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A caccia del virus che scatenerà la prossima pandemia

29 Dicembre 2020 8 min lettura

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A caccia del virus che scatenerà la prossima pandemia

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A Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), ha sede l'Istituto Nazionale di Ricerca Biomedica (INRB), finanziato da Giappone, Stati Uniti, Unione Europea e Organizzazione mondiale della sanità (OMS), oltre che da fondazioni e istituzioni accademiche.

Nel 1976, nelle stanze del vecchio complesso tutt'oggi operativo, il professore Jean-Jacques Muyembe Tamfum, che dirige l'INRB, identificò, insieme ad altri colleghi, il virus Ebola.

Da febbraio scorso nuovi edifici dell'INRB ospitano laboratori di biosicurezza di livello 3 e attrezzature all'avanguardia, supportati dai Centri statunitensi per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CDC) e dall'OMS.

L'impegno economico di tanti paesi a sostegno dell'INRB non è beneficenza, ma un investimento strategico e lungimirante.

I laboratori INRB, infatti, hanno una funzione di allarme preventivo internazionale poiché studiano e segnalano nuovi focolai di malattie conosciute, come l'Ebola ma, soprattutto, di virus ancora da scoprire.

«Se un agente patogeno emerge in Africa, ci vorrà del tempo prima che si diffonda in tutto il mondo», ha dichiarato a CNN il professore Muyembe Tamfum. «Per cui se un virus viene rilevato precocemente ci sarà l'opportunità per l'Europa [e il resto del mondo] di sviluppare strategie per combattere i nuovi agenti patogeni».

Perché non si tratta di stabilire “se” nuovi virus si diffonderanno in tutto il mondo, ma “quando”.

«Viviamo in un mondo in cui emergeranno nuovi agenti patogeni», ha proseguito Muyembe Tamfum. «E questo rappresenta una minaccia per l'umanità».

Nell'istituto congolese medici, virologi e ricercatori sono perciò impegnati quotidianamente alla ricerca di virus sia noti che sconosciuti per prevenire il rischio di nuove pandemie.

Proprio in quei laboratori sono stati analizzati i campioni prelevati da una donna recentemente ricoverata nella cittadina di Ingende che mostrava i primi sintomi di febbre emorragica. Esclusa la possibilità che si trattasse di Ebola, il timore era che la paziente fosse stata colpita da un nuovo virus mortale. Nonostante sia successivamente guarita, non si sa quale malattia la donna abbia avuto poiché i test effettuati sono risultati tutti negativi.

Da quando nel 1901 è stata scoperta la febbre gialla, prima infezione trasmessa da animale a uomo, sono 200 i virus individuati che hanno causato malattie agli esseri umani.

Secondo una ricerca condotta da Mark Woolhouse, professore di epidemiologia delle malattie infettive presso l'Università di Edimburgo, ogni anno vengono scoperte in media dalle tre alle quattro nuove specie di virus, la maggior parte delle quali proveniente da animali.

Gli esperti sostengono che la tendenza in crescita di nuovi agenti patogeni sia da attribuire alla distruzione ecologica e al commercio di fauna selvatica.

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Man mano che gli habitat naturali scompaiono, ratti, pipistrelli e insetti, che riescono a sopravvivere a differenza di animali di dimensioni più grandi, imparano a convivere con gli esseri umani. E spesso sono i principali sospettati di nuove malattie trasmissibili all'uomo.

Gli scienziati hanno collegato le epidemie di Ebola diffuse in passato a pesanti devastazioni operate dall'uomo nella foresta pluviale. In uno studio condotto nel 2017 alcuni ricercatori hanno rilevato, attraverso dati satellitari, che 25 dei 27 focolai di Ebola localizzati lungo i confini della foresta pluviale nell'Africa centrale e occidentale tra il 2001 e il 2014 sono scoppiati in luoghi che avevano subito, due anni prima, la deforestazione. Gli studiosi hanno aggiunto, inoltre, che i focolai sono comparsi in aree in cui la densità di popolazione umana era elevata e dove il virus aveva condizioni favorevoli per svilupparsi, sebbene abbiano specificato che la deforestazione non sia dipesa unicamente da questi fattori.

Per immaginare la portata della devastazione basti pensare che nella foresta del Congo dal 2000 al 2014 è stata abbattuta un'area di dimensioni più grandi del Bangladesh.

Le Nazioni Unite hanno avvertito che se l'attuale deforestazione e il trend di crescita della popolazione continueranno, la foresta pluviale africana potrebbe scomparire completamente entro la fine del secolo. E se ciò dovesse accadere, animali e virus, di cui sono vettori, impatteranno sull'uomo in maniera disastrosa.

Masisi (RDC) Area deforestata Julien Harneis CC BY-SA 2.0

Simon Pierre Ndimbo e Guy Midingi sono ecologisti e cacciatori di virus nella provincia nord-occidentale dell'Equatore, nella RDC. In una recente spedizione la coppia ha catturato 84 pipistrelli. La priorità dei due studiosi era cercare tracce di virus Ebola negli animali. L'ultimo focolaio della malattia sviluppatosi nell'area è stato fatto risalire alla trasmissione da uomo a uomo ma anche a un nuovo ceppo che si presume provenga da un serbatoio forestale sconosciuto.

Al laboratorio di Mbandaka i pipistrelli sono stati tamponati e sottoposti al prelievo di campioni di sangue testati per l'Ebola prima di essere inviati all'INRB per ulteriori analisi. Al termine degli esami i pipistrelli sono stati liberati.

Negli ultimi anni, grazie a processi come questo, sono state individuate dozzine di nuovi coronavirus nei pipistrelli. Nessuno però sa quanto possano essere pericolosi per gli esseri umani.

