Cambiamento climatico: siamo l’ultima generazione che potrà combattere l’imminente crisi globale
13 min lettura"Il cambiamento climatico è la sfida chiave del nostro tempo. La nostra generazione è la prima a sperimentare il rapido aumento delle temperature in tutto il mondo e probabilmente l'ultima che effettivamente possa combattere l'imminente crisi climatica globale". Inizia con queste parole la dichiarazione congiunta di 16 capi di Stato e di governi europei (firmata per l’Italia dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) per chiedere che durante la conferenza dell’ONU sul cambiamento climatico (COP 24), in programma dal 3 al 14 dicembre a Katowice, in Polonia, siano adottate “norme operative dettagliate e linee guida che rendano operativo l’accordo raggiunto a Parigi tre anni fa".
Il nostro pianeta, prosegue la lettera, è vicino a un punto di non ritorno, come testimoniato dalle sempre più intense e frequenti “ondate di calore, inondazioni, siccità e frane, lo scioglimento dei ghiacciai e l'innalzamento del livello dei mari”. Le carenze delle risorse idriche e la crisi dei raccolti sono solo alcuni dei risultati immediati di questa situazione, che “ha un impatto devastante sugli esseri umani riducendoli alla fame o obbligandoli a migrare”.
Per questo motivo, sottolineano i capi di Stato, “bisogna fare di più e l'azione deve essere rapida, decisiva e congiunta. Stiamo già osservando le ricadute negative dei cambiamenti climatici” e le misure adottate dalla comunità internazionale non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi a lungo stabiliti dall’accordo di Parigi. Oltre a definire le azioni delle singole nazioni per il 2025 e il 2030, a Katowice dovranno essere enunciati gli obiettivi a lungo termine per ridurre le emissioni di carbonio e passare da fonti energetiche fossili a energie rinnovabili e raggiungere entro il 2050 l’equilibrio tra emissioni e assorbimento del carbonio. “Abbiamo l'obbligo collettivo nei confronti delle generazioni future di fare tutto ciò che è umanamente possibile per fermare i cambiamenti climatici e per rispondere ai loro perniciosi effetti”.
L’Organizzazione Meteorologica Mondiale: “Gas a effetto serra a livelli record. Bisogna intervenire subito”
Il 20 novembre la World Meteorological Organization (WMO) ha pubblicato un rapporto sulle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra nel pianeta: i livelli dei gas che intrappolano il calore nell'atmosfera hanno raggiunto livelli comparabili solo a milioni di anni fa, quando la temperatura era più elevata dai 2 ai 3 gradi e il livello del mare dai 10 ai 20 metri più alto, e non c’è alcun segno di inversione in questa tendenza.
Greenhouse gas concentrations in the atmosphere reach yet another record high. Details at https://t.co/1QnACIK4Jd #COP24 #ClimateAction pic.twitter.com/jgqNXrfaca
— World Meteorological Organization (@WMO) November 22, 2018
Nel 2017 le concentrazioni medie di anidride carbonica a livello globale hanno raggiunto 405,5 parti per milione nel 2017 (erano 400,1 parti per milione nel 2015 e 403,3 nel 2016). Il metano atmosferico (ndr, circa il 40% è emesso da fonti naturali come zone umide e termali, il 60% da attività umane come l’allevamento del bestiame, la coltivazione del riso, lo sfruttamento di combustibili fossili, le discariche e la combustione di biomassa) ha visto un nuovo massimo di circa 1859 parti per miliardo (ppb), il 257% rispetto al livello preindustriale. La concentrazione atmosferica del protossido di azoto (ndr, emesso nell’atmosfera da fonti naturali – per il 60% – e antropogeniche – circa il 40% – inclusi gli oceani, il suolo, la combustione di biomassa, l’uso di fertilizzanti) è stata di 329,9 parti per miliardo, il 122% rispetto ai livelli preindustriali. Il protossido di azoto ha effetti nocivi sullo stato di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti del sole. È tornato a crescere il triclorofluorometano (CFC-11), un potente gas a effetto serra che riduce l'ozono stratosferico, usato come agente refrigerante, nonostante le sue emissioni siano state regolate dal Protocollo di Montreal del 1987 per la riduzione del buco dell’ozono. Dal 2012 il suo tasso di declino è rallentato di circa due terzi rispetto al decennio precedente a causa, molto probabilmente, di un suo utilizzo nell'Asia orientale.
