Il finto buonsenso che normalizza il razzismo
9 min letturaQuesta estate su Valigia Blu parlavamo, a proposito della retorica del “non possiamo accogliere tutti”, di un atteggiamento che si presenta come di buonsenso, ma che in realtà fa da sponda all’agenda politica dell’estrema destra, normalizzandola sotto la rassicurante e artificiosa cappa di un pretestuoso moderatismo. Sono passati mesi, l’estate ha lasciato il passo all'autunno e poi all’inverno, siamo nel 2020 ma la tendenza è rimasta immutata.
Stavolta è il turno di Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo Il razzismo e i suoi confini prova a spiegare la “terza posizione” tra “razzismo e accoglienza”. Partendo da una citazione dell’antropologo Lévi-Strauss sul razzismo come “ostilità attiva” (presente in un suo testo minore – ampiamente discusso e criticato nella letteratura scientifica – pubblicato nel 1988, quando lo studioso francese era già ultra-ottantenne e si era arroccato su posizioni reazionarie, come nota Piero Vereni, antropologo dell'Università di Tor Vergata di Roma), secondo il quale “che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita”, Galli della Loggia trapianta quelle considerazioni nell’Italia odierna, per dirci che:
Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono.
Verrebbe da chiedere quale sarebbe “il modo di fare dei nigeriani”, o che cosa c’entrino antipatia o simpatia con le teorie cospirazioniste su invasioni o sostituzione etnica, che soffiano proprio sulla paura di diventare “minoritari” fino a scomparire, attraverso un’immigrazione pianificata e sostenuta a tale scopo, e dove lo straniero, più che suscitare diffidenza, è nemico. Verrebbe da chiedere perché Galli della Loggia non ha pensato agli americani, ai russi, insomma, ad altri popoli con la pelle bianca. Verrebbe da chiedere qual è il vantaggio nell’essere empatici verso stereotipi e pregiudizi a senso unico, dall’alto verso il basso, dandogli una cornice culturale. Verrebbe da modificare il testo, per vedere come suona mettendo all’inizio “Dunque non volere avere troppo a che fare con gli ebrei, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa omosessuali, non ha niente a che fare con l’antisemitismo o l’omofobia”; accorgendosi così che con gruppi verso cui l’odio e l’antipatia sono un po’ più tabù il ragionamento perde la patina di buonsenso, e la paternale diventa più esplicitamente minacciosa nel suo portato culturale.
Ma sono dubbi che tutto sommato siamo in grado di sciogliere da soli: Galli Della Loggia segue uno schema in cui deve mediare tra posizioni date per estreme, ma in astratto e non troppo, stando a distanza di sicurezza dalle loro implicazioni (“dico per dire”). Per cui gruppi sociali che a un rapido colpo d’occhio possono essere pescati dall’attualità o dalla cronaca politica e additati al più come buoni selvaggi, sono funzionali al suo discorso, non al contesto di partenza da cui il discorso dovrebbe procedere - con i rom buttati nel calderone dei popoli stranieri. A tal proposito, sarebbe stato anche il caso di approfondire cosa significa quel “pur rispettando”, una volta calato in un paese, il nostro, dove per esempio l’antiziganismo è un fenomeno allarmante e la ruspa a mo’ di pogrom istituzionale ha smesso da tempo di essere una semplice metafora.
Lévi-Strauss è solo il condimento autorevole e funzionale per l’impasto: per l'antropologo francese (e Galli Della Loggia, ndr) la cultura è pensata come se corrispondesse a una cosa reale, dotata addirittura di stati d’animo e di sentimenti, ma – commenta sempre Piero Vereni sul suo blog – "le culture non sono internamente omogenee, come non sono nettamente distinte le une dalle altre, né esistono come corpi compatti, armonici e omogenei. La ricerca empirica ci dice che ogni individuo 'contiene' tratti di diverse culture e che ogni cultura è necessariamente composta da diverse tradizioni".
