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Fair share: come Bruxelles potrebbe riscrivere le regole di Internet

14 Gennaio 2023 21 min lettura

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Fair share: come Bruxelles potrebbe riscrivere le regole di Internet

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Il dibattito europeo sul fair share

A Bruxelles ormai non si parla d’altro: la Commissione europea, in particolare su iniziativa del commissario francese Thierry Breton (in passato CEO di Orange), sta preparando una riforma della normativa telecom che potrebbe profondamente modificare il funzionamento di Internet. La riforma, etichettata con il suadente appellativo di “fair share”, cioè “giusta quota”, mira a regolamentare i costi d’investimento nelle reti di telecomunicazione, introducendo per legge una sorta di condivisione dei costi. Il perno del nuovo sistema consisterebbe in un meccanismo di tariffazione del traffico Internet che porterebbe i maggiori operatori Internet globali, le c.d. "Big Tech" o "GAFAM", a pagare agli operatori di telecomunicazioni (“telco”) una sorta di tassa per il passaggio dei servizi Internet sulle loro reti. Non vi è ancora niente di ufficiale sul punto ma le dichiarazioni del commissario Breton lasciano intendere che vi è un forte impegno della Commissione europea in tal senso; ed infatti nei prossimi giorni vi potrebbe essere già il primo passo con il lancio di una consultazione pubblica. Le associazioni dei consumatori e dei diritti civili, così come vari politici,  sono allarmati perché paventano rischi per i diritti degli utenti e per la net neutrality. I proponenti del fair share, in particolare Vodafone, Deutsche Telekom, Orange, Vodafone e l'italiana TIM, vanno comunque avanti perché considerano tale riforma come uno strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi europei di connettività del 2030.  Un recente post di Labriola, CEO della TIM, conferma questo impegno. 

La proposta del fair share nasce da un dibattito pervicacemente alimentato, fin dal 2012, da alcune grandi telco europee che fanno parte delle associazioni ETNO e GSMA. Secondo esse le maggiori piattaforme online americane dovrebbero pagare per il trasporto dei rispettivi servizi attraverso le reti europee di telecomunicazioni che le connettono agli utenti. “Usano le nostre reti e devono pertanto contribuire ai costi” è lo slogan dei proponenti, i quali richiamano i dati secondo cui oltre il 50% del traffico Internet globale sarebbe riconducibile a pochi operatori online, in particolare Netflix e Google. Il meccanismo normalmente proposto dalle telco è quello del “Sending Party Network Pays” (SPNP), in pratica il modello secondo cui la rete da cui si spedisce del traffico Internet (una mail, un file) deve pagare quella di destinazione, esattamente come accadeva in passato con le telefonate analogiche tradizionali. 

Secondo i proponenti del fair share il contributo da parte dei grandi OTT (acronimo per “Over the Top”) costituirebbe una giusta remunerazione per l’utilizzo delle loro reti da parte degli operatori Internet che si giovano di esse per vendere servizi agli utenti. I proventi del fair share andrebbero quindi a remunerare le telco europee, i cui margini di guadagno e profittabilità sono andati declinando nel corso degli anni, anche a causa della forte concorrenza sui prezzi. Queste risorse addizionali servirebbero alle telco europee per finanziare lo sviluppo delle nuove reti ad altissima velocità (soprattutto in fibra ottica e 5G) necessarie a sostenere il costante incremento del traffico Internet, anche in vista dei nuovi traguardi dell’ecosistema digitale (Metaverso, Quantum computing, Intelligenza Artificiale ecc).

Fin qui il discorso sembra lineare e suscita simpatia. Senonché, analizzando in modo più approfondito la teoria del fair share e, in particolare, il meccanismo proposto del SPNP, emergono incongruenze e contraddizioni (su cui infra), ma soprattutto si nota come il modello di fair share proposto poco si adatti al sistema commerciale e deregolamentato attraverso il quale il traffico Internet si sposta attraverso le reti. Non a caso la comunità tecnica Internet si è dimostrata scettica se non addirittura contraria al fair share, tanto che persino l’agenzia europea BEREC, che riunisce i regolatori nazionali delle telecomunicazioni, ha emesso un parere preliminare intrinsecamente negativo, facendo notare come, piuttosto che incrementare gli investimenti, il modello SPNP “would simply lead to large players exploiting the last-mile telecom bottleneck to increase monopoly profits”. Per motivi analoghi si sono dichiarate contrarie ACT, l’associazione europea dei broadcaster commerciali, MVNO Europe (l’associazione dei operatori mobili virtuali) e Euro-IX (l’associazione europea degli Internet Exchange). 