Secondo il National Climatic Data Center americano, nei primi sei mesi, il 2018 è stato il quarto anno più caldo di sempre dal 1880: la temperatura è aumentata di circa 1,06 gradi rispetto alla media dal 1880 al 1920. «Senza un rapido taglio delle emissioni di anidride carbonica e dei gas responsabili dell’effetto serra, i cambiamenti climatici avranno impatti sempre più distruttivi e irreversibili sulla vita sulla Terra. La finestra di opportunità per agire è praticamente chiusa», ha detto il responsabile del WMO, Petteri Taalas. Il 27 novembre, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) pubblicherà un altro rapporto sugli impegni politici presi dai singoli paesi per ridurre le emissioni di gas serra.
Questi rapporti si aggiungono alla relazione speciale dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), pubblicata lo scorso ottobre, che aveva prospettato scenari diversi per il nostro pianeta a seconda dell’aumento della temperatura entro il 2050. Lo studio era giunto alla conclusione che per evitare danni irreparabili al nostro ecosistema, carestie, siccità, scioglimento dei ghiacciai, distruzione delle barriere coralline, depauperamento delle specie vegetali e animali, migrazioni forzate a causa di inondazioni e catastrofi naturali, bisogna azzerare le emissioni di anidride carbonica entro la metà del secolo in modo tale da mantenere l’innalzamento delle temperature sotto gli 1,5 gradi centigradi.
Stiamo vivendo in un film dell’orrore?
How extreme weather is shrinking the planet: https://t.co/JlFlkvf5On pic.twitter.com/AkBL0MCd7Z
— The New Yorker (@NewYorker) November 17, 2018
È come se il mondo all’improvviso abbia iniziato a restringersi, sintetizza Bill McKibenn in un articolo sul New Yorker. L’innalzamento del livello dei mari, l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici dagli effetti catastrofici stanno restringendo gli spazi dove viviamo. E tutto questo avviene velocemente. Nove delle dieci più mortali ondate di calore nella storia umana si sono verificate dal 2000, prosegue il giornalista. In India, l'aumento della temperatura dal 1960 ha incrementato le probabilità di decessi dovuti al calore del 150%. Per un paio di giorni a giugno, le temperature nelle città in Pakistan e Iran hanno superato i 53 gradi, lungo la costa del Golfo Persico e nel Golfo di Oman, l’umidità ha fatto percepire una temperatura di oltre 60 gradi. A luglio, più di 70 persone sono morte dopo un'ondata di calore a Montreal, mentre la Valle della Morte ha registrato il mese più caldo mai visto sulla Terra. Caldo record in Africa a giugno, nella penisola coreana a luglio e in Europa ad agosto. «Siamo veramente in un territorio inesplorato», aveva detto David Carlson, ex direttore della divisione di ricerca climatica dell'Organizzazione Meteorologica Mondiale, nella primavera del 2017.
Tutto questo, prosegue McKibenn, ha effetti sul nostro vivere quotidiano. Milioni di persone saranno costrette a lasciare i paesi dove vivono, alcune persone in fuga dall'umidità e dall'innalzamento del livello del mare, altre alla ricerca di abbastanza acqua per sopravvivere. Le fughe saranno violente e frenetiche, come accaduto durante gli incendi che hanno colpito la California, o lente: “Ogni anno, 24mila persone abbandonano il delta del Mekong, in Vietnam, perché i campi coltivati sono inquinati dal sale, alle Hawaii, secondo un nuovo studio, 61 chilometri di strade costiere saranno impraticabili nei prossimi decenni, a Giacarta, dove vivono 10 milioni di persone, il mar di Giava ha invaso le strade. E, mentre il mare mangia le coste dell'Alaska, non c'è nulla che protegga le città, le città e i villaggi nativi dalle onde”. Il perimetro della Terra sarà sempre lo stesso, ma la superficie abitabile si sta riducendo sotto i nostri piedi e nella nostra mente. E a pagare il prezzo più alto saranno le persone più vulnerabili.
Climate change will mean more natural disasters, and some regions may see as many as 6 crises at the same time by 2100, scientists warned https://t.co/99IkxF6IqP
— The New York Times (@nytimes) November 19, 2018
Stiamo vivendo in un film dell’orrore?, si chiede John Schwartz sul New York Times. Secondo uno studio, pubblicato il 19 novembre su Nature Climate Change, il riscaldamento globale sta esponendo l'umanità a rischi enormi. L’aumento concatenato di così tanti fenomeni meteorologici estremi potrebbe costringere alcune aree del pianeta ad affrontare almeno 6 crisi legate al cambiamento climatico entro la fine di questo secolo. I 23 autori della ricerca, che si sono impegnati in uno sforzo multidisciplinare senza precedenti, esaminando oltre 3mila articoli sui diversi effetti del cambiamento climatico, hanno determinato 467 modi in cui tali cambiamenti influiscono sulla salute fisica e mentale, sulla sicurezza alimentare, sulla disponibilità di acqua, sulle infrastrutture e su altri aspetti della vita sulla Terra.
