Il razzismo nel calcio non riguarda solo l’Italia. La differenza però sta nella risposta
11 min letturaSette giornate, quattro casi di razzismo, sette giocatori coinvolti: sono queste le grandi statistiche della Serie A 2021/2022, che valgono più dei gol segnati e del record di vittorie inseguito dal Napoli capolista. Per chi sta tenendo il conto, dall’inizio del campionato di calcio sono stati vittime di discriminazioni razziste i milanisti Tiemoué Bakayoko e Franck Kessie contro la Lazio, e Mike Maignan contro la Juventus; i napoletani Victor Osimhen, André Zambo Anguissa e Kalidou Koulibaly contro la Fiorentina; il viola Dušan Vlahović contro l’Atalanta.
Ormai è un problema vecchio, per chi segue il calcio in Italia (e possiede un minimo di decenza umana) la cosa non fa quasi più notizia. Per capire la dimensione del fenomeno bisogna, come al solito, osservarlo da fuori: nelle ultime settimane in vari paesi europei si è scritto del problema del razzismo negli stadi italiani. Di nuovo. Già nel 2009 Piara Powar, direttore di FARE Network (Football Against Racism in Europe) aveva chiesto alla FIFA di verificare “se e come in Italia venga contrastato e combattuto il fenomeno del razzismo nel calcio, dentro e fuori dagli stadi”.
Chi di questi temi parla da tempo è Lilian Thuram, che ha giocato per il Parma e la Juventus ed è stato uno dei migliori difensori della sua epoca. Ne parla almeno dal 2005, quando si schierò contro il presidente Sarkozy, che nei suoi discorsi diceva di voler ripulire le banlieue parigine dalla “feccia”; ne parla ancora oggi, quando al Festival dello Sport di Trento chiede ai calciatori bianchi di prendere a loro volta posizione. Thuram però è francese, e le sue parole nel calcio italiano hanno generato una sola reazione, quella dell’ex-difensore della Nazionale Marco Materazzi, che sullo stesso palco ha replicato: “Non ho mai visto Thuram uscire dal campo quando a me davano del figlio di puttana. È solo educazione”.
E invece maleducazione e razzismo sono proprio due cose diverse. Ma cosa aspettarsi da un ambiente dove è più facile prendere posizioni a destra che a sinistra? Dove si va dall’ex-campione del mondo Luca Toni che prende parte ai comizi di Salvini, all’ex-bandiera del Chievo (e oggi presidente della Clivense, la società nata dopo il fallimento del club veronese) Sergio Pellissier che inneggia tranquillamente a Mussolini su Radio 1. I calciatori italiani parlano molto raramente di politica rispetto ai colleghi inglesi, tedeschi, spagnoli e francesi: da noi prevale l’apoliticità, che però come ben si sa troppo spesso nasconde il sostegno all'estrema destra.
In campo, le contromisure vengono anche prese: ancora adesso, la FIGC commina multe alle società i cui tifosi si macchiano di abusi razziali, e quei responsabili che vengono identificati (è successo al tifoso juventino che ha insultato Maignan, anche se il suo resta un caso più unico che raro, nel nostro paese) vengono sanzionati col Daspo. Eppure siamo ancora qui. Prima della pandemia, quando il problema sembrava aver raggiunto il suo zenit, si discuteva di interrompere le partite su decisione dell’arbitro o su abbandono di una squadra: è quello che aveva proposto l’allora allenatore del Napoli Carlo Ancelotti. Subito, però, intervenne il capo della Polizia Franco Gabrielli, per spiegare che “la decisione finale se sospendere una gara spetta sempre a chi gestisce l'ordine pubblico”. Vale a dire che gli arbitri non sospendono perché la decisione spetta alla polizia, la polizia non interviene perché non è in campo, e se una squadra se ne va per protesta e senza autorizzazione rischia la sconfitta a tavolino per 3-0. Infatti, l’eventualità non si è ancora mai realizzata.
Lentamente, però, i club stanno iniziando a prendere espressamente posizione contro i razzisti (che è cosa ben diversa che prenderla “contro il razzismo”, in generale): ha iniziato la Roma, e più di recente è arrivato il Milan, che in questa stagione ha già visto diversi suoi giocatori vittime di abusi, e uno di loro – Maignan, arrivato in Italia questa estate dalla Francia – ha anche pubblicato una lettera sull’accaduto, che è circolata molto sui media. Sarà un caso, ma Roma e Milan sono entrambe di proprietà straniera.