Vizi (molti) e virtù (poche) del fair share

Chi usa le reti di chi?

Questo è il punto di partenza per valutare la fondatezza della teoria del fair share: chi paga per il trasporto dei servizi Internet agli utenti, che sia un servizio streaming di Netflix, Mediaset e Dazn, oppure un servizio condiviso su Google Drive, oppure una ricerca su DuckDuck? La risposta è semplice: sono gli utenti. Per dirla con le parole di un autorevole esperto neutrale ed indipendente, e cioè Frode Sorensen (presidente dell’autorità norvegese di regolamentazione): “End-users request the content and pay for the transfer of the content”. 

Non sono quindi gli OTT, tra cui le grandi piattaforme online, ad “usare” le reti di telecomunicazione, sono semmai le telco che forniscono tali reti ai propri utenti per permettere loro di accedere ai servizi Internet che preferiscono. Gli utenti pagano tale servizio di trasporto alle telco attraverso l’abbonamento ad Internet. L’idea di far pagare agli OTT il c.d. “uso” della rete di telecomunicazioni è quindi un escamotage per far pagare due volte il medesimo servizio di trasporto: prima all’utente, e poi all’OTT. La richiesta si basa sul fatto che il traffico Internet è in costante crescita e quindi il doppio pagamento servirebbe a coprire i maggiori costi: ma si tratta di una tesi controversa, perché i costi marginali per l'incremento del traffico sono minimi rispetto agli investimenti in infrastrutture (in altre parole: una volta che ho costruito una rete in fibra, il maggior traffico viene normalmente assorbito e gli adeguamenti comportano costi marginali). Peraltro, dal punto di vista commerciale un doppio pagamento potrebbe essere anche pattuito tra telco ed OTT, il problema semmai è come e perché imporlo per legge, come invece vorrebbero i proponenti del fair share.

Peraltro, sono proprio i servizi Internet a dare un senso agli investimenti in fibra ottica e 5G delle telco, le quali infatti lamentano spesso che le nuove reti restino inutilizzate poichè gli utenti non si muovono dalle vecchie (quelle in rame). Invero, il miglior modo per facilitare la migrazione dalle vecchie alle nuove reti sarebbe appunto la disponibilità di servizi Internet sempre più appetibili per gli utenti, servizi che quindi non dovrebbero essere considerati come un peso o un problema per le reti di telecomunicazioni, bensì come un driver per il loro sviluppo. In altre parole, telco e piattaforme online si trovano in una situazione di complementarità reciproca, dove ognuno ha bisogno dell’altro, piuttosto che in un rapporto antagonista o di tipo fornitore-cliente. 

Chi investe di più nell’ecosistema digitale? 

I proponenti del fair share hanno prodotto numerosi studi che quantificano gli investimenti nel settore delle telecomunicazioni, arrivando persino a precisare la quota che dovrebbe essere “rimborsata” da alcuni grandi OTT (svariati miliardi di Euro all'anno). Le Big Tech non si sono fatte attendere ed hanno risposto con una serie di studi dal quale si evince che anche esse investono in modo importante nell’ecosistema Internet, non solo per quanto riguarda data center, tecnologia e contenuti, ma anche nelle stesse reti di telecomunicazioni (in particolare reti di trasporto, cavi sottomarini e satelliti). Uno studio indipendente commissionato dal regolatore tedesco BNETZ ha evidenziato come le reti di telecomunicazioni delle Big Tech si stiano espandendo sempre di più, mentre le telco tradizionali arretrano e mantengono il controllo soprattutto dei network locali, in particolare dell’ultimo miglio che resta essenziale per connettere gli utenti finali. In altre parole, nel mercato globale delle infrastrutture i rapporti di forza stanno cambiando, tanto che il fair share sembrerebbe, più che una semplice richiesta di misure compensative, una battaglia di retroguardia da parte di un’industria, quello delle telco, che teme di essere lentamente marginalizzata.

