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“Bullshit jobs” in università: un’autodenuncia

10 Giugno 2022 8 min lettura

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“Bullshit jobs” in università: un’autodenuncia

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di Federico Zuolo - professore associato in filosofia politica dell'Università di Genova

Tutti abbiamo la fondata percezione di un continuo e inesorabile aumento degli adempimenti burocratici a ogni livello. Anche se la questione non è nuova – si pensi alla vecchia tesi weberiana sul destino burocratico della modernità capitalistica come forma di organizzazione efficiente del mondo – la rivoluzione digitale non ha certo diminuito il numero di incombenze amministrative delle nostre vite private e lavorative. Al contrario, le ha aumentate. 

Secondo David Graeber questa tendenza dipende anche dalla proliferazione dei bullshit jobs1 (Graeber, Bullshit jobs, Garzanti 2018). È un bullshit job ogni tipo di mansione in cui il lavoratore stesso non percepisce il senso reale di ciò che svolge. Gli esempi abbondano e popolano le vite di tutti noi. Ma secondo Graeber si concentrano in particolare nel middle management della cultura corporate internazionale. Contrariamente alla vulgata del senso comune, secondo Graeber, l’inutilità amministrativa non si annida solo nel pubblico. Anche il privato, a dispetto del mito dell’efficienza che non giustificherebbe lavori improduttivi, ha creato negli ultimi decenni vari bullshit jobs.

Graeber produce una divertente e convincente tipologia di bullshit jobs: i tirapiedi (flunky), gli sgherri (goons), i ricucitori (duct taper), i barracaselle (box ticker), e i supervisori (task master). Lavori da tirapiedi sono quelle mansioni che servono a far sentire qualcuno più importante avendo qualcun altro di subordinato (assistenti, segretarie, portieri); gli sgherri sono gli eredi delle guardie armate, ovvero quelle attività che servono per mostrarsi aggressivi dato che altri hanno a loro volta degli sgherri (e Graber include in questa categoria soprattutto lobbisti, esperti di relazioni pubbliche, avvocati d’impresa); i ricucitori fanno quelle mansioni che servono a rattoppare errori strutturali nell’organizzazione, quando l’organizzazione, per qualche motivo, non vuole risolvere l’errore strutturale conosciuto da tutti; i barracaselle sono, invece, quelle mansioni, per lo più burocratiche, che consistono nel compilare moduli, aggiornarli, inviarli per far sapere a un responsabile o a una commissione sovraordinata che si sta svolgendo ciò che si suppone si debba fare; i supervisori (task master), infine, indicano quei ruoli nella gerarchia che, letteralmente, creano compiti non necessari ai sottoposti in modo da giustificare la loro posizione. 

Nel leggerla mi sono più volte chiesto se parte delle mie mansioni ricadano sotto questi tipi e se quindi parte del mio lavoro sia un bullshit job. In quanto coordinatore di un corso di studi, seguendo le categorie di Graeber una parte del mio lavoro sarebbe quella del ricucitore e del barracaselle. Per non sfidare il senso del ridicolo nelle inutili lamentele della mia condizione, non mi annovererei nella categoria dei tirapiedi, e mancando di poteri di minaccia o da manager neanche in quella degli sgherri o dei supervisori. Ma di certo mi è richiesto di ricucire e tappare buchi organizzativi tra amministrazione, docenti e studenti. E più onerosamente mi è richiesto di svolgere tutta una serie di operazioni di registrazione, rendicontazione, autovalutazione, controllo delle operazioni altrui, scrittura di verbali, commento a indicatori di performance, comunicazione con gli uffici, e tanto altro che sicuramente sono delle attività da barracaselle. Solo a titolo esemplificativo, è doveroso far sapere che contrariamente alla vulgata giornalistica in cui in università spadroneggiano baroni liberi da ogni controllo, le attività di un corso di studi sono costantemente monitorate dall’ateneo e dal ministero. Il controllo richiede un continuo commento a vari indicatori di soddisfazione e performance (didattica, gestionale e di ricerca) che nella forma si ispirano ai principi del management di processo. Ciò vuol dire produrre a cadenze regolari decine di pagine in cui si commenta la performance del corso di studi, in cui ci si impegna a migliorare, in cui si trasformano i problemi in opportunità, in cui si spiega perché il proprio corso di studi ha perso il 3% di iscritti (dove in molti casi, il 3% consiste in poche persone che probabilmente hanno deciso di cambiare vita per motivi personali). Tutto questo va chiaramente a discapito di didattica, ricerca e rapporti con gli studenti in senso sostanziale, poiché si deve registrare nei documenti ciò che dovrebbe succedere nella vita reale. Non c’è bisogno di sottolineare che se si devono registrare tutte le cose che si devono fare c’è meno tempo per farle davvero. Il risultato è che, per sopravvivere, si deve imparare a dire ciò che si fa in maniera che sembri appropriato per i documenti che si devono produrre. 