Resta un mistero anche come l'Ebola abbia colpito la prima volta l'uomo, ma gli scienziati ritengono che le malattie zoonotiche, tra cui anche la COVID-19, compiano il salto di specie quando gli animali selvatici sono massacrati.

La cosiddetta "carne selvatica" non solo è la tradizionale fonte di proteine delle persone che vivono nelle foreste pluviali, ma viene esportata in tutto il mondo. L'ONU stima che ogni anno, dal bacino del fiume Congo, vengano prelevate fino a cinque milioni di tonnellate di carne selvatica.

Secondo quanto dichiarato da un commerciante congolese le scimmie colobo, che in alcune parti della RDC sono state sterminate fino all'estinzione, hanno una richiesta tale che potrebbero essere esportate a decine in Europa. «Devo essere onesto, so che è vietato spedire scimmie», spiega. «Per poterlo fare dobbiamo tagliare testa e braccia e impacchettarle insieme all'altra carne».

Adams Cassinga, CEO di Conserv Congo – un'associazione che si occupa di salvaguardare la natura – e investigatore di crimini a danno della fauna selvatica, ha affermato che le indagini hanno dimostrato che “dalla sola Kinshasa sono partite dalle cinque alle quindici tonnellate di carne selvatica. Alcune destinate alle Americhe, ma la maggior parte dirette in Europa. Principalmente a Bruxelles, Parigi e Londra”.

Tra gli animali commercializzati ci sono scimmie, pitoni, sitatunga, un'antilope che vive nelle paludi di cui vengono venduti prosciutti. È improbabile che la carne di questi animali trasporti virus pericolosi che verrebbero comunque uccisi nel processo di cottura, sebbene gli scienziati abbiano avvertito che la carne di primati cotta non sia completamente sicura.

Ma la minaccia maggiore è rappresentata dagli animali vivi venduti nel cosiddetto mercato "umido" dove si trovano giovani coccodrilli, barili di lumache di terra giganti, tartarughe. Al mercato nero si possono acquistare anche scimpanzé e altri animali esotici, alcuni per collezioni private, altri destinati alla tavola.

«Nelle aree urbane la carne di animali selvatici, a differenza di quanto si creda, non è per i poveri, ma per i ricchi e i privilegiati come i funzionari di alto rango che credono che consumandola, avranno maggiore forza», ha raccontato Cassinga. «Ci sono anche persone che la mangiano perché è uno status symbol. Negli ultimi 10-20 anni abbiamo rilevato che è richiesta anche da chi è espatriato, principalmente nel sud-est asiatico, e da chi vuole mangiare un determinato tipo di carne come tartarughe, serpenti, primati.»

La "malattia X" – dove con “X” si intende un agente patogeno attualmente sconosciuto che determinerà una grave epidemia internazionale – potrebbe trovarsi in uno qualsiasi di questi animali, trasportati nelle metropoli per diventare pasti esotici o animali “domestici”.

Gli scienziati ritengono che la causa dello sviluppo delle malattie zoonotiche sia da ricercare nei mercati umidi, come accaduto per il virus dell'influenza H5N1, noto come aviaria, per la SARS, e come si ritiene sia successo per la COVID-19, sebbene non ci siano conferme.

La commercializzazione della carne selvatica è una potenziale via di infezione, oltre che un sintomo della devastazione della foresta pluviale tropicale del Congo, la seconda più grande del mondo dopo l'Amazzonia.

La maggior parte della distruzione è causata dagli agricoltori locali per trarne vantaggio economico: l'84% della deforestazione mira a creare spazi per l'agricoltura su piccola scala.

«Se non rispettiamo le foreste, cambieremo l'ecosistema. Insetti e ratti le abbandoneranno spostandosi nei villaggi. È così che si trasmettono i virus, i nuovi agenti patogeni», ha detto il professor Muyembe.

Un gruppo di scienziati che lavora negli Stati Uniti, in Cina, Kenya e Brasile, ha calcolato che un investimento globale di 30 miliardi di dollari all'anno in progetti finalizzati alla tutela delle foreste pluviali, al blocco del commercio della fauna selvatica e dell'agricoltura sarebbe sufficiente a compensare il costo per la prevenzione di future pandemie.

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In un articolo pubblicato sulla rivista specializzata Science, il gruppo ha affermato che una spesa di 9,6 miliardi di dollari all'anno in programmi di protezione forestale globale potrebbe portare a una riduzione del 40% della deforestazione nelle aree a più alto rischio di spillover virale (salto di specie per cui un patogeno degli animali evolve e può infettare, riprodursi e trasmettersi all'interno della specie umana).

Il progetto includerebbe anche incentivi economici destinati alle persone che vivono e si guadagnano da vivere nelle foreste oltre al divieto di disboscamento diffuso e di commercio di specie selvatiche. Un programma simile in Brasile ha portato, tra il 2005 e il 2012, a un calo del 70% della deforestazione.

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Nonostante 30 miliardi di dollari all'anno siano una somma ingente, l'investimento si ripagherebbe rapidamente. Secondo gli economisti di Harvard David Cutler e Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti, la pandemia di coronavirus costerà soltanto agli Stati Uniti circa 16mila miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha stimato che a livello globale, a causa della pandemia, la perdita cumulativa della produzione rispetto alle proiezioni pre-pandemia passerà dagli 11mila miliardi nel 2020 e nel 2021 ai 28mila miliardi entro la fine del 2025.

La soluzione è chiara. Proteggere le foreste per salvaguardare l'umanità da nuove, devastanti malattie.

Foto 🎄Merry Christmas 🎄 via Pixabay

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