In ogni caso, quali che siano gli investimenti compiuti da ciascun operatore, appare difficile giustificare la teoria del fair share semplicemente sulla base di una lista di costi sostenuti. In effetti, tutti gli operatori investono a seconda del proprio modello di business e sarebbe fuorviante considerare solo alcuni investimenti come degni di considerazione. La teoria del fair share è infatti prevalentemente centrata sulle reti di accesso agli utenti, sottovalutando il fatto di come l’ecosistema digitale sia molto più ampio, in quanto vi rientrano inter alia anche i costi di sviluppo dei servizi (ad esempio il software e le serie TV), il trasporto internazionale (cavi sottomarini e dorsali), i data center (per il cloud e per la gestione dei dati), e che tutti questi investimenti sono interconnessi e complementari.  

Simmetria e asimmetria di internet

La proposta del fair share nasce anche dalla constatazione che il traffico Internet non è equamente distribuito, ma segue delle direttrici (per lo più dai content provider verso le telco) causando normalmente uno sbilanciamento di traffico, per cui le telco ricevono molto più traffico di quello che emettono. Questa asimmetria non è tuttavia qualche cosa di strano nel settore Internet. Le telco tendono a ricevere maggiore traffico in entrata perché i loro utenti richiedono dei servizi Internet, in alcuni casi servizi “pesanti” quali streaming e spettacoli live, e non ne producono in maniera equivalente. La simmetria era invece una situazione più naturale nel vecchio mondo telefonico, dove tutti gli operatori facevano lo stesso mestiere, il mercato forniva pochi semplici servizi (telefono, fax) ed i flussi di traffico tra operatori occupavano risorse dedicate. Ma Internet è diverso, perché la rete è costituita da soggetti differenti ma allo stesso complementari: da un lato gli OTT che producono ed inviano servizi Internet complessi ed in taluni casi "pesanti" in termini di consumo di connettività, dall'altro le telco che collegano gli utenti che li richiedono. Non a caso il servizio di accesso Internet viene normalmente venduto agli utenti con una capacità maggiore in ricezione (download) piuttosto che in emissione (upload).

Ciò ovviamente non impedisce ad una telco di chiedere compensazioni qualora il traffico in entrata sia anormale. Nei fatti però ciò accade raramente, perché le telco hanno un bisogno primario dei servizi OTT richiesti da propri utenti broadband. A che serve un abbonamento Internet se non per usufruire dei servizi Internet, in particolare di quelli più ricercati e con la migliore qualità possibile?  Non è quindi strano che la consegna del servizio da OTT alle telco avvenga gratis, perché gli operatori hanno un mutuo interesse: gli OTT a diffondere i servizi, le telco a renderli disponibili ai propri utenti con la migliore qualità possibile. I casi di pagamento riguardano normalmente i c.d. kit di interconnessione, i cui costi sono peraltro in costante discesa come evidenziato negli allegati di un recente studio di WIK. Pagamenti possono inoltre avvenire quando il traffico IP non è consegnato direttamente alla rete di destinazione, ma instradato attraverso un carrier per un servizio di trasporto o transit. Insomma, il mercato dell'interconnessione IP da sempre funziona su base commerciale, per questo l'idea di intervenire con una regolamentazione top-down, solo perché alcuni operatori ritengono di non riuscire a negoziare in modo conveniente, crea sconcerto a molti.

Un problema di concorrenza?

I rapporti commerciali tra OTT e telco sono normalmente basati sull’idea che ciascuno sia responsabile della propria infrastruttura e ne sopporti i relativi costi: gli OTT sostengono i costi di produzione dei propri servizi così come l’instradamento degli stessi attraverso propri data center, reti e CDN, il tutto fino al punto di consegna del servizio/segnale televisivo alla telco, la quale invece è responsabile dei costi della propria rete, incluso l’accesso fino al cliente. 

