientifiche per dare una qualche certificazione agli allarmi e, dall’altro, le evidenze scientifiche che smentiscono i supposti nessi causali vengono sistematicamente ignorate. È quello che si sta verificando con le reazioni allarmistiche verso la musica trap e gli effetti scatenanti che avrebbe sui comportamenti violenti nei ragazzi.

In primo luogo, la discussione sulla musica trap tende a focalizzarsi su una selezione di contenuti e di artisti estrapolati dal più ampio contesto economico-sociale e industriale musicale. In un’analisi di riferimento sui contenuti della musica rap pubblicata nel 2009, i criminologi statunitensi Ronald Weitzer e Charis E. Kubrin avevano rilevato che la maggior parte delle 403 canzoni analizzate non conteneva testi misogini ma erano invece molto rare le canzoni che rappresentavano le donne come indipendenti, istruite, professionali. I due autori, hanno evidenziato le tre condizioni in cui i testi rap vengono creati e queste sono tra loro interconnesse: “Lo svantaggio socio-economico e le relazioni di genere nelle comunità locali, gli interessi materiali dell'industria discografica e la più ampia oggettivazione culturale delle donne e le norme di mascolinità egemonica ad essa associate”.

Come accade anche per la musica trap, se l’industria musicale supporta con premi e denaro i contenuti sessisti non fa che rinforzare quella egemonia culturale disincentivando altri contenuti che la contrastano e la stessa promozione delle cantanti trap. Ne deriva che, chiedendo di silenziare una canzone o un artista, si decide di lasciare immutate le condizioni in cui quella musica è stata creata. Inoltre, attraverso la ripetuta esposizione mediatica si incentiva paradossalmente la ricerca e l’ascolto di quella canzone e di quell’artista, avallando il sistema di incentivi distorto dell’industria musicale e di fatto mantenendo immutate le condizioni culturali e socio-economiche. D’altronde questo meccanismo ben rodato può essere usato dall’industria stessa o da un artista come un’opportunità per raggiungere in tempi rapidi la notorietà.

In secondo luogo, le ricerche che vengono in queste settimane portate a supporto di un controllo sociale sulla musica trap sono metodologicamente deboli in quanto si basano su campioni di partecipanti a numerosità limitata o non rappresentativi, utilizzano strumenti di autovalutazione del comportamento non sufficientemente validati, si basano su analisi statistiche di potenza limitata, trattano le correlazioni come relazioni di causalità e non menzionano effetti bidirezionali e di contesto.

Insomma, citando questi studi si propone una soluzione radicale – coerente con il ciclo del panico morale – scaturita da una semplificazione del problema che non tiene conto delle intersezioni delle condizioni in cui gli artisti e le artiste trap si trovano a creare la loro musica e che sfrutta il modello riduzionista per spostare l’attenzione verso il presunto impatto dei testi sullo sviluppo dei ragazzi. Si tratta di un meccanismo deterministico che, attribuendo a circoscritte innovazioni tecnologiche o fenomeni culturali il potere di causare danni cognitivi, psicologici e sociali generalizzati di lunga durata, diffonde rapidamente il panico morale nel discorso pubblico e porta a considerare irrazionalmente il controllo sociale espresso in divieti come una soluzione semplice e appropriate a un problema complesso.

In particolare, nel caso della musica trap, due studi citati a supporto di questo meccanismo deterministico presentano numerosi limiti.

Lo studio di Coyne e Padilla-Walker (2015) oltre ai limiti della selezione del campione e all’arbitrarietà di giudizio sui comportamenti aggressivi, sessuali e altruistici identificati negli artisti, attribuisce erroneamente una relazione di causalità alle semplici correlazioni tra i punteggi riportati in due periodi.

Per come era stato costruito, lo studio non permette di misurare se il fatto di avere indicato un artista preferito giudicato come violento causi, l’anno successivo, anomalie nei comportamenti. Quello che si sa dei partecipanti è che si tratta di oltre 500 adolescenti partecipanti di cui non si conoscono altri dettagli come l’età, la condizione psico-fisica, scolastica e relazionale se non che appartengono a famiglie con redditi medio-alti. Gli adolescenti avevano dovuto indicare un artista preferito (solo al primo contatto) e poi rispondere ad alcune domande (alcune solo primo e altre al secondo contatto a distanza di un anno) sulla propria aggressività, sul comportamento sessuale, sui comportamenti verso le persone straniere. Pertanto, non tutte le domande sono state poste in entrambi i contatti (ad esempio, quelle sul comportamento sessuale solo al secondo) e questo indebolisce le interpretazioni. Inoltre, gli artisti venivano giudicati da altre persone (non specificate) come più o meno violenti e gli artisti più preferiti dai partecipanti erano stati: Taylor Swift, Eminem, Lil Wayne, Justin Bieber, i Beatles e Adele. Nell’articolo non sono mostrate le medie dei giudizi attribuiti ai diversi artisti che attraversano ampiamente la scena pop. Pertanto, non è possibile sapere quali artisti, giudicati come violenti, determinassero un incremento dell’autopercezione di aggressività a un anno di distanza nei partecipanti che li avevano scelti come preferiti l’anno prima.