Il documento include una mappa interattiva dei vari pericoli a seconda dei livelli di emissioni di anidride carbonica da qui al 2095.
La siccità in Florida, gli incendi in California, la forza dell’uragano Michael, spiega uno degli autori della ricerca, Camilo Mora, sono un esempio di quanto potrebbe accadere sempre più di frequente in futuro. Il documento suggerisce che, entro il 2100, a meno che l'umanità non intraprenda azioni energiche per frenare le emissioni di gas serra, alcune aree costiere tropicali del pianeta, come la costa atlantica del Sud e Centro America, potrebbero essere colpite da ben sei crisi alla volta. Le emissioni di gas serra, riscaldando l'atmosfera, possono portare alla siccità in luoghi che sono di solito asciutti, creando le "condizioni di maturazione per incendi e ondate di calore", spiegano i ricercatori. Nelle aree più umide, un'atmosfera più calda rafforza gli acquazzoni, mentre l'innalzamento dei livelli del mare favorisce il generarsi di tempeste e le acque oceaniche più calde possono contribuire a eventi atmosferici più intensi e distruttivi.
Secondo un’altra ricerca pubblicata recentemente su Nature, il riscaldamento globale può aver incrementato l’intensità dei cicloni che si sono verificati negli ultimi anni negli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico. Gli uragani, o cicloni come sono conosciuti nella regione del Pacifico, traggono la loro forza dal calore negli strati superiori dell'oceano, mentre le loro precipitazioni sono influenzate dalla quantità di umidità nell'atmosfera. I cambiamenti climatici, guidati dall'attività umana, stanno creando condizioni più favorevoli per uragani più forti.
I due autori della ricerca, Christina Patricola e Michael Wehner, hanno elaborato delle simulazioni climatiche su 15 grandi cicloni tropicali. In base ai dati, l’aumento delle temperature ha reso le precipitazioni più violente tra il 5 e il 10%, sebbene la velocità del vento sia rimasta sostanzialmente invariata. «Il cambiamento climatico ha esacerbato le piogge. In futuro potrebbe avere effetti anche sulla velocità dei venti», ha spiegato Patricola. «La mia speranza è che queste informazioni possano essere utilizzate per migliorare la nostra capacità di risposta e reazione a questo tipo di eventi meteorologici estremi».
Nel caso in cui le temperature salgano prima del previsto, questa situazione è destinata a peggiorare. Se non si fa nulla per limitare le emissioni di gas serra e le temperature salgono di 3 o 4 gradi centigradi, gli uragani potrebbero aumentare di un terzo, mentre la velocità del vento salirebbe di ben 25 nodi, spiegano i ricercatori.
Se si fossero verificati con una temperatura globale più alta, l'uragano Katrina, che ha provocato quasi 2mila morti a New Orleans nel 2005, sarebbe stato ancora più devastante, con circa il 25% di pioggia in più, il ciclone Yasi, che ha colpito l'Australia nel 2011, avrebbe avuto circa un terzo di pioggia in più, mentre il ciclone Gafilo, un'enorme tempesta che ha ucciso più di 300 persone in Madagascar nel 2004, sarebbe stato del 40% più intenso.
Sopravviveremo ai cambiamenti climatici?
With climate change, a message of inevitable doom creates a self-fulfilling prophecy: “The worst will happen, because we give up.” https://t.co/fmtYr8Qq82
— NYT Climate (@nytclimate) November 21, 2018
Tuttavia, spiega al New York Times Kate Marvel, ricercatrice associata presso il NASA Goddard Institute for Space Studies, «vale la pena sottolineare che non esiste alcun supporto scientifico che possa far parlare di catastrofe imminente». «Le cose andranno male. E sì, dobbiamo fare di più, molto di più, per evitare ciò che potrebbe accadere. Ma quanto sarà orribile quel che accadrà, e per quante persone, dipende da ciò che facciamo».