Il momento critico di questa vicenda è quindi la fase di interconnessione tra OTT e telco: lì le parti dovrebbero negoziare il prezzo di consegna del traffico IP (con cui funzionano i vari servizi Internet). In caso di mancanza di accordo, l'interconnessione non avviene e l'operatore "rifiutato" consegnerà normalmente il suo traffico a un vettore di transito che, combinando flussi di varia origine, probabilmente negozierà a migliori condizioni la consegna del traffico o il peering con la telco riluttante. Alcune società di telecomunicazioni (tra cui TIM, alla pag. 4 di questo documento) sostengono che non possono rifiutare l'interconnessione, e quindi sarebbero costrette a interconnettersi, anche gratuitamente, a causa delle regole di net neutrality, ma si tratta di una palese fake news: in verità gli operatori sono liberi di rifiutare l'interconnessione per motivi commerciali, a meno che siano dominanti (e quindi si applicherebbero le regole della concorrenza). NB: l'interconnessione è obbligatoria solo per la voce, non per i dati.

Nei mercati dell’interconnessione IP quindi non si prevede che una delle parti possa addebitare all’altra i costi di trasporto sulla propria rete, ma non vi è neanche una regola che lo proibisca, a dire il vero. Si potrebbe invero sostenere che questa prassi, per cui alcuni OTT dominanti non paghino l'interconnessione IP, sia frutto di un loro comportamento abusivo ma, in tal caso, vi dovrebbe anche essere una copiosa giurisprudenza in materia di concorrenza che dimostri come le principali vittime, ovvero le grandi società di telecomunicazioni che rivendicano il fair share, abbiano sollevato il caso avanti alle autorità antitrust. Al contrario, non esiste una giurisprudenza significativa al riguardo mentre, invece, sembra che siano alcune telco dominanti a mettere in atto pratiche restrittive nei confronti di soggetti minori, negando o addebitando agli operatori minori l'interconnessione (il c.d. depeering, accaduto in Italia e Germania). Gli OTT, invece, normalmente si interconnettono gratis con tutti, senza discriminare tra controparti grandi o piccole. In sintesi, il mercato dell'interconnessione IP appare competitivo, ad eccezione di alcuni potenziali abusi da parte di alcune telco e non degli OTT. Pertanto, la pretesa di regolamentazione per tutelare gli interessi di alcune grandi società di telecomunicazioni sembrerebbe quanto meno azzardata. 

C'è un problema di negoziazione?

Un'importante argomentazione avanzata dai sostenitori del fair share consiste nell'affermare che i grandi OTT non accettano di sedersi e negoziare - quindi la proposta sul fair share mirerebbe sostanzialmente a “incoraggiare” le parti a negoziare e ad accordarsi. Tuttavia, questa argomentazione non riflette la realtà del mercato dell'interconnessione IP, dove migliaia di accordi vengono stipulati ogni anno a condizioni commerciali e persino in modo verbale. Inoltre, come accennato in precedenza, non ci sono evidenze di market failures in questo mercato, perché le stesse telco non sono state in grado di rivendicare casi antitrust significativi (solo di recente Deutsche Telekom ha citato in giudizio Facebook in Germania).

La tesi della "mancata negoziazione" deve pertanto essere letta diversamente: le grandi telco ritengono che determinati costi di “terminazione Internet” (cioè il trasporto del traffico IP sulla loro rete) debbano essere aggiunti ai normali accordi di interconnessione IP. Ma poiché la prassi commerciale non riconosce tale pretesa (poiché il trasporto sulla rete d'accesso è già stato pagato tramite l'abbonamento dell'utente), le telco stanno cercando di ottenere una base normativa ad hoc. Nel caso non si trovi un accordo, ci dovrebbe essere un meccanismo di risoluzione delle controversie. Ma quale dovrebbe essere il prezzo da applicare da parte delle autorità di regolamentazione o dei tribunali? Questo è un dilemma, perché in assenza di una prassi commerciale che riconosca un valore alla terminazione Internet legato agli investimenti delle telco, il prezzo dovrebbe per forza essere una decisione politica, cosa che potrebbe aumentare il rischio di distorsioni della concorrenza.