La motivazione sottostante a questo diluvio di richieste burocratiche può anche essere comprensibile. L’idea è che l’università deve essere incentivata a scovare i problemi e a risolverli, e per farlo deve sapere quali sono. Ma tenere traccia di tutto questo richiederebbe personale dedicato (cioè amministrativi specializzati a farlo). Il che ovviamente sarebbe un costo significativo. Invece, molto ricade su (alcuni) docenti che svolgono anche ruoli gestionali. Di conseguenza, importare un sistema gestionale che potrebbe avere un senso in grandi aziende (secondo Graeber no, ma ammettiamo che lo possa avere per qualche motivo) rende il funzionamento ordinario dell’università inefficiente, dispendioso e incastrato in una miriade di adempimenti formali. Nata (forse) come un’esigenza di gestione efficiente, questa struttura porta a maggiori costi e a dispendio di tempo e risorse di personale (i docenti e ricercatori) che dovrebbero fare altro. 

La burocratizzazione non si ferma però soltanto all’ordinaria amministrazione ma interviene anche nella progettazione. Tra i vari aspetti perversi, va segnalato lo strumento del Rapporto ciclico di riesame. Ogni cinque anni, in aggiunta al controllo annuale, ogni corso di studi deve produrre un documento che analizza la situazione passata, presente e futura riguardo all’offerta formativa, le risorse, la gestione, l’esperienza degli studenti. I documenti così prodotti si dilungano per decine di pagine su dettagli, anche minori, commentando fatti su cui il corso di studi non ha influenza, con un’acribia di controllo che ricorda i ben più famosi piani quinquennali staliniani. Di quest’ultimi però non hanno l’elemento che rendeva più efficace i piani: l’armata rossa. Al di là della battuta, risulta veramente incomprensibile il perché si debba richiedere a ciascun corso di studi tale ossessione di programmazione e di dettaglio. È utile ricordare, per chi non lo sapesse, che i corsi di studio sono entità di grandezza variabile. Un’università di medie dimensioni ne ha qualche centinaio: da quelli con molti studenti (ad esempio a ingegneria e giurisprudenza) a quelli molto piccoli con poche decine di studenti.

L’aspetto più inquietante, cioè quello che mi fa pensare ai bullshit jobs, è che tutte queste attività, di cui vi ho rappresentato solo una piccola fetta, sono ispirate da un’ossessione pervasiva alla registrazione e comunicazione di ciò che si fa. Non vi è alcun aspetto (ricerca, didattica, comunicazione, rapporto con i colleghi e con gli uffici, orientamento agli studenti, terza missione) di cui non si debba tenere traccia. Qualcuno, il coordinatore o delegati specifici, deve raccogliere montagne di informazioni per produrre relazioni da mandare agli organi di valutazione (locali o nazionali). 

Si potrebbe sostenere che tutte queste attività esprimano chiaramente la tendenza a creare un’università neoliberale in cui il controllo e l’irregimentazione vanno a discapito della libertà di ricerca e didattica. C’è del vero in questa affermazione, ma la questione è più sfumata. Per capire il perché bisogna chiedersi che senso tutte queste cose abbiano per i soggetti e per le strutture. 