Un problema italiano
Bisogna sfatare un mito: il razzismo nel calcio (e al di fuori di esso) non riguarda solo l’Italia. Da qualche anno si verificano casi frequenti in Inghilterra e Scozia, e meno di frequente anche in Francia, Spagna e Germania. Ognuno di questi paesi ha visto emergere, nell’ultimo decennio, partiti e personaggi appartenenti alla galassia della destra xenofoba, proprio come avvenuto qui da noi con la Lega e Fratelli d’Italia.
La differenza sta nella risposta. In Inghilterra, giocatori, club e a volte anche altri tifosi reagiscono ai razzisti, che vengono spesso identificati e sanzionati, in primo luogo proprio dalle società di calcio, che ricorrono senza mezzi termini all’esilio a vita dal proprio stadio. In Spagna, dove pure esiste un grave problema di debolezza delle istituzioni davanti a questo fenomeno (il presidente della Liga Javier Tebas è un noto sostenitore del partito di estrema destra Vox ed ex-militante neofascista, e finora l’unica partita sospesa a causa dei tifosi in tutti i campionati spagnoli è stata causata dai tifosi del Rayo Vallecano, che nel dicembre 2019 hanno chiamato “nazista” l’ucraino Roman Zozulja, sostenitore delle milizie neonaziste del Donbass), lo scorso aprile il Valencia ha abbandonato una partita dopo che un suo giocatore è stato insultato da un avversario.
Niente di tutto questo avviene in Italia. Però, a fine 2019, la Lega Serie A ha lanciato un’ambiziosa campagna contro il razzismo, per cercare di migliorare la propria immagine anche a livello internazionale. Sicuramente ne avrete sentito parlare: le immagini della campagna utilizzavano delle scimmie dai tratti antropomorfi. In tutta Europa si è scritto della Serie A che combatte il razzismo equiparando i giocatori a delle scimmie; vari club hanno subito annunciato che non avrebbero aderito all’iniziativa.
È un caso che evidenzia in maniera chiarissima che chi dirige il nostro calcio non ha la minima sensibilità sul tema del razzismo. Facciamo un altro esempio: ricorderete tutti la polemica di questa estate, durante gli Europei, sulla Nazionale che non si inginocchiava a supporto della causa di Black Lives Matter. Gli Azzurri hanno cercato di spiegare la loro comunicazione attraverso una serie di dichiarazioni ambigue che non hanno fatto che peggiorare le cose, fino a che il giornalista Simone Fontana non ha scoperto che chi dirigeva la comunicazione della Nazionale, Paolo Corbi, qualche anno fa pubblicava su Facebook messaggi contro gli albanesi, i rom, e gli immigrati in generale.
Se ancora non vi basta, c’è un altro episodio, di cui oggi ci si ricorda poco sebbene non sia molto lontano nel tempo: quello di Claudio Gavillucci. Gavillucci è un arbitro: è attivo dal 2004, dal 2008 dirige i professionisti e nel 2014 è giunto in Serie A: Il 13 maggio 2018 ha arbitrato Sampdoria-Napoli, e a un certo punto ha interrotto temporaneamente il match per degli insulti razzisti verso Koulibaly. Due settimane dopo è stato dimesso dalla Commissione arbitrale della Serie A, è entrato in una causa legale che, nel 2019, ha sancito la fine della sua carriera di direttore di gara nella massima serie. Il primo (e ad oggi unico) arbitro ad aver sospeso un match in Italia per razzismo. Adesso vive a Liverpool ed è iscritto come arbitro della Federcalcio inglese.
Un po’ di storia
Ma come siamo arrivati a questo punto? Conoscere la storia forse non aiuta a evitare errori in futuro, ma forse consente di contestualizzarli. È anche un po’ un’operazione impossibile, questa: la storia del razzismo negli stadi, in realtà, è la storia del razzismo fuori dagli stadi (il che spiega anche perché ogni tentativo di combattere il primo senza affrontare il secondo non possa essere altro che un voler mettere un tappo a una falla in un barca che affonda), che è veramente troppo lunga e complessa per un articolo come questo.
Ma consideriamo alcuni dati: il primo calciatore nero in azzurro è considerato Fabio Liverani nel 2001 (alcune fonti citano anche Miguel Montuori, nel 1956, che però era un mulatto sudamericano, di padre italiano e madre afro-argentina). La Spagna ha fatto esordire il suo primo nero nel 1994, il Belgio nel 1987, la Norvegia nel 1998, la Polonia nel 2000, la Danimarca nel 1994, l’Ungheria nel 1999, la Svezia nel 1990, l’Inghilterra nel 1979, la Germania, nel 1974, l’Austria nel 1965, la Francia nel 1931, la Scozia nel 1881! Un breve ma variegato elenco di nazioni “bianche” europee, che ci aiuta anche a evitare la solita replica sul fatto che l’Italia non ha avuto una lunga storia coloniale: nemmeno Norvegia, Polonia e Ungheria l’hanno avuta.