Per riassumere, l'argomento della "mancata negoziazione" dovrebbe essere letto correttamente come "gli OTT non accettano i nostri termini" piuttosto che come "gli OTT non vogliono negoziare" e per questo il fair share risulta alla fine come la richiesta di una base normativa che riconosca un valore alla terminazione Internet alla luce degli investimenti delle telco nelle reti d'accesso. Tale richiesta di aiuto normativo evoca il meccanismo recentemente introdotto dall'art. 15 della Direttiva sul diritto d'autore 2019/790 che rafforza il potere contrattuale degli editori nelle negoziazioni di diritti accessori con le piattaforme online – una norma controversa che ha probabilmente ispirato l'argomento della “mancata negoziazione” dei sostenitori del fair share. Tuttavia, la direttiva europea sul diritto d'autore non si spinge fino ad imporre un corrispettivo da quantificare attraverso un contenzioso in appello. Questo è invece l'effetto di una simile legislazione sul copyright emanata in Australia, dove gli editori locali (Murdoch in testa) si sono visti riconoscere il diritto a essere pagati dagli OTT anche in assenza di un accordo, vale a dire tramite un accordo giudiziario. Questo è probabilmente il meccanismo desiderato dai sostenitori del fair share.

La fair share tax è necessaria per gli investimenti?

Anche se fosse ingiusta o controversa, si potrebbe comunque sostenere che la fair share tax sarebbe comunque necessaria per finanziare gli investimenti europei nelle reti in fibra e 5G. Questa affermazione appare però dubbia. Infatti in Europa gli investimenti in fibra ottica sono già in fase avanzata ed inoltre esiste una notevole disponibilità di liquidità da parte di fondi (sia infrastrutturali che equity). Peraltro, le stesse grandi telco, quando riferiscono agli investitori, descrivono un quadro molto più roseo della situazione. Difficile quindi sostenere che i proventi del fair share servano per questi tipi di investimenti.  Per il settore mobile il discorso appare invece più complesso, soprattutto perché non è chiaro se il mercato di massa sia disponibile a riconoscere al 5G il maggior prezzo richiesto dagli investimenti. Quindi, il problema non è tanto finanziare il 5G, quanto identificare il business case, almeno per quanto riguarda il mercato di massa. Data tale incertezza, appare discutibile imporre a privati il finanziamento forzoso di tali reti.

Si è inoltre fatto giustamente notare che le telco devono comunque costruire reti (essendo il loro core business) e che il costo di tali reti è scarsamente sensibile all’aumento del traffico IP. Quindi, una volta costruite le reti, l’aumento del traffico IP (dovuto soprattutto allo streaming ed al live) non potrebbe giustificare la fair share tax, visto che si tratterebbe di coprire solo costi marginali - non certo irrilevanti, ma lontani dalle pretese avanzate dalle telco di miliardi di Euro all'anno.

Ma l’obiezione maggiore al tema degli investimenti è che i proponenti del fair share pretendono di incassarne i proventi pur restando vaghi sulla destinazione, senza cioè garantire che tali risorse siano destinate ad investimenti in nuove reti. Il modello di fair share proposto dalle telco europee prevede invece che il contributo degli OTT finisca nelle casse delle società, le quali poi potrebbero usarli a loro discrezione, non solo quindi per investimenti, ma anche per altri scopi (dividendi, stipendi per dirigenti apicali, riduzione dei prezzi retail, investimenti in contenuti ecc). Ci troveremmo quindi di fronte ad una potenziale distorsione della concorrenza, piuttosto che ad un incentivo agli investimenti.  

Inoltre, si porrebbe il problema degli operatori che hanno già effettuato e pianificato gli investimenti in fibra e 5G, senza alcun sostegno della fair share tax. Questi operatori sarebbero paradossalmente penalizzati per essere stati i più rapidi nell’investire, mentre verrebbero premiati quelli che hanno esitato più a lungo possibile, mantenendo in funzione le vecchie reti in rame e mobili di vecchia generazione.       

Come dovrebbe funzionare il fair share

Come abbiamo visto, l’argomento degli investimenti è debole. Per renderlo credibile occorrerebbe concepire la fair share tax in modo diverso da come immaginato dai proponenti: nel caso di una tassazione degli OTT, i proventi dovrebbero essere raccolti dallo Stato e poi distribuiti come fondi pubblici. In questo modo si avrebbe la garanzia che tali risorse siano distribuite dove vi è effettivamente bisogno, nel rispetto delle norme sugli aiuti di Stato, e non siano utilizzate per fini impropri, in particolare per distorcere la concorrenza. 