Graeber definisce un lavoro come bullshit quando lo stesso lavoratore percepisce l’insensatezza di ciò che fa. Ma, se il criterio è la percezione di insensatezza, si può obiettare che molte persone che svolgono lavori definiti bullshit non hanno questa esperienza. Anzi, per ragioni di vario tipo o forse per autogiustificarsi, conferiscono molto senso e importanza a ciò che fanno. Dovremmo quindi dire a molti middle manager che si sbagliano nel ricavare senso dal loro ruolo? Una prospettiva critica di tipo marxista2 e psicanalitico lo sosterrebbe e cercherebbe di esplorare le nuove forme di falsa coscienza e di perversione che hanno le persone che accettano un compito futile e dannoso. Quindi la sensatezza del lavoro sta solo nel vissuto della persona o è “nelle cose”? 

Qui si annida un vecchio o complesso problema di metodologia della ricerca sociale: la diatriba tra soggettivismo e oggettivismo. Su questo aspetto, Graeber dice di essere soggettivista per ragioni metodologiche (in quanto etnologo) e per ragioni valoriali (in quanto anarchico). Ma è chiaro che dovremmo poter dire che una persona svolge un bullshit job anche se non ne ha coscienza, come lo stesso Graeber di fatto fa. La questione è complessa e forse irrisolvibile. Qui, senza pretese di generalità, si può cercare una via intermedia che parte da alcune categorie che coprono molti, ma non certo tutti, i nuovi tipi di lavoro. Molti lavori che Graeber definisce bullshit jobs hanno a che fare con il controllo, la registrazione e la manipolazione. Il problema di queste attività è che sembrano motivate da esigenze necessarie e ragionevoli, ma facilmente finiscono per essere versioni perverse di questi bisogni. Infatti, il controllo ha origine dal legittimo bisogno di coordinare mansioni diverse, la registrazione può esprimere un bisogno di accountability di ciò che si fa nei confronti di coloro a cui si deve rendere conto, e la promozione è una forma di comunicazione. Ma per ragioni interne alla nostra società, queste legittime esigenze diventano una forma di controllo e manipolazione. Controllo perché la gestione ha bisogno di registrare il lavoro altrui per giustificare se stessa, e manipolazione perché la comunicazione in un contesto ipercompetitivo diventa una lotta ad accaparrarsi l’accettazione del pubblico a tutti i costi. 

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Non so se per scardinare queste tendenze si debba fare una sorta di rivoluzione, come vorrebbe Graeber. Di certo ci vorrebbero delle modifiche strutturali nella struttura sociale e lavorativa delle nostre società. Ma è necessario anche un parallelo cambiamento culturale. I bisogni di controllo, registrazione e manipolazione presuppongono che le persone non lavorino se non sono controllate, che le cose non esistano se non sono registrate e che il pubblico non accetti una cosa o non la compri se non è persuaso a farlo. Ma non è necessariamente vero che senza controllo le persone non facciano ciò che devono fare, che le cose non esistano senza che ve ne sia una traccia su un supporto documentale e che sia necessaria la manipolazione. Sono invece le tendenze di controllo, registrazione e manipolazione che creano nei fatti ciò che danno per presupposto. Ovviamente, per scardinare questi presupposti non si può agire solo sulla coscienza delle persone, come se le dinamiche sociali di lungo corso possano essere attuate soltanto da una presa di coscienza. Ma averne consapevolezza può renderci più attenti e per lo meno fare da argine alla pervasività di queste dinamiche. 

1È noto che il termine ha avuto una certa fortuna nel dibattito filosofico e culturale degli ultimi anni. Si pensi al testo di Harry Frankfurt (On Bullshit, Princeton 2005). La traduzione più tipica di bullshit è “stronzata”, ovvero un’affermazione che, più che essere falsa, non ha senso e inquina la comunicazione. Applicato al lavoro il termine non andrebbe tradotto con “lavoro di merda” poiché secondo Graeber i lavori di merda, in senso proprio, sono quelli sottopagati e oggettivamente onerosi. Si dovrebbe piuttosto tradurre con “lavori del cazzo”, oppure lavori “fuffa”, o “senza senso” come fa l’edizione italiana del testo. Ma così si perde un po’ della carica polemica dell’originale. 

2 Qui si potrebbe pensare al classico, anche se datato, lavoro di Adorno sulla personalità autoritaria. Adorno, T. W., Frenkel-Brunswik, E., Levinson, D. J., & Sanford, R. N., The authoritarian personality, New York, Harper and Row, 1950.

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