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Cosa racconta il nuovo colpo di Stato in Burkina Faso. E quanto conta l’influenza della Russia

5 Ottobre 2022 8 min lettura

Cosa racconta il nuovo colpo di Stato in Burkina Faso. E quanto conta l’influenza della Russia

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Quello del 30 settembre scorso in Burkina Faso è il golpe numero 215 in tutta l’Africa dal 1950 ad oggi (107 riusciti, 108 falliti). E così il continente avanza ancora in quella classifica (elaborata da due studiosi statunitensi) che lo vede in testa e che conta 487 colpi di Stato in tutto il mondo. Se il Sudan svetta con i suoi 17 tentativi, sei dei quali portati a termine, il Burkina dopo quelli del 1966, 1974 e ben 4 negli anni Ottanta, ha ricominciato a fremere nel 2014 e da allora paura, instabilità, violenza e un peggioramento delle condizioni economiche generali della popolazione hanno caratterizzato questo paese. 

Proprio nel 2014, il Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana affermava che i cambiamenti incostituzionali di governo spesso derivano da "lacune nella governance" unita, tra le altre cose, ad avidità (dei leader ovviamente), cattiva distribuzione delle opportunità, abuso dei diritti umani, rifiuto di accettare la sconfitta elettorale, manipolazione o revisione della Costituzione fatte per servire interessi ristretti e l’immancabile corruzione. Non è nemmeno un caso che la maggior parte dei rovesciamenti avvenga in paesi poveri o a basso reddito dove per la popolazione civile spesso un presidente (autoproclamato) al posto di un altro fa poca differenza. In Burkina, negli ultimi anni, c’è un altro fattore che ha fortemente compromesso la stabilità del paese: l’insorgenza e la costante diffusione dei gruppi terroristici legati ad al-Qaeda. Questo sul fonte interno, ma c’è un altro importante elemento che va tenuto in considerazione nell’analisi di quest’ultimo golpe. Si tratta della generale perdita di influenza (e di simpatia da parte della popolazione) della Francia in tutta la regione del Sahel – Burkina compreso, che ne lambisce i confini – “sostituita” con l’avvicinamento alla Russia. 

Ma prima di andare avanti raccontiamo i fatti. Il 30 settembre il 34enne capitano dell’esercito burkinabè, Ibrahim Traoré, guida un gruppo di militari decisi a rimuovere il tenente colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba (entrambi del Mouvement patriotique pour la sauvegarde et la restauration, MPSR) che solo otto mesi prima, il 23 gennaio 2022, aveva preso il potere (sempre con un golpe) destituendo il neo eletto presidente Roch Marc Christian Kaboré. Ovviamente, le azioni successive furono sospendere la Costituzione e dissolvere l’Assemblea nazionale. Traoré pare abbia preso alla lettera quanto riferiscono alcune fonti che citano una frase di Damiba pronunciata nel maggio scorso durante un incontro a Bobo Dioulasso alla presenza dei militari: “Se siete davvero forti fate voi un colpo di Stato e gestite il paese come volete”. 

Se voleva essere una provocazione in realtà è stato preso alla lettera. A Damiba i golpisti rimproverano di non aver fatto abbastanza per liberare il paese dalla morsa del jihadismo e quanto ne consegue. Ha molto senso il fatto che gli sia stata data la possibilità di “dimettersi” (ora si trova a Lomé, capitale del Togo) con l’obiettivo di evitare inutili spargimenti di sangue. 

La verità è che Damiba, pur considerato vicino alla Francia, non avrebbe potuto sperare, né probabilmente voluto, quell’appoggio che invece – certo altra storia e soprattutto altro momento storico – il governo francese assicurò al presidente ivoriano Alassane Ouattara per affrontare i sostenitori di Laurent Gbagbo che era stato fino a quel momento al potere. Era il 2010 e gli oltre 4 mesi di guerra civile provocarono 3.000 morti. Alle spalle di Ouattara c’era la Francia e sul campo l’esercito francese. Anzi furono loro ad arrestare l’ex presidente e a portarlo davanti alla Corte Penale Internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità. Fu assolto dopo 11 anni. Insomma il tempo di renderlo inoffensivo. 

Tutto questo per spiegare quanto sia mutata (e ridimensionata) la posizione della Francia nelle sue ex colonie. Nelle prime ore di questo ennesimo putsch c’è stato chi ha voluto avvicinare la figura di Traoré a Thomas Sankara, leader carismatico, sincero e visionario il cui obiettivo e azioni politiche miravano all’autonomia politica ed economica del paese dall’ex potere coloniale, la Francia, e da ogni ingerenza esterna occidentale. Sankara, come sappiamo, venne ucciso nel corso di un golpe militare guidato dal suo braccio destro e, fino a quel momento assoluto sostenitore, Blaise Compaoré. Da quel momento, 1987, Compaoré fu presidente della nazione a cui lo stesso Sankara aveva cambiato il nome, da Alto Volta – nome coloniale – a Burkina Faso, paese degli uomini onesti. E questo con il sostegno e il benestare degli amici francesi. 

Solo nel 2014 la popolazione insorse riuscendo a cacciarlo via e solo nell’aprile di quest’anno lui e altri militari di spicco sono stati condannati all’ergastolo. Un processo storico che per la prima volta giudica e condanna un ex dittatore africano. Ma una condanna in contumacia visto che dal 2014 l’ormai vecchio Compaoré vive in Costa d’Avorio ospitato e protetto dall’amico e presidente Ouattara, storico alleato della Francia, che gli ha anche concesso la cittadinanza ivoriana. Quello ai danni di Sankara fu un vero e proprio complotto internazionale ordito dalla Francia, ma anche dagli Stati Uniti e da paesi africani che anziché appoggiare la visione e le battaglie anti imperialiste del giovane presidente burkinabé preferivano tenersi buone le potenze occidentali: la Costa d’Avorio, il Togo, la Liberia e persino la Libia di Gheddafi. 

Dunque, c’è una somiglianza tra Sankara e Traoré? In realtà si fermano all’età - anche Sankara ne aveva 34 quando è salito al potere – al berretto rosso, alla carica di capitano. Oggi il paese è profondamente diverso da quello che Sankara aveva preso tra le mani – anch’egli con un colpo di Stato (definito rivoluzione) nel 1983 contro il regime di Jean-Baptiste Ouédraogo. È un paese sull’orlo del caos, stretto tra crisi economica e sociale e battuto dai venti sempre più violenti dell’avanzata jihadista. 

Queste sono le evidenze, poi ci sono le domande che emergono da una situazione assai complessa: in quale misura questo stato di cose è manovrato dall’esterno? E quanto il sempre più evidente risentimento verso la Francia sta lasciando spazio di manovra ad altre influenze (stavolta non occidentali)? Le prime foto dei manifestanti che inneggiavano al nuovo “capitano” mostravano anche altro, giovani che sventolavano la bandiera russa. Immagini che si sovrapponevano ad altre altrettanto eloquenti: l’assalto all’ambasciata francese a Ouagadougou, la capitale burkinabé. Che il Sahel e la Russia si stiano avvicinando sempre di più è ormai chiaro a partire dalla presenza sempre più estesa del gruppo Wagner, combattenti mercenari legati al Cremlino. Ritenuti capaci più di ogni altro di portare ordine e sicurezza. Per fare un esempio: nella Repubblica Centrafricana fu lo stesso presidente Touadéra a chiedere l’aiuto di Putin per la “pacificazione” del paese in cambio di licenze minerarie. Quindi c’è ancora un’altra domanda: Damiba è stato rovesciato perché – questa la versione ufficiale – non in grado di arginare il fenomeno jihadista o perché ancora vicino alla Francia e meno alla Russia di Putin? 

Mentre queste rimangono congetture i numeri dell’evidente crisi che sta vivendo questo paese lasciano meno dubbi. Su 21 milioni di abitanti ci sono quasi 2 milioni di sfollati, oltre 25.000 rifugiati, un quinto della popolazione ha bisogno di aiuti immediati ed oltre 3.000 persone dall’inizio dell’anno sono rimaste vittime della violenza. Il numero dei morti, civili e militari, dovuti agli attacchi delle milizie islamiche dal 2014 ad oggi sono sempre andate aumentando nell’area del Sahel, soprattutto in Mali, Niger e Burkina Faso, appunto. Ed è proprio dal 2014-2015 che è emerso il fenomeno jihadista in Burkina, nel nord del paese soprattutto. Quello più vicino alle aree del Sahel – e alle spinte dei movimenti ribelli a cominciare da quelli del Mali - e anche quello dove si avverte più distanza dal governo centrale, meno attenzione allo sviluppo economico, sociale, delle infrastrutture e rivendicazioni etniche di gruppi che negli anni si sono sentiti sempre più marginalizzati. Motivazioni che avrebbero potuto e dovuto essere analizzate molto prima che si tramutassero in rivolta. 

Qui il gruppo militante più attivo, affiliato ad al-Qaeda, è Jama'at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM) che durante la prima metà dell'anno è stato responsabile di più di 400 attacchi in 10 delle 13 regioni del paese. Il gruppo è stato coinvolto in circa il 70% degli eventi segnalati nel paese durante questo periodo e le sue azioni contro i civili sono cinque volte più numerose di quelle dell'IS in tutto il Sahel, anche se questi ultimi hanno ucciso quasi il doppio delle persone. Scontri armati con le forze statali, rapimenti e attacchi ai civili e alle loro proprietà hanno dunque segnato la vita di migliaia di bukinabé negli ultimi anni. 

Neanche le forze governative hanno rappresentato una sicurezza per i cittadini. Come denunciato in più occasioni da Human Rights Watch, le stesse forze militari e milizie governative denominate Volontaires pour la défense de la patrie (VDP) si sono macchiate di uccisioni extragiudiziali, sparizioni e violenze su civili e su sospetti combattenti islamisti. E di queste azioni non sarebbero immuni gli uomini di Damiba ieri e di Traoré oggi… Secondo ACLED, progetto di aggregazione di dati, analisi e mappature delle aree di crisi, la crisi nel Sahel si è notevolmente aggravata nella prima metà di quest’anno “Le tendenze attuali indicano che l'instabilità nel Sahel centrale è persistente, in espansione e in aumento”. 

Il 2022, insomma, è sulla buona strada per essere ricordato come l'anno che ha provocato più vittime sia in Burkina Faso che in Mali dall'inizio della crisi più di un decennio fa. L'intensità del conflitto, misurata dal numero di eventi di violenza politica nella prima metà del 2022, vede proprio il Burkina Faso in cima alla lista. Solo nel Niger si registra un lieve miglioramento dopo aver vissuto l’anno record delle violenze e vittime nel 2021. 

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Cosa potrebbe accadere, allora, se il sostegno della Russia al nuovo comandante in capo – finora non confermato da nessuno – si trasformasse nell’invio di uomini della Wagner? Di sicuro la Francia sta continuando a perdere mordente in tutta l’area del Sahel. E il conseguente ritiro delle truppe dell’operazione Barkhane dal Mali e dal Niger ne è una conseguenza evidente. Un’operazione avviata nel 2014 con lo scopo di combattere il terrorismo nell’area supportando le forze locali, ma che si conclude con più vittime, instabilità e ramificazioni dei gruppi terroristici di quanto fosse allora. 

Per tornare al Burkina in un’intervista a caldo rilasciata a RFI, Traoré sembra rassicurare circa l’impegno preso da Damiba con l’ECOWAS (Comunità economica degli Stati occidentali) circa le elezioni da tenere nel luglio del 2024 e alla domanda sui rapporti con Russia e Francia risponde che entrambi sono partner ma che sicuramente quelli con l’ex paese colonialista dovranno cambiare. Forse questa  è l’unica risposta certa data da Traoré al giornalista francese. Il resto è, da oggi, un grosso, enorme punto interrogativo. 

Immagine in anteprima via Democracy Now

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