Inoltre, la tassazione degli OTT dovrebbe avvenire sulla base di criteri obiettivi e tecnicamente coerenti con il funzionamento del mercato. Non certo con l’implausibile argomento “dell’uso delle reti” ma, semmai, si potrebbe sostenere che certi grandi OTT dovrebbero maggiormente contribuire al benessere dell’ecosistema digitale europeo, tenendo conto dei proventi che ne ricavano e della tassazione effettiva a cui sono sottoposti. La complementarità tra OTT e telco potrebbe agevolare questo ragionamento, giacché in un sistema complementare lo Stato può intervenire se ritiene che vi sia uno squilibrio di risorse e benefici.  

Le possibili conseguenze della fair share tax 

In conclusione, una regolamentazione che obbligasse degli operatori (OTT o altri) a pagare una sorta di tassa di terminazione Internet allo scopo di raggiungere i clienti attestati su una rete di telecomunicazioni non sembra giustificata e per di più andrebbe a sconvolgere un mercato che non sembra necessitare un tale intervento normativo. Ci si può però domandare su quali potrebbero esserne le conseguenze pratiche. 

Le conseguenze per il mercato

I mercati dell’interconnessione IP ne verrebbero impattati in vari modi: gli OTT che non considerassero congrua la fair share tax potrebbero decidere di non consegnare più i loro servizi all’interno della UE, ma potrebbero farlo all’esterno della stessa (facendo peering all’estero), con la conseguenza che i servizi si allontanerebbero dagli utenti perdendo in qualità e sicurezza. Una conseguenza del genere è già riscontrabile in Corea del sud, dove una sorta di normativa fair share è già in forza dal 2016: gli OTT stranieri hanno infatti iniziato a fare peering all’estero, preferibilmente in Giappone. 

Inoltre, potrebbe diventare molto più complicato fare peering a causa della rendicontazione amministrativa del traffico potenzialmente richiesta dalla normativa sul fair share, impattando un mercato dove invece il traffico viene scambiato con accordi semplici se non addirittura verbali. Le scelte sulle modalità di interconnessione dovrebbero pertanto adeguarsi alla normativa sul fair share, ponendo in secondo piano le prassi basate su esigenze commerciali, tecnologiche e di sicurezza.  

La concorrenza potrebbe essere falsata perché taluni operatori riceverebbero risorse addizionali sulla base di presupposti non obiettivi, per di più senza alcun obbligo di destinare tali risorse verso investimenti in reti. La fair share tax potrebbe persino essere utilizzata per finanziare politiche aggressive dei prezzi.

Le conseguenze per i consumatori e per la net neutrality

Probabilmente il maggior costo della fair share tax verrebbe ad un certo punto ribaltato dagli OTT sui consumatori, provocando un aumento dei prezzi di certi servizi. Ma ciò non avverrebbe in modo automatico, si tratterebbe di una scelta degli OTT che, peraltro, stanno già aumentando i prezzi per altri motivi. Alcuni OTT potrebbero però trovarsi nella condizione di dover abbandonare il mercato europeo, come ad esempio già accaduto a Twitch in Corea del Sud.

Si è discusso se la fair share tax possa violare il principio della net neutrality, in altre parole la libertà degli utenti di scegliere e usufruire di servizi Internet senza discriminazioni o costrizioni. In effetti, gli studi a favore del fair share rappresentano le telecomunicazioni come un “two-sided market”, in pratica un mercato dove la telco fa da intermediario tra utenti e servizi e quindi influenzandone le scelte. Se così fosse, il rischio di violare la net neutrality sarebbe molto elevato. 

Tuttavia, al momento non si può ancora rispondere a questa domanda, perché bisognerebbe prima sapere come sarà concepita la fair share tax in concreto. Il pericolo ci sarebbe se quest’ultima funzionasse in modo da consentire a determinate telco non solo di tassare certi OTT, ma anche di rendere determinati servizi Internet più o meno accessibili rispetto all’offerta Internet generalista in best effort, e senza giustificazioni obiettive. Se invece la fair share tax funzionasse sulla base di parametri obiettivi e senza incidere sulla fruibilità dei servizi da parte degli utenti, allora il pericolo per la net neutrality sarebbe minore o semplicemente potenziale. 