«Ci sono alcuni dettagli che mi danno speranza», dice sempre al giornale americano Katharine Hayhoe, scienziata del clima presso alla Texas Tech University. «Molti giovani stanno diventando leader nei vari settori legati al clima, anche in politica, e lo sviluppo di nuove tecnologie consente già di estrarre il biossido di carbonio dall'atmosfera. È costoso, ma il fatto che possiamo farcela è piuttosto promettente». Il raggiungimento di un futuro migliore dipende anche da come vengono spiegati i problemi del presente, aggiunge Hayhoe: «Un messaggio di catastrofe inevitabile crea una profezia che si auto-avvera: "Il peggio accadrà, perché ci arrendiamo"». A volte, prosegue la ricercatrice, potrebbe sembrare che ci siano poche persone a occuparsi del cambiamento climatico, ma in realtà sono milioni. E, commenta su Twitter il climatologo Andrew Dessler, la domanda da porsi non è se sopravviveremo al cambiamento climatico – perché sopravviveremo – ma: che tipo di futuro vogliamo avere? In quali condizioni vorremo vivere?
Cosa fare, allora? Una strada potrebbe essere quella di motivare le persone ad agire e a fare pressione sui governi per intervenire con celerità. “Tutto va velocemente, ma sono lente le risposte”, osserva ancora Bill McKibenn sul New Yorker. Già quarant'anni fa, scrive Nathaniel Rich in un bellissimo reportage sul New York Times, avremmo potuto evitare la situazione attuale. Tra la fine degli anni ‘70 e tutti gli anni ‘80, c’è stata l’occasione per poter invertire la rotta e prevenire l’innalzamento delle temperature. Ma gli interessi delle industrie dei combustibili fossili e della politica hanno prevalso sulle scoperte scientifiche, depotenziandole e delegittimandole agli occhi dell’opinione pubblica, grazie anche a un dibattito spesso disinformato che ha visto protagonisti giornalisti e politici stessi. La tendenza a privilegiare i guadagni a breve termine ha avuto un ruolo fondamentale nelle risposte tardive al riscaldamento globale e il contributo dell'industria dei combustibili fossili è stato di gran lunga il più dannoso, come “Un ritardo predatorio”, come l’ha definito lo scrittore ambientalista Alex Steffen: “Bloccare o rallentare i cambiamenti necessari per guadagnare denaro da sistemi insostenibili e ingiusti nell’immediato".
Che fare?
La prima strada è stata suggerita dalla lettera dei 16 capi di Stato. Far convergere i contributi nazionali in una cornice globale. Era la strada auspicata dall’accordo di Parigi e mai attuata.
Secondo il rapporto 2018 di Climate Transparency dal titolo “Brown to Green: la transizione del G20 verso un'economia a basse emissioni di carbonio”, l'82% dell'approvvigionamento energetico del G20 proviene ancora da combustibili fossili e nessuno dei paesi che ha sottoscritto gli impegni sul clima ha avviato un percorso compatibile con il mantenimento dell’innalzamento della temperatura sotto gli 1,5 gradi centigradi. Se i paesi del G20 non dimezzano le loro emissioni entro il 2030, il riscaldamento globale salirà intorno ai 3,2 gradi.
«Le economie del G20 hanno effettivamente bisogno di ridurre le loro emissioni della metà entro il 2030 per mantenere il riscaldamento al di sotto degli 1,5 gradi», ha spiegato Jan Burck di Germanwatch, coautore della ricerca. «Ma invece di rispondere all'urgenza dei cambiamenti climatici, i paesi del G20 continuano a riversare denaro in sussidi. Arabia Saudita, Italia, Australia e Brasile sono i paesi con i sussidi più altri rispetto al PIL».
Study finds that policies of China, Russia and Canada threaten catastrophic 5C climate change. Canada's tar sands are to blame for our place on this list 😠https://t.co/6JBCJAK7MD #ActOnClimate #StopTarSands pic.twitter.com/iDpXTxmBW0
— Greenpeace Canada (@GreenpeaceCA) 16 novembre 2018
Secondo uno studio pubblicato su Nature Communications, che ha esaminato le politiche sul clima di diversi paesi, se continuassero come stanno facendo attualmente, Cina, Russia e Canada porterebbero il pianeta a una temperatura globale al di sopra dei 5 gradi centigradi entro il 2100. Gli Stati Uniti e l'Australia sono solo leggermente indietro con una temperatura globale oltre i 4 gradi, l’Unione europea viaggia su una media di 3 gradi, l’Italia registra un valore di 3,2 gradi, come si può vedere sul sito della ricerca. Proprio nei giorni scorsi, un nuovo rapporto del National Climate Assessment (una relazione pubblicata ogni 4 anni dal 1990 dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici) ha sconfessato le posizioni e le politiche sul clima del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che lo scorso anno ha sfilato gli USA dall'accordo di Parigi.
«È interessante vedere quanto siano lontani alcuni paesi, anche quelli che sono considerati leader nella narrazione sulla mitigazione del clima», spiega l'autore della ricerca, Yann Robiou du Pont dell'Università di Melbourne.