Serve continuare? Il primo nero in Serie A è stato Roberto La Paz nel 1947, ma aveva la scusa di essere uruguayano, e di portarsi dietro un retaggio culturale che lo “legittimava” agli occhi dei tifosi. Se escludiamo i sudamericani, e guardiamo agli africani e agli afroeuropei, scopriamo che il primo nero del nostro campionato è stato François Zahoui, arrivato all’Ascoli nel 1981 dalla Costa d’Avorio.
Tutto ciò dovrebbe far capire che il primo problema del calcio italiano, su questo fronte, è anche la scarsa dimestichezza con i giocatori di colore: ci confrontiamo con essi, e magari tifiamo per loro, solo da 40 anni. La loro presenza in Serie A è andata crescendo soprattutto a partire dagli anni Novanta, quelli che hanno visto anche l’aumento dell’immigrazione e l’affermazione dei partiti xenofobi (la Lega Nord nasce ufficialmente nel 1991). Ma chiaramente la faccenda non si esaurisce qui: ci sono motivazioni culturali e storiche molto più complesse dietro alla scarsa sensibilità italiana verso il razzismo e, più in generale, la xenofobia.
Il periodo del Fascismo, che ha visto l’esplosione del calcio italiano con due titoli mondiali conquistati negli anni Trenta, è più ambiguo di quanto non si direbbe, sotto questo punto di vista. Fino al 1926, il campionato italiano era un torneo estremamente cosmopolita, con giocatori provenienti da varie parti d’Europa, specialmente da Svizzera, Austria e Ungheria. L’introduzione della Carta di Viareggio nazionalizzò il calcio, bandendo gli stranieri, ma la regola verrà presto aggirata ricorrendo agli oriundi, cioè all’ingaggio di campioni sudamericani di origine italiana, che saranno poi decisivi nella vittoria dei Mondiali del decennio successivo. Al tempo stesso, la colonizzazione dell’Istria e della Dalmazia fece sì che venissero ritenuti italiani molti giocatori balcanici (Marcelo Mihalich giocherà addirittura in Nazionale), e la conquista dell’Albania nel 1939 permetterà a Riza Lushta di trascinare la Juventus a vincere la Coppa Italia del 1942, e nello stesso anno a Naim Krieziu di diventare campione nazionale con la Roma.
Paradossalmente, i veri effetti della cultura razzista del Fascismo si vedranno nel dopoguerra, in epoca democratica. Dopo la clamorosa esclusione dai Mondiali del 1958, la stampa elesse gli oriundi a capro espiatorio della sconfitta, e i sudamericani vennero banditi dalla Nazionale; otto anni più tardi, un’Italia “etnicamente omogenea” venne umiliata ai Mondiali dalla modesta Corea del Nord, e la reazione fu di chiudere le frontiere della Serie A agli stranieri, ri-nazionalizzando il campionato, ma in una maniera ancor più radicale di quella fascista. Il sogno salviniano della chiusura delle frontiere era stato realizzato nel calcio oltre 50 anni fa, e rimase in vigore fino agli anni Ottanta.
Non deve stupire più di tanto, allora, che persista tutt’oggi un’attitudine intrinsecamente xenofoba nel mondo del pallone nostrano. Che va di pari passo con un’incapacità sistemica della politica di affrontare l’eredità del Fascismo; tant’è vero che, nel 1989, quando l’Udinese decise di acquistare l’israeliano Ronny Rosenthal i tifosi gli fecero trovare scritte antisemite sul muro della sede del club. Sette anni dopo, l’Hellas Verona provò ad acquistare l’afro-olandese Maickel Ferrier, e per tutta risposta in curva comparvero due tizi coi cappucci del Ku Klux Klan, intenti a far penzolare un manichino nero in maglia scaligera, impiccato a una balaustra. Per questi due episodi, nessun colpevole fu mai identificato, ed entrambi i trasferimenti vennero annullati.
Al punto di partenza
Nell’ottobre 2019 mi ritrovavo a scrivere più o meno le stesse cose su Vice. Da allora c’è stata una pandemia, il calcio si è fermato e poi è ripreso, per lo più a porte chiuse e solo di recente ha iniziato ad accogliere i primi tifosi. Che tra i primi a tornare negli stadi ci siano stati i razzisti, mai così in primo piano quanto oggi, dovrebbe suscitare qualche riflessione.