Va riconosciuto che i proponenti del fair share tax hanno sempre pubblicamente dichiarato di voler rispettare la net neutrality. Tuttavia, nelle discussioni informali tra i corridoi di Bruxelles si percepisce come proprio la net neutrality continui ad essere il set regolatorio più inviso alle grandi telco, che vorrebbero invece avere la libertà di selezionare e differenziare i contenuti accessibili dagli utenti. Quindi, l’elevata attenzione delle associazioni dei consumatori e dei diritti civili è comprensibile.

Fair share e crisi del settore telecom

La crisi delle telecom

Si tratta quindi di un grande tema politico sul funzionamento del mercato digitale, piuttosto che di un problema di investimenti. La frustrazione di alcune grandi telco europee, che è alla base della teoria del fair share, deriva sostanzialmente dal fatto che la value chain dell’ecosistema Internet è cambiata nel corso del tempo e per alcuni non appare più equa, perché premia maggiormente, in termini di profittabilità, gli OTT globali che sono diventati dominanti in determinati settori o nicchie di mercato, mentre i guadagni delle telco tendono ad erodersi per effetto della guerra dei prezzi e del carattere nazionale dei singoli mercati. In altre parole, per alcune grandi telco il fair share costituisce un modo per recuperare margini e profitti, a spese di alcuni gigantesche imprese Internet che non sembrano invece avere problemi di cassa; il tutto però senza correggere i problemi strutturali del settore telecom, e cioè la capacità di investire efficientemente in reti, da un lato, e l’incapacità delle stesse telco di fissare prezzi retail ad un livello conveniente e remunerativo, dall’altro. Ci si potrebbe infatti chiedere perchè le telco non alzino i prezzi agli utenti per recuperare i maggiori costi di investimento, piuttosto che sconvolgere il funzionamento del mercato Internet. 

Il tema della “crisi delle telecom” è peraltro controverso perché tale crisi non è uguale per tutti, come nelle famiglie infelici di Anna Karenina: la situazione finanziaria dei maggiori proponenti del fair share, e cioè Deutsche Telekom, Orange, Telefonica, Tim e Vodafone è diversissima, tra chi ancora fa importanti profitti e chi è schiacciato dal debito. L’unico punto in comune è l’aspirazione ad ottenere una parte dei proventi degli OTT. Non sorprende il fatto che molte telco europee siano rimaste silenti sul tema del fair share, in molti casi perché non convinte dal tema ma comunque pronte a sfruttarne le opportunità, in altri perchè si sono persino schierate contro (soprattutto gli operatori più piccoli). Queste ultime telco vedono infatti nel fair share un pericolo nella misura in cui i relativi proventi potrebbero avvantaggiare alcuni grandi operatori senza alcuna certezza di maggiori investimenti. 

Qualcosa non va in Internet

Resta però il fatto che l’ecosistema Internet non premia allo stesso modo gli investimenti e le posizioni di mercato, e questa discrasia è ben rappresentata dalle capitalizzazioni di borsa, dove le Big Tech normalmente raggiungono cifre ben superiori a quelle dell’industria tradizionali, telecom comprese. Ma questo non vuol dire che Internet sia sinonimo di successo per tutti: la maggior parte delle telco che hanno tentato di vendere servizi Internet non hanno avuto successo, e tante start-up sono fallite. Dall'altro lato, è raro leggere di telco che siano fallite vendendo i loro servizi tradizionali (a parte i carrier internazionali durante la bolla Internet del 2000). 