Al netto di vizi nel trattamento dei dati, la mancanza di più informazioni sui partecipanti, la bidirezionalità delle correlazioni misurate (cosa viene prima tra la scelta di un artista e i tratti comportamentali?), la mancanza di informazioni di contesto (ci sono altri fattori che determinano certi comportamenti e scelte musicali?), l’affidamento esclusivo a misure di autopercezione dei comportamenti rendono deboli le conclusioni delle autrici secondo le quali “questa ricerca è una delle prime a mostrare associazioni a lungo termine nell'ascolto di contenuti specifici nella musica durante l'adolescenza […] l'ascolto di musica aggressiva è associato a un aumento dell'aggressività e a una diminuzione del comportamento prosociale nel tempo”. Correttamente, nella conclusione le due autrici fanno riferimento a un’associazione e quindi non alla musica come un predittore di comportamenti (nesso causale) come invece si legge nella sezione dei risultati dell’articolo.

Il secondo studio che viene citato è di Anderson, Carnagey e Eubanks (2003) e si suddivide in diversi esperimenti condotti su studenti universitari. Questa prima informazione limita la generalizzazione di ogni risultato ad altri partecipanti, ad esempio di età inferiore. Anche in questo studio mancano maggiori dati individuali e contestuali sui partecipanti che in ogni ricerca psicosociale dovrebbero essere esplorati e controllati per l’impatto che possono avere sui risultati.

Nei diversi esperimenti gli autori sottopongono i soggetti all’ascolto di una tra le canzoni selezionate come violente o non violente e, prima e dopo questa esposizione, fanno compilare loro dei questionari. Lo scopo degli esperimenti è misurare se dopo aver ascoltato canzoni con testi violenti gli studenti aumentavano l’ostilità e l’aggressività auto-percepite rispetto a quando ascoltavano testi non violenti. L’uso esclusivo di strumenti auto-riferiti di incerta validazione indebolisce l’affidabilità delle misure utilizzate dagli autori per verificare l’ipotesi che l’esposizione a musica violenta aumenti i pensieri e sentimenti aggressivi. Inoltre, è importante sottolineare che auto-riferire pensieri e sentimenti aggressivi non si traduce nella manifestazione di comportamenti aggressivi.

Osservando i punteggi medi ottenuti dai soggetti nelle diverse condizioni emerge poi che le differenze tra le varie condizioni sono davvero minime. Ad esempio, in uno degli esperimenti condotti dagli autori, le differenze nei punteggi medi alla scala di ostilità sono di +0.32 punti dopo l’ascolto di una canzone violenta rispetto a una non violenta (Medie di 3.00 e 2.68, rispettivamente) e di -0.27 dopo l’ascolto di una canzone umoristica rispetto a una non umoristica (Medie di 2.71 e 2.98, rispettivamente). È difficile ritenere che queste variazioni minime portino a cambiamenti comportamentali osservabili. Il complesso dei risultati è cosi debole che gli stessi autori sono cauti nelle conclusioni, pur sostenendo che gli effetti negativi di una canzone potrebbero durare molto poco dopo il suo ascolto o che potrebbero essere mitigati da altri eventi intercorrenti. Dal momento che i risultati pubblicati non sono comunque nella direzione attesa, gli autori concludono supponendo che “ci sono buone ragioni teoriche ed empiriche per aspettarsi che gli effetti dei testi musicali sul comportamento aggressivo siano simili agli effetti ben studiati dell'esposizione alla violenza televisiva e cinematografica e ai più recenti sforzi di ricerca sui videogiochi violenti”. A distanza di anni, sappiamo che la corposa ricerca sull’impatto comportamentale di video e videogiochi violenti non ha prodotto quanto sostenuto dagli autori.

Per potere studiare interazioni così complesse è necessario misurare le diverse variabili in modo oggettivo oltre che soggettivo, considerare i fattori individuali e contestuali, dotarsi di un impianto metodologico solido, estendere la numerosità e diversità dei partecipanti, condurre studi longitudinali su periodi più lunghi, limitarsi nel forzare le analisi statistiche per ottenere i dati desiderati, ridurre l’immaginazione nelle interpretazioni conclusive.

Senza dubbio, gli studi considerati non supportano le reazioni allarmistiche verso alcune canzoni e alcuni artisti trap. Aiutano invece a diffondere informazioni fuorvianti che, alimentando il ciclo del panico morale delle persone adulte, non contribuiscono a comprendere il fenomeno della musica trap tra i più giovani nelle sue diverse manifestazioni e nel contesto culturale attuale. In questo meccanismo ripetitivo di reazione ai mutamenti della cultura popolare, accade anche per la musica trap, che non si forniscano spazi di ascolto per ragazzi e ragazze che attraverso alcune canzoni possono diventare consapevoli della misoginia diffusa nel proprio ambiente o possono segnalare attraverso quelle preferenze l’egemonia in cui sono invischiati.

Come per gli smartphone, i social media e prima i videogiochi, anche per la musica trap si sceglie di punire gli utenti che beneficiano maggiormente degli spazi culturali, anticonformisti, ludici e relazionali della contemporaneità, anziché affrontare la misoginia diffusa e l’irresponsabilità dell’industria del settore e quindi senza, nel migliore dei casi, di fatto influenzare il sistema che le mantiene.

In conclusione, va bene informare. Tuttavia, considerando che di questi tempi l’accesso alla conoscenza è rapido, facile, tascabile, ma che a tale immediatezza non corrispondono approfondimento e accuratezza, per fatica o impossibilità di verifica (ai più), è sempre bene informare correttamente e, specialmente sui temi di salute pubblica, informare quando il messaggio comunicato e le conclusioni siano frutto di una propria idea (speculazione) supportata da evidenze replicate.

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E come concluse Zappa al Congresso,

That's it -- all. That's all I have to say.

*Niccolò Parri è medico pediatra e lavora al Pronto Soccorso Pediatrico Regionale e Trauma Center, dell'Azienda Ospedaliero Universitaria Anna Meyer IRCCS, Firenze

Immagine in anteprima via The Declaration

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