Di soluzioni al problema se ne sentono tante: Daspo, multe, squalifiche, porte chiuse, telecamere negli stadi, sospendere le partite, e via così. In realtà, la sensazione è che al calcio italiano manchi la capacità di comprendere il problema. A parole si è tutti antirazzisti, ma quando poi l’accusa è rivolta a dei tifosi o dei giocatori della propria squadra, improvvisamente emergono scuse di ogni tipo: ha provocato prima lui, non ci sono prove, nessuno ha sentito niente, è un complotto contro di noi, fino ovviamente alla replica più bella di tutte, quella che ribalta l’accusa contro l’accusatore, reo di discriminare un’intera tifoseria per non aver specificato che “solo una minoranza è colpevole”.
“L’Italia ha un problema molto grosso – diceva il già citato Piara Powar un paio d’anni fa – arriverei a dire che è epidemico”. Da un anno e mezzo abbiamo tutti imparato bene il senso della parola epidemia: si diffonde ovunque, rapidamente, per contagio. Sfogliando il libro nero del razzismo nel calcio italiano troviamo giustificazioni e minimizzazioni da parte di ogni possibile soggetto, dai tifosi alle figure istituzionali (“È sbagliato se qualcuno fa buu a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore”, Giovanni Malagò, presidente del CONI, settembre 2019), dai presidenti dei club (i casi di Giulini e Setti, linkati poco sopra) agli stessi giocatori (“C’è stato il buu razzista dopo l’esultanza di Kean, ma credo che la colpa sia 50 e 50: ha sbagliato Kean e ha sbagliato la curva”, Leonardo Bonucci, difensore della Juventus, aprile 2019).
E in ultimo, bisogna dirlo, la colpa è anche del giornalismo, sempre troppo ambiguo sulla questione. Il 6 ottobre 2021, il portiere della Nazionale Gianluigi Donnarumma è stato subissato di fischi durante una partita per via del suo controverso addio al Milan della scorsa estate. Subito dopo Enrico Mentana ha scritto su Facebook: “I fischi a Donnarumma e gli insulti a Koulibaly sono due facce della stessa feroce ignoranza”. Lo stesso concetto è stato ribadito il giorno seguente sulle pagine del Corriere dello Sport in un editoriale firmato da Alessandro Barbano. Mentana e Barbano la pensano come Materazzi: il razzismo come maleducazione, come se degli insulti con un preciso contesto storico e antropologico possano essere equiparati a un insulto generico. Donnarumma è stato fischiato per aver deciso (sottolineiamo la parola: deciso) di lasciare il Milan in maniera controversa; Koulibaly si prende i buu per essere nato con la pelle nera. È davvero un concetto così complesso?
È certamente questione di ignoranza, questo sì; ma è proprio dai professionisti dell’informazione che ci si dovrebbe attendere una maggiore consapevolezza su questi temi. La Gazzetta dello Sport che il 6 ottobre pubblicava un pezzo di Alessandro Vocatelli che invoca una necessaria rivoluzione culturale contro il razzismo negli stadi, è lo stesso giornale che lo scorso 15 giugno ne pubblicava un altro di Sebastiano Vernazza in cui, dopo la classica premessa del “siamo contro il razzismo”, si accusava il gesto dell’inginocchiarsi di essere diventato “politico e divisivo” e che si rischiava “l’effetto rigetto”.
Il discorso, come si sarà capito, a questo punto trascende decisamente l’ambito calcistico: l’1,8% degli stranieri residenti in Italia è di origine africana, ma questo dato non trova una proporzionale conferma nel mondo dei media, delle istituzioni o dei luoghi di potere. La Serie A oggi abbonda di giocatori originari dell’Africa, ma nessun afrodiscendente trova spazio ai vertici federali o in una posizione di rilievo all’interno dell’informazione sportiva. E spesso neppure in Nazionale: in una fase storica in cui le selezioni europee sono sempre più multiculturali (anche l’Ungheria di Viktor Orbán ha un nero in Nazionale, Loïc Nego), in molti hanno notato come l’Italia agli ultimi Europei fosse la squadra più "etnicamente" omogenea, i cui unici stranieri erano tre oriundi sudamericani (Rafael Tolói, Emerson Palmieri e Jorginho). Quando in quello spogliatoio, mesi fa, i giocatori si sono trovati a discutere se inginocchiarsi o meno contro il razzismo, interrogandosi anche sul significato di quel gesto, mancava proprio l’opinione di chi il razzismo lo ha subito per tutta la sua vita. L’Italia, nel calcio e non solo, assomiglia sempre più a una grande bolla, dove hanno voce sempre le stesse persone, ripetendo sempre le stesse opinioni.
Foto in anteprima pubblicata con l'autorizzazione dell'agenzia Ansa