In altre parole, l’ecosistema Internet è altamente rischioso ma, una volta passata l'iniziale "scrematura" e mettendo da parte i relativi morti e feriti, a quel punto produce una immensa ricchezza per chi è arrivato in fondo. Di tanta contraddittorietà di Internet ci eravamo già accorti, soprattutto guardando alle diseguaglianze sociali e lavorative che sono nate dal 2000 ad oggi. “Capitalism is broken!”, dovrebbero gridare le grandi telco europee, ma se ne guardano bene perché il loro obiettivo non è quello di riformare il sistema, bensì semplicemente di ottenere un sussidio regolamentato a spese dei ricchi OTT americani. La teoria del fair share non pone rimedio alla mancanza di concorrenza in determinati mercati Internet e non impedisce alle Big Tech di continuare a crescere vertiginosamente raggiungendo a volte fatturati e capitalizzazioni di borsa che eguagliano il PIL di alcuni Stati sovrani. La dominanza fornisce a tali giganti formidabili poteri negoziali suscettibili di alterare le normali relazioni commerciali. Ma questo è un problema soprattutto per i piccoli operatori, non per le grandi telco, le quali infatti riescono normalmente ad aggiudicarsi i migliori accordi commerciali con le Big Tech (ad esempio nel campo nel cloud).

L’Unione Europea si è già accorta degli effetti di questa dominanza economica e giustamente ha adottato le nuove regole di concorrenza del Digital Market Act. Difficile però che tale nuovo assetto regolatorio possa essere esteso per includervi il fair share, atteso che tale teoria, nelle intenzioni dei proponenti, non mira a riequilibrare i rapporti i rapporti di forza nell’ecosistema digitale, bensì solo a sussidiare qualche grande telco. 

Conclusioni

La teoria del fair share, attuata in particolare con il meccanismo del SPNP, solleva perplessità perché l'idea di far pagare per legge una terminazione Internet, connaturata agli investimenti in rete di certe telco, è una forzatura politica senza giustificazioni economiche o concorrenziali. Essa potrebbe causare numerosi danni collaterali, sconvolgendo mercati che da sempre funzionano correttamente su base commerciale, distorcendo la concorrenza e pregiudicando i diritti degli utenti sotto vari punti di vista, compresa la net neutrality. Il tutto senza alcuna garanzia che la fair share tax possa essere effettivamente utilizzata per degli investimenti in nuove reti in fibra o 5G.

Tuttavia, aprire un dibattito circa l’opportunità di una maggiore contribuzione dei giganti Internet USA all’ecosistema Internet europeo non dovrebbe essere un tabù: l’Europa costituisce per essi un mercato immenso e vi è la percezione che essi ne traggano profitti elevatissimi, anche per effetto dell’imperfetto funzionamento dei regimi fiscali nei confronti delle multinazionali, in particolare di quelle di Internet. 

Questa eventuale contribuzione dovrebbe però essere valutata sulla base di criteri obiettivi, rispettosi della concorrenza e del funzionamento delle infrastrutture digitali. Non sarebbe ammissibile imporre un sussidio regolamentato a favore di operatori selezionati. Semmai, il fair share potrebbe essere utilizzato per alimentare un fondo statale per lo sviluppo delle infrastrutture di nuova generazione (fibra e 5G).

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Il fair share non curerà la cosiddetta crisi delle telecomunicazioni, né possiamo aspettarci che gli OTT globali possano correre in soccorso delle telco per frenare il declino del settore in termini di profitti, fatturati e capitalizzazione. Con gli OTT servirà soprattutto maggiore cooperazione commerciale, piuttosto che la guerra regolatoria, ma nel rispetto della sovranità tecnologica e delle regole antitrust. Per il resto, le telco dovranno fare da sole, sperimentando nuovi modelli di business (ad esempio il network sharing o la separazione della rete), lanciandosi nuovi servizi innovativi (nel campo IoT, cloud, system integration e 5G) e possibilmente ponendo fine alla dissennata guerra dei prezzi - paradossalmente stimolata proprio dalle telco più grandi attraverso l'espediente dei brand low-cost - che ha bruciato il valore del mercato.    

Il dibattito sul fair share andrà quindi avanti, ma forse bisognerebbe anche pensare di adattarne il nome. Le grandi telco europee che hanno coniato il termine, facendo ricorso al concetto di “equità”, sono società multinazionali quotate in borsa che fanno profitti e distribuiscono dividendi. Nei mercati dove operano esse non sono solite fare regali ai concorrenti e aborriscono qualsiasi forma di regolamentazione, invocando la supremazia del libero mercato. Francamente, non si capisce perché solo nei casi dove esse non siano in grado di raggiungere i propri obiettivi commerciali, le leggi di mercato debbano essere sospese e si debba passare all’equità.

Immagine in anteprima via telefonica.com

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