Lo studio valuta la relazione tra le politiche messe in atto di ogni nazione per ridurre le emissioni e l'aumento di temperatura che si otterrebbe se il mondo seguisse il loro esempio. I paesi meno sviluppati sono in genere più ambiziosi, in parte perché hanno meno fabbriche, centrali elettriche e automobili, il che significa che hanno meno emissioni da frenare.
«Il risultato positivo di questa ricerca è che abbiamo finalmente un metro univoco che consente di comparare e valutare le politiche nazionali. La società civile, gli esperti e i politici possono utilizzare questo studio per fare pressione sui governi e anche intraprendere contenziosi sul clima come accaduto di recente nei Paesi Bassi ", prosegue Rabiot du Pont.
Clean energy adoption isn’t happening fast enough to avoid dangerous global warming, @IEA says. While clean energy capacity is increasing, it’s not enough to keep up with growing energy demand. via @NYTimeshttps://t.co/0J9DEyk0RY
— Inside Climate News (@insideclimate) November 18, 2018
Nel merito, le politiche nazionali dovrebbero velocizzare la transizione verso le energie rinnovabili. Una tendenza già in atto ma non abbastanza rapida da risolvere la questione del riscaldamento globale, spiega il rapporto annuale dell'Agenzia Internazionale dell'Energia, che prevede le tendenze energetiche globali fino al 2040.
Nei prossimi due decenni, prosegue lo studio, il sistema energetico mondiale subirà un'enorme trasformazione, l'energia eolica e solare sono pronte a diventare fonti dominanti di energia elettrica, il ricorso della Cina al carbone è destinato a calare, ma senza un intervento deciso dei governi e l’adozione di nuove e potenti misure politiche per ridurre le emissioni di anidride carbonica, l’aumento del ricorso all’energia pulita non potrà evitare l’incremento del riscaldamento globale.
A major push to conserve and restore natural lands could offset as much as 21 percent of greenhouse gas emissions in the U.S., a study found https://t.co/xShRAgp3wG
— NYT Science (@NYTScience) November 16, 2018
Da questo punto di vista, è interessante cosa sta accadendo negli Stati Uniti, racconta Brad Plumer sul New york Times. In particolare, la California sta investendo centinaia di milioni di dollari in programmi per ripristinare zone umide e foreste degradate e per ridurre il rischio di incendi violenti attraverso una migliore cura delle foreste. In particolare lo Stato americano ha stretto una partnership con altri 15 Stati, tra cui New York e le Hawaii, per esplorare come una migliore gestione del territorio possa aiutare a contrastare i cambiamenti climatici. «Direi che stiamo ancora imparando», ha detto Claire Jahns, la segretaria per le questioni climatiche presso l'agenzia delle risorse naturali della California. «Ma c'è un crescente riconoscimento del fatto che non raggiungeremo i nostri obiettivi statali sul clima statali senza prestare attenzione alle nostre terre e all'ambiente fisico».
Uno studio pubblicato su Sciences Advances lo scorso 14 novembre, mostra alcune politiche economicamente sostenibili che possono aiutare a ridurre le emissioni di anidride carbonica, come le colture di copertura al posto di campi scoperti in modo tale da attirare più carbonio dall’aria nel suolo attraverso incentivi finanziari per manodopera e attrezzature, una prassi sempre più comune negli USA, e il rimboschimento di terreni inutilizzati. Gli autori della ricerca hanno calcolato che il rimboschimento costerebbe tra i 10 e i 50 dollari per tonnellata di anidride carbonica emessa in meno, molto meno dei sussidi per l’energia pulita in linea con il costo per tonnellata di diverse proposte di tassa sul carbonio. Più costosa, invece, la riduzione dello sprawl urbano, cioè la crescita disordinata e irregolare delle città che porta alla formazione di aree urbane a bassa densità, disperse e frammentate, con il conseguente aumento del consumo di suolo e la diminuzione di aree coltivabili. Al confine con la città vera e propria si creano zone di margine, che non sono ancora città, ma che non sono più vera campagna.
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Come mostra l’esempio della California, il ruolo dei governi è fondamentale. Secondo il rapporto dell’Agenzia Internazionale dell'Energia, il mondo investe 2mila miliardi di dollari l'anno in infrastrutture energetiche e il 70% è diretto da aziende o enti di controllo statale: «Questo mi dice che il nostro destino energetico dipenderà dalle decisioni dei governi nei prossimi due decenni», conclude Faith Birol, direttore generale dell’Agenzia Internazionale dell'Energia.
Immagine in anteprima via Climate Change Explained