Quel che scrive Galli Della Loggia sarebbe tutto sommato catalogabile sotto l’etichetta “ok, boomer”, se non fosse sintomatico di una tendenza di alcuni media mainstream. Sempre sul Corriere, a fine dicembre Antonio Polito ha pensato di dare le pagelle ai due governi Conte. La prima voce riguarda la “sicurezza”, dove Polito scrive:
È forse l’unico caso di competizione virtuosa tra governo gialloverde e giallorosso. Gli arrivi di migranti sono infatti crollati: metà rispetto all’anno scorso, addirittura il 90% in meno rispetto al 2017. L’immigrazione non è più un’emergenza. Ed è impossibile negare che la svolta l’abbia data Salvini al Viminale. La sua politica dei porti chiusi ha diviso il Paese, alimentato un’opposizione anche personale e astiosa nei suoi confronti, e si è inimicata persino la Chiesa (non tutta, però). Fatto sta che ha funzionato sul piano dei numeri e ha costretto l’Europa, almeno di tanto in tanto, a non voltarsi dall’altra parte. Il Conte II ha naturalmente riaperto un po’ i porti, ma solo un po’, e non come prima, per non regalare al capo dell’opposizione l’arma fine di mondo di una ripresa dell’immigrazione selvaggia. In più, è stato generoso nei confronti delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco nell’ultima finanziaria.
Il giudizio è stato ampiamente contestato. Come fatto notare più volte da esperti del settore come Matteo Villa dell’Ispi, la tendenza a un calo dell’immigrazione inizia nel 2017, e quindi i governi Conte si sono trovati in scia. Ma, ben più importante, sono gli impliciti della pagella che meritano di essere visti con attenzione. È interessante che la prima voce presa in esame, e quindi quella cui è attribuita più importanza, sia quella della “sicurezza”. Ciò comunica già l’idea che sia una priorità oggettiva del paese, e non qualcosa che si attesta come tale per questioni di agenda politica (e quindi per il contributo di testate come il Corriere stesso, che fanno da sponda ai frame securitari, da Minniti a Salvini passando per Meloni). Per capire l’importanza di questa scelta: manca completamente una voce dedicata al lavoro, e non perché in Italia non sia un ambito con i suoi problemi – pensiamo solo alla crisi dell’Ilva. Inoltre il concetto di “sicurezza” è ricondotto solo ed esclusivamente all’immigrazione, data da Polito come “emergenza” – non si sa bene in base a cosa o perché. Senza contare la bufala sui “porti chiusi”, che non sono mai stati tali, e possono esserlo solo se per inerzia si accettano gli slogan del fu Ministro dell’interno. Valutare l'immigrazione solo come un fatto di sicurezza è una scelta politica, delimita il campo di cosa ha senso associare al concetto stesso di sicurezza, e quali fattori allontanano quella parola dalle nostre vite.
Chi ha deciso che il concetto di sicurezza sia legato all’immigrazione, e non per esempio ai crimini, al loro eventuale aumento o diminuzione? Chi ha deciso che il reddito o l'accesso alle cure mediche non siano un fattore che rende le vite più "sicure"? Perché non c’è spazio per un tema come il contrasto alle mafie? O perché, se proprio si vuole parlare di sicurezza relativa all’immigrazione, Polito non tocca il contrasto al traffico di esseri umani, ma si concentra solo sul numero di sbarchi, prendendo – male – i numeri come indicatori assoluti? Questo discorso è accettabile solo se il terreno è reso fertile da un certo tipo di propaganda e di lavoro culturale a monte, solo se abbiamo già nella testa una cornice di senso per cui “immigrazione = potenziale pericolo criminale”. Qualunque ragionamento sui dati arriva dopo.
Restando in tema di stampa mainstream e di immigrazione come potenziale pericolo criminale, un filone che meriterebbe una cospicua trattazione a parte è quella per i bangladesi, in particolare per i negozi che gestiscono in città come Roma. Qui non è più l’ossessione di una posizione centrista a dominare il discorso, ma l’idea di “decoro” e contrasto al “degrado”, in cui etnie o gruppi sociali sono trattati come soggetti politici, e si arriva persino ad additarli come spazzatura che invade uno spazio altrui. Questa cornice pre-esiste come schema interpretativo a prescindere dai fenomeni specifici, tanto che facendo una carrellata di articoli sembra di sedersi al banco di un franchising dell’indignazione nazionalista. Repubblica, ad esempio, ha pubblicato diversi articoli con questo tenore, usando più spesso il termine “bangla” rispetto al più consono “bengalese” (riferito alla regione di provenienza) o “bangladese” (riferito allo stato del Bangladesh). Ultimo in ordine di tempo è Banglamarket assedio no stop, dove si legge:
Da parte del I Municipio, del Comune non ci sono interventi avvertibili contro la trasformazione ormai incessante di negozi di qualità, particolari, spesso storici in squallidi mercatini " bangla" non si sa bene da chi sostenuti e incoraggiati. Visto che il loro numero è ormai molto elevato e gli stessi turisti non si fidano della qualità degli alimenti (per non parlare dei residui residenti dei rioni storici). Tranne forse che i frettolosi turisti che vanno e vengono per alcune strade, ormai stravolte, che portano a San Pietro.
Non è dato sapere con quanti turisti abbia parlato l’autore, Vittorio Emiliani, per sapere il rapporto che hanno con questi negozi, ma proseguendo capiamo che la metodologia seguita è quella del sospetto unito all'invettiva, non del riscontro fattivo: “Qualcuno è sempre deserto o con un paio di avventori. Come sopravvivono? Poi ci sono negozi che dovrebbero chiudere i bilanci vendendo perline e oggetti (banali) di vetro. Come chiudono i bilanci?”. Del resto le aggettivazioni e le connotazioni ci introducono in una cornice di città invasa dal degrado e dallo squallore dei “bangla-bangla” - “squallidi mercatini”, “negoziacci”, “selva delle insegne abusive”, - associata in chiusura all’immondizia: “Cosa aspettate? Che Roma storica scompaia sotto la mondezza e sotto la marea del Cattivo Gusto?”.
La prospettiva non è mai quella di un eventuale riscontro delle irregolarità, o la denuncia di condizioni di sfruttamento o caporalato (com’è per esempio in questa inchiesta dell’Espresso del maggio 2018). La prospettiva è quella di un osservatore esterno al fenomeno che li giudica, a monte e senza rendersene conto, con diffidenza (per l’appunto) o persino disprezzo. Circa un mese prima, ad esempio, nell’articolo di Luca Monaco su Repubblica si parlava del “business dei ‘bangla’” titolo che fa pensare a una sottovariante del “business dell’immigrazione”, e non a una comunità e al suo tessuto economico. Sfugge dalle conclusioni quale sarebbe il criterio di notiziabilità, se, come si legge in chiusura, gli investigatori attestano che sul piano delle irregolarità fiscali la situazione “è perfettamente in linea con la media degli altri esercizi in città.” ("Quando si dice 'integrazione'" conclude il giornalista, mettendo tra virgolette quest'ultima parola).
Andando indietro negli anni, nel 2016 troviamo un titolo come Roma, "Licenze facili e soldi prestati": i 'banglamarket' all’assalto dei negozi storici in centro dove troviamo due elementi tipici della propaganda di estrema destra: l’idea che gli italiani - in questo caso la città e le attività economiche - siano invasi, un certo grado di sospetto lungo l’asso che lega la condizione di straniero all’essere illeciti. Il focus non è sull’eventuale sfruttamento, come potrebbe suggerire, leggendo l’articolo, la testimonianza di Deepak, titolare di un minimarket:
"Funziona così - racconta Deepak - arriviamo in Italia e per un po' facciamo gli ambulanti in strada. Poi i connazionali dei primi flussi migratori venuti qui da anni e che sono diventati ricchi con le attività degli Internet Point (metà anni '90) ti prestano i soldi, ti aiutano ad avviare un'attività in cui fai da prestanome, e fai una vita da schiavo.”
Sono – per amor di brevità – pochi casi presi in esame dei purtroppo innumerevoli, il cui numero sale vertiginosamente se solo si prova a buttare il naso sul versante televisivo. Ma sono casi emblematici di un rapporto simbiotico tra giornalismo e propaganda: quest’ultima non è mai presa in esame come artificio che va attraversato, smontato per mostrare i pezzi con cui è costruito, ciò che nasconde all’interno. È una premessa implicita accettata acriticamente, sostanza politica e fattuale, che fornisce un discorso sicuro di intercettare una certa domanda di indignazione. In ciò sta forse la principale e più dolosa corresponsabilità di un giornalismo che si comporta come un cane da pastore del potere: latra e scalpita per tenere unito il gregge, a prescindere da dove lo si conduce, ma tenendo sempre d’occhio chi lo